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L'asino d'oro e altre favole

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(23 Dicembre 2011) Enzo Apicella

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PERSONALIZZAZIONE DELLA POLITICA E CARENZA DI LEADERSHIP: PERCHE’ LA RISPOSTA NON POTREBBE ARRIVARE DAI PARTITI?

(18 Novembre 2014)

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Michele Salvati

“La lettura” (del Corriere della Sera) di domenica 16 Novembre ospitava sulle sue colonne un, per certi versi sorprendente, intervento di Michele Salvati dal titolo: “La democrazia è in crisi, nulla di nuovo. Inutile rimpiangere l’epoca dei partiti di massa. Il guaio è la carenza, non l’eccesso di leadership”.
E, nel catenaccio: “I sistemi parlamentari hanno difetti oggi aggravati da euro e globalizzazione. Gli elettori? Sono diventati un pubblico”.
Nella parte conclusiva del suo intervento l’autore individua le cause di questo stato di cose (sulle quali per la verità ci si sta esercitando da qualche tempo anche con una certa intensità d’analisi):
“…è il mutamento che ha condotto dai grandi partiti ideologici di massa ancora dominanti sino a metà del secondo dopoguerra ai partiti attrezzati a operare nella “democrazia del pubblico” come la chiama Bernard Manin”
Un passaggio che seconda Salvati ha determinato “il passaggio dall’oligarchia prodotta dalla democrazia associativa a una forte personalizzazione della leadership: gli elettori stanno a casa, sono diventati un “pubblico” atomizzato di fronte ai quali i leader dei partiti (se ancora ci sono: più in generale gli imprenditori politici) sciorinano, in televisione, la loro mercanzia sperando di carpirne il voto, di indurli a comprarla. Che questo produca rischi di plebiscitarismo e populismo è fuori di dubbio””.
Emergono così rischi di plebiscitarismo e cesarismo (sempre secondo le definizioni di Salvati) da “non paventare ogni volta che appare sulla scena un leader dotato di capacità d’iniziativa e di decisione”.
L’altro elemento in una qualche misura sorprendente nelle affermazioni di Salvati risiede però, in conclusione dell’intervento laddove, per contrastare i rischi appena paventati, si evoca l’uso degli strumenti costituzionali in modo da rafforzare la possibilità di allargamento della “leadership” in modo da ovviare alla carenza che ha portato ai rischi di cesarismo, ma nello stesso tempo si escludono i partiti quali soggetti adatti proprio alla costruzione di questa nuova élite allargata.
Citando Max Weber Salvati conclude in questo modo “Sappiamo che ciò di cui la democrazia maggiormente soffre è la mancanza di leadership individuali, di decisione e d’iniziativa, non di suo eccesso”.
Come può essere possibile, invece, costruire una “élite dirigente” collettiva e condivisa sul modello dell’intellettuale collettivo?: quella “élite dirigente” che pare invece essere la sola risposta possibile al cesarismo che pure Salvati denuncia, sia pure non opponendosi al leader solitario dotato di “capacità d’iniziativa e decisione”.
Sarà bene intenderci subito su di un’affermazione essenziale: la democrazia non è possibile senza partiti politici, perché il “pluralismo si esprime anche in organizzazioni stabili, durature, diffuse, che si chiamano – appunto – partiti” (Kelsen 1929, trad.it. 1966).
I partiti svolgono funzioni non assolvibili da nessun’altra organizzazione e non soltanto dal punto di vista della promozione elettorale, ma anche nei compiti oggi largamente disattesi se non del tutto ignorati della partecipazione alla vita pubblica, della formulazione di programmi, ai compiti di acculturazione di massa e di vera e propria integrazione sociale.
Partiti che vivono ormai soltanto attorno a due fattori determinanti: il potere di spesa e quello di nomina che nel caso del cesarismo apparterebbero soltanto al “leader” e ai suoi cortigiani (quella nuova élite non democratica che con termine giornalistico è ormai uso definire come “cerchio magico”).
Il punto da rimettere in discussione fino in fondo, allora, è quello riguardante il “come” si formano i gruppi dirigenti opposti alla soggettivizzazione della leadership (quella che sta alla base del deleterio fenomeno dell’individualismo competitivo), come avviene la selezione del personale politico, come si costruiscono quelle élite chiamate al compito di dirigere la vita pubblica.
In questo senso è necessario non cadere in un errore: scambiare la capacità di direzione politica da parte dell’élite con il “governo dei filosofi” basato esclusivamente sulla superiorità di una scienza predeterminata considerando così la posizione soggettivamente elitaria attribuita al singolo come insuperabile e inamovibile.
L’elemento fondante di un possibile aggiornamento della “teoria delle élite” lo indica già lo stesso Vilfredo Pareto , allorquando individua nell’eterogeneità sociale il costruirsi di una dicotomia ”stabile” tra una classe superiore e una classe inferiore e indica l’unica possibilità per ritrovare i migliori nelle posizioni di vertice nel continuo ricambio delle élite e al passaggio d’individui da una classe all’altra (Sola, 2000).
Tocca però ad Antonio Gramsci costruire sul piano teorico la nozione di élite, partendo dall’insoddisfazione per la definizione coniata da Gaetano Mosca di “classe politica”.
Al pensatore sardo (“Quaderni del carcere” volume III, edizione Einaudi 1975) la definizione “classe politica” appare “elastica e ondeggiante”, dal momento che “talvolta essa sembra sinonimo di classe media, altre volte è impiegata per indicare l’insieme delle classi possidenti, altre volte ancora fa riferimento alla “parte colta” della società o, più restrittivamente, al “personale politico” inteso come ceto parlamentare dello Stato.
Per ovviare a questi inconvenienti e per ancorare la teoria delle élite alla metodologia marxiana e alla teoria delle classi, Gramsci, che pure utilizza in diverse occasioni il termine élite, propone di distinguere tra classe dirigente e classe dominante.
Il criterio che egli adotta è direttamente riferito al lessico marxista, ma tiene conto anche delle riflessioni di Pareto in tema di “forza” e di “consenso”.
Premesso quindi che la supremazia di un gruppo sociale si manifesta in due modi, come “dominio” e come “direzione intellettuale e morale” Gramsci propone di chiamare classe dirigente quel gruppo che s’impone attraverso il consenso, ovvero esercita l’egemonia sugli altri gruppi sociali.
Viceversa è classe dominante quel gruppo che s’impone esclusivamente con la forza, con cui tende a liquidare o a sottomettere i propri avversari.
Una classe può essere dominante e non dirigente oppure dirigente e non dominante.
Per Gramsci una classe politica può essere veramente tale se riesce a stabilire un corretto equilibrio nell’esercizio dell’egemonia.
Il tema della costruzione delle élite è quindi strettamente connesso al tema dell’egemonia come conferma anche lo stesso teorico del “governo” Robert Dahl (1958) allorquando indica che : l’élite deve costituire un gruppo ben definito; le opinioni di questa élite debbono essere in contrasto con quelle di ogni altro possibile gruppo analogo; in tali casi, implicanti questioni politiche fondamentali le scelte dell’élite prevalgono regolarmente.
E’ proprio l’ultima affermazione che ci riporta all’attualità perché è proprio l’assenza di capacità nell’individuare le questioni politiche fondamentali che impedisce la formazione stessa delle élite (mancando il presupposto indispensabile del “gruppo”) e di conseguenza la possibilità di far prevalere una tesi sull’altra proprio per l’assenza di definizione precisa dei termini di alternatività tra le tesi stesse.
Gli assunti di paradigma sui quali può poggiare il rinnovamento di una ricerca attorno alla costruzione di una élite possono essere così definiti: la politica è lotta per la preminenza e il potere va concepito come “sostanza” e non come “relazione”; è necessario avere ben presente la distinzione tra potere reale e potere apparente ed è questo un punto di grande importanza nei termini attuali della post-globalizzazione e del ritorno al conflitto tra sovranazionalità e nazionalità”; la lotta per il potere e l’attività politica in generale è fatto “minoritaria” nella società; la conquista, il mantenimento, la gestione del potere corrispondono alla capacità di coordinazione dei gruppi politici; la società è una realtà irrimediabilmente eterogenea, gerarchica, e conflittuale; ci si deve soffermare sul ruolo che le idee, i miti e le dottrine assumono nel processo di legittimazione dell’autorità ( a proposito, per esempio, della mistificante dottrina della “fine delle ideologie” propagandata fin dagli anni’80 dai gruppi conservatori statunitensi e britannici).
In definitiva, il tratto essenziale della struttura di ogni società consiste nell’organizzazione dei rapporti che intercorrono tra governanti e governati, tra minoranza organizzata e maggioranza disorganizzata e nelle relazioni che si stabiliscono tra i diversi gruppi che detengono ed esercitano il potere: con buona pace di chi pensa come realistiche proposizioni quali quelle della “democrazia diretta” e della “democrazia del pubblico”.
Sono questi gli elementi che debbono essere sottoposti alla riflessione politica nell’attualità del disfacimento del sistema cui stiamo assistendo : una riflessione da portare avanti attraverso un lavoro di studio che punti, proprio per citare nuovamente Gramsci, alla riunificazione tra teoria e prassi con un’ipotesi complessiva di trasformazione sociale collegata a un élite ricostruita nell’interezza della sua identità di gruppo.
Naturalmente molte questioni sono state sottintese nell’elaborare questo intervento: l’analisi delle diverse specie di élite presenti in una stessa società, il tema delle relazioni tra le élite stesse e le masse, l’approfondimento circa i meccanismi di legittimazione che debbono essere attuati nell’acquisizione, nell’esercizio, nella detenzione e nel rovesciamento del potere.
Si tratta di punti essenziali da sottoporre, prima di tutto, a un non facile lavoro di vera e propria “ricostruzione intellettuale”, quello al quale pensiamo ci si debba dedicare con grande impegno in questa fase, senza dimenticare però l’attualità drammatica dei fenomeni di vero e proprio arretramento di massa in corso sul terreno delle condizioni di vita, dell’arretramento nella disponibilità di diritti individuali e collettivi, nel restringimento dei termini di esercizio della democrazia.
Per elaborare questo intervento sono stati consultati questi testi : Giorgio Sola: “La teoria delle élite”, “IL Mulino”, Bologna 2000; “I paradigmi della scienza politica” “Il Mulino”, Bologna 2005. Antonio Gramsci “Quaderni del Carcere” edizione a cura di Valentino Gerratana, “Einaudi” Torino 1975, Robert Dahl “Who Govern” (in Luigi Graziano: Lobbyng, pluralismo, democrazia, Carocci Editore Roma 1995), Hans Kelsen “Essenza e valore della democrazia” traduzione italiana di M. Barberis “IL Mulino”, Bologna 1998.

Franco Astengo

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