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Era un sogno!

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Cucchi. Nessuno è Stato

(1 Novembre 2014)

Corte d’Assise d’Appello. Cinque anni dopo, sentenza choc per la morte del giovane detenuto. Cancellata la sentenza di primo grado che condannò sei medici del Pertini di Roma. Non accolta la richiesta di rinviare gli atti in procura. Anselmo: «Andremo in Cassazione»

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«Cosa vuol dire? Che Ste­fano è vivo, è a casa e ci sta aspet­tando?». Sono le prime parole che rie­scono a dire, la madre e il padre di Ste­fano Cucchi, il geo­me­tra tren­tu­nenne morto una set­ti­mana dopo il suo arre­sto (avve­nuto, per pos­sesso di stu­pe­fa­centi, il 15 otto­bre del 2009) nel reparto dete­nuti dell’ospedale San­dro Per­tini di Roma. Dopo nem­meno tre ore di camera di con­si­glio, il giu­dice Mario Lucio D’Andria, a capo del col­le­gio giu­di­cante della prima Corte di Assise d’Appello, legge la sen­tenza che nes­suno si aspet­tava, nem­meno nelle peg­giore — o migliore, a seconda del punto di vista — delle ipo­tesi. Tutti assolti, i dodici impu­tati, in alcuni casi per­ché il fatto non sus­si­ste, in altri per insuf­fi­cienza di prove. I reati con­te­stati, a seconda delle sin­gole posi­zioni, erano abban­dono di inca­pace, abuso d’ufficio, favo­reg­gia­mento, fal­sità ideo­lo­gica, lesioni ed abuso di autorità.

Can­cel­lata dun­que la sen­tenza di primo grado che aveva con­dan­nato solo i sei medici per omi­ci­dio col­poso (tranne una, rite­nuta col­pe­vole di falso), e con­fer­mata per i tre infer­mieri e i tre agenti di poli­zia peni­ten­zia­ria la pre­ce­dente asso­lu­zione. Rifiu­tata la richie­sta del pro­cu­ra­tore gene­rale di una con­danna per tutti gli impu­tati, sia pure con diverse respon­sa­bi­lità e per reati diversi, e riget­tata per­fino la richie­sta dell’avvocato di parte civile, Fabio Anselmo, di rin­viare gli atti alla pro­cura per ria­prire le inda­gini e appu­rare chi, se non gli attuali impu­tati, causò le lesioni riscon­trate — e accer­tate — sul corpo della vittima.

Appena letta la sen­tenza, a dispetto di quanto teme­vano i cara­bi­nieri in ser­vi­zio d’ordine nell’aula al secondo piano di via Romeo Romei, dai ban­chi dove erano seduti i fami­liari e gli amici di Ste­fano Cucchi non si è levata nem­meno una voce. Com­pren­si­bil­mente in festa, invece, gli impu­tati, con i loro legali e con­giunti. Ila­ria, la sorella di Ste­fano che in tutti que­sti anni ha com­bat­tuto stre­nua­mente per appu­rare la verità, non può trat­te­nere lacrime. «Ste­fano è morto di giu­sti­zia, cin­que anni fa, in que­sto stesso tri­bu­nale dove, in una udienza diret­tis­sima, dei magi­strati non hanno notato le sue con­di­zioni — dice — Le con­di­zioni di un ragazzo che sei giorni dopo si è spento tra dolori atroci, solo come un cane». «È stato ucciso tre volte, e lo Stato si è autoas­solto – aggiun­gono i geni­tori, Gio­vanni e Rita Cucchi – andremo avanti, non ci fer­me­remo mai, lo dob­biamo a lui e agli altri ragazzi morti men­tre erano nelle mani di chi avrebbe dovuto tute­lare la loro inco­lu­mità». Dopo un attimo di sco­ra­mento, l’avvocato Anselmo riac­cende la spe­ranza: «Aspet­tiamo le moti­va­zioni della sen­tenza e poi faremo ricorso in Cassazione».

Ieri mat­tina, prima che i giu­dici si riti­ras­sero in camera di con­si­glio, il pena­li­sta aveva chie­sto che la sen­tenza di primo grado venisse annul­lata e che venis­sero «resti­tuiti gli atti alla pro­cura per­ché la sen­tenza è nulla alla radice, visto che si è fatto un pro­cesso per lesioni senza aver prima con­te­stato il reato di omi­ci­dio pre­te­rin­ten­zio­nale». Fabio Anselmo, mostrando alla giu­ria alcune gigan­to­gra­fie del corpo di Cucchi, ha fatto notare che il rico­vero del gio­vane non era «avve­nuto per magrezza come qual­cuno vor­rebbe sup­porre, ma per poli­trau­ma­ti­smo. Cucchi — ha pro­se­guito Anselmo — non era tos­si­co­di­pen­dente. Lo era nel 2003, ma in quei giorni aveva una vita del tutto nor­male, come ci hanno rife­rito alcuni testi. Agli esami cli­nici il fun­zio­na­mento degli organi era nor­male». Ed è pro­prio que­sto pen­siero che addo­lora mag­gior­mente la fami­glia Cuc­chi: «Era un ragazzo che tra mille dif­fi­coltà stava cer­cando di ripren­dere in mano la pro­pria vita», mor­mora la signora Rita. Una sen­tenza «dis­so­nante con le con­clu­sioni della com­mis­sione d’inchieta del Senato», com­menta Igna­zio Marino che l’ha pre­sie­duta. «Molto sod­di­sfatti», invece i difen­sori dei medici e del pri­ma­rio dell’ospedale Per­tini secondo i quali «il punto nodale era ed è che esi­stono dubbi sulla causa di morte di Cucchi, e que­sto esclude la respon­sa­bi­lità del medici».

Ma chi pro­vocò a Cuc­chi le lesioni ver­te­brali accer­tate dagli esami autop­tici e dalle peri­zie di parte? Per i pm del pro­cesso di primo grado, il gio­vane fu “pestato” nelle camere di sicu­rezza del tri­bu­nale prima dell’udienza di con­va­lida del suo arre­sto. Una ver­sione rifiu­tata dai giu­dici della Terza Corte d’Assise secondo i quali Ste­fano morì in ospe­dale per mal­nu­tri­zione, tra­scu­rato e abban­do­nato dai sei medici che ieri, invece, sono stati assolti. Il pestag­gio ci fu, scris­sero i giu­dici nelle moti­va­zioni della sen­tenza di primo grado, ma «plau­si­bil­mente» fu opera dei cara­bi­nieri che lo ave­vano in custo­dia, non degli agenti penitenziari.

Di altra opi­nione, il pro­cu­ra­tore gene­rale della Corte d’Appello, Mario Remus, secondo il quale Cucchi fu pic­chiato dopo l’udienza di con­va­lida. Anche se ieri Remus, in fase di replica, ha tenuto conto del fatto che qual­che set­ti­mana fa, nelle ultime bat­tute del cor­poso iter pro­ces­suale che ha visto deporre davanti ai giu­dici quasi 150 testi­moni, la parte civile chiese l’acquisizione della testi­mo­nianza ine­dita dell’avvocato Maria Tiso che, in una mail inviata al col­lega Anselmo, ha rac­con­tato di essersi tro­vata quella mat­tina nel cor­ri­doio che con­duce all’aula 17 del palazzo di Giu­sti­zia e di aver visto Ste­fano scor­tato dai cara­bi­nieri «in con­di­zioni tali da far pen­sare a un pestag­gio subito». Prove evi­den­te­mente non suf­fi­cienti per la corte d’Appello che però non ha rite­nuto nem­meno di dover chie­dere un sup­ple­mento d’indagine.

Uno per tutti, il com­mento laco­nico di Amne­sty inter­na­tio­nal Ita­lia: «Verità e giu­sti­zia ancora più lontane

Eleonora Martini, il manifesto

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