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L’imperialismo, le grandi potenze e i paesi minori

(10 Dicembre 2014)

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In un articolo dal titolo “Sul concetto di imperialismo unitario” Sebastiano Isaia sviluppa posizioni teoriche che ritengo incompatibili con quelle di Lenin. (Occorre precisare che non si tratta della omonima teoria di Lotta comunista, ma di uno sviluppo specifico di Isaia).
Ecco alcuni brani dell’articolo: "In che senso nelle mie analisi “geopolitiche” parlo di imperialismo unitario? Nel senso che la competizione interimperialistica si dà dentro una comune dimensione storico-sociale: il Capitalismo, naturalmente. Per essere più precisi: la società capitalistica nella fase totalitaria e mondiale del dominio del Capitale. In questo senso parlo anche di Società-Mondo, concetto che naturalmente non annulla lo scontro tra le Potenze (su questo punto ritornerò tra poco), che si sviluppa appunto in un mondo soggetto a un unico rapporto sociale di dominio e di sfruttamento.” “In conclusione o, meglio, come prima approssimazione, possiamo dire che il concetto di imperialismo unitario qui esposto non giustifica alcuna negazione o sottovalutazione delle differenze che necessariamente, in virtù dell’ineguale sviluppo capitalistico nei diversi nodi della rete mondiale, insistono tra le potenze che si disputano l’egemonia sul mondo. Ho cercato piuttosto di negare nel modo più radicale a quelle differenze lo status di contraddizioni suscettibili di venir utilizzati in chiave antimperialista. Credere che in qualche modo si possano usare strumentalmente (“tatticamente”) le nazioni e le potenze contingentemente più deboli contro le nazioni e le potenze più forti del momento, così da indebolire e possibilmente sconfiggere l’imperialismo mondiale nel suo complesso, significa non aver compreso né la natura del processo sociale considerato alla scala mondiale, né la sua dialettica interna, né le lezioni della storia, la quale non a caso è un cimitero di aspiranti “grandi strateghi”.(1)
L’ultima parte della citazione è assolutamente inconciliabile con la teoria di Lenin sull’imperialismo. Conoscere Marx ed avere una grande confidenza con la letteratura a questi connessa, non vuol dire essere marxista. E S. Isaia non si definisce tale: nel suo sito, infatti, si legge: “Proprio per non essere associato alla sinistra italiana il Nostromo (suo pseudonimo) preferisce ricusare ogni etichetta tradizionale (marxista, comunista, ecc.)”. (Dall’articolo: “Chi è il Nostromo”). Non parla di «Comunismo», ma di «Comunità Umana» e si definisce un «militante del punto di vista umano».
Penso, invece, che Lenin abbia fornito un quadro teorico molto saldo dell’imperialismo, si tratta di aggiornare i dati e trarre indicazioni politiche dalla situazione odierna. Una rivisitazione, non la ricerca di una teoria nuova.
Nelle ultime righe della citazione si nega che la contrapposizione tra le nazioni deboli e le potenze possa essere utilizzata contro l’imperialismo, soprattutto questo è il punto si cui ci dobbiamo soffermare.
Poiché l’imperialismo non è un sistema economico sociale a sé, ma una fase del capitalismo, occorre esaminare l’era precedente: Marx ed Engels non considerarono mai ugualmente pericolosi per la causa proletaria i diversi stati, e neppure le diverse potenze. Nella lettera ad Engels del 4 novembre 1864, Marx, a proposito dell’Indirizzo inaugurale dell’Associazione Internazionale degli operai (la I Internazionale), sottolineava: “ denunzio la Russia, non le minores gentium” (le nazioni minori). Si batté per far comprendere ai proletari la necessità di prendere posizione in politica estera, il che ai proudhoniani sembrava quasi una bestemmia. Alla denuncia della Russia zarista come massimo pericolo, preferivano una generica protesta “contro tutti i dispotismi”. Ci sono anche l’Austria, la Prussia, la Francia, l’Inghilterra... – ripetevano- perché prendersela con la sola Russia? (2) A un’indagine superficiale, sembravano considerazioni basate sul buon senso. In realtà, la rivoluzione del 1848-1849 fu la dimostrazione che l’impero d’Austria non era in grado di piegare la rivolta ungherese, mentre l’intervento zarista fu determinante. Ancora più eloquenti esempi della funzione della Russia furono le guerre contro la repubblica francese e poi contro Napoleone, le terribili repressioni in Polonia, e la conquista del Caucaso, tra la colpevole indifferenza dell’Europa. “Questi due affari, la repressione dell’insurrezione polacca e la presa di possesso del Caucaso, io li considero come i due più importanti avvenimenti europei dal 1815 ad oggi. Pam (Palmerston) e Bonaparte possono dire adesso di non avere governato invano, e se la guerra dello Schleswig- Holstein è servita soltanto a buttar sabbia negli occhi della Germania e della Francia sui grandi avvenimenti, ha fatto tutto il suo a favore dei russi, qualunque possa essere l’esito della conferenza di Londra”. (Marx ad Engels, 7 giugno 1864). Naturalmente l’opinione pubblica vide la guerra dello Schleswig- Holstein e non si preoccupò per la conquista del Caucaso - posizione strategica di enorme importanza - e per la schiavizzazione delle sue popolazioni. Oggi è ancora peggio: tutti sanno delle chiassate delle Femen, pochi si rendono conto che gli Stati Uniti si stanno gradatamente impadronendo dell’intera Africa, mentre i maggiordomi inglese e francese e lo sguattero italiano reggono il candelabro. E col benestare di Russia e Cina, che non hanno mosso un dito per impedire che la Nato distruggesse la Libia, aprendo il varco verso l’intero continente.
Marx ed Engels non avevano aspettato questi avvenimenti per prendere posizione contro lo zarismo, anche ricorrendo ad alleanze che potevano scandalizzare i filistei. Marx collaborò a lungo con Urquhart (e suoi cooperatori in Germania) scrivendo sui suoi giornali. A Lassalle, che chiedeva spiegazioni, rispose (2 giugno 1860) che con Urquhart non aveva mai scambiato una parola sulla politica interna “da quando ho dichiarato una volta per tutte che io sono rivoluzionario ed egli con la stessa franchezza mi ha dichiarato che tutti i rivoluzionari sono agenti o dupes (zimbelli) del gabinetto di Pietroburgo.” Quindi il rapporto era limitato “al campo della politica estera, nella quale noi andiamo d’accordo con gli urquartisti”. Quanto a Urquhart “è certamente un reazionario dal punto di vista soggettivo (romantico)... ciò non impedisce affatto al movimento che egli guida in politica estera di essere oggettivamente rivoluzionario”. Questa ostilità di Marx ed Engels per la Russia zarista non aveva un carattere nazionalistico, ma derivava da un’approfondita analisi storica sulla funzione controrivoluzionaria di quel regime, perciò non impedì loro di seguire con estrema attenzione e di appoggiare, nei decenni successivi, i rivoluzionari russi, anche se di formazione populista.
L’insurrezione polacca e la conquista del Caucaso intese come i due fatti più importanti dal 1815 (più della rivoluzione 1848 -1849!), la collaborazione con Urquhart (reazionario in politica interna, ma rivoluzionario in politica estera), il tifo dei fondatori del marxismo, nelle guerre tra Russia e Turchia, per quest’ultima: ce n’era abbastanza per far girare la testa ai proudhoniani, con la loro generica protesta contro tutti i dispotismi e ai lassalliani, che consideravano tutte le classi non proletarie come un’unica massa reazionaria. Non potevano capire che solo il crollo del bastione controrivoluzionario russo poteva garantire la ripresa delle lotte rivoluzionarie in Europa, e coinvolgere nella caduta Asburgo, Hohenzollern e il regime turco. La caduta del muro maestro della reazione comporta anche il crollo dei muri divisori. Marx Engels davano, inoltre, un’estrema importanza alla lotta delle nazioni minori, soprattutto alla Polonia, baluardo contro lo zarismo, e all’Irlanda, la cui liberazione era indispensabile per l’emancipazione sociale del proletariato inglese, perché un popolo che ne assoggetta un altro non può essere libero.
Molto bene, questo al tempo di Marx - dirà qualcuno - ma ora siamo nell’era imperialistica. Vero, ma non deve essere la scusa per capovolgere la politica di Marx e tornare a una generica opposizione a tutti i dispotismi, come i proudhoniani, o considerare le classi non proletarie come un’unica massa reazionaria, come i lassalliani, e rinunciare a una precisa posizione in politica estera. La Terza Internazionale, almeno finché visse Lenin, non commise questi errori.
Lenin fu costretto a polemizzare duramente, su queste questioni, non solo con notori opportunisti, ma anche con comunisti (Piatakov, Radek e persino Bucharin) che negavano o sottovalutavano la possibilità, nel periodo imperialistico, di portare avanti la rivendicazione del diritto di autodecisione dei popoli, e la lotta per le riforme e la democrazia.(3) Con riforme non s’intendono quelle chieste dai partiti borghesi, ma quelle che aprono la via allo sviluppo del movimento operaio, come, ad esempio, la riduzione per legge dell’orario di lavoro. Democrazia riguarda, non i mille trucchi dei politici borghesi, ma, per esempio, il diritto all’autodecisione, l’emancipazione della donna, che non esiste in buona parte del mondo, ed è limitata anche in paesi di grande sviluppo economico. Riguarda pure l’agibilità politica e sindacale dei lavoratori, la difesa contri gli arbitri polizieschi, e così via. Queste rivendicazioni sono rese più difficili dall’imperialismo, ma non impossibili, e non devono essere abbandonate.
Mi sembra utile riportare un passo di un intervento di un esponente della Frazione di sinistra del PCdI alla Conferenza nazionale della Ligue Communiste de France (ottobre 1931): divideva le parole d’ordine democratiche in 4 tipi. Si possono riassumere così:
1) le parole d’ordine che rispondono a esigenze vitali - non solo economiche, ma anche in certi contesti, politiche – delle masse lavoratrici e della loro lotta contro il capitale, per esempio il diritto di espressione, di riunione, d’associazione, di sciopero, ecc. Si chiamano democratiche perché riguardano anche altre classi.
2) Le parole d’ordine che traducono il contenuto di rivoluzioni borghesi, di cui il capitalismo non può e non vuole spingere avanti la realizzazione, in particolare nel campo agrario. La mancata soddisfazione di queste esigenze dà ai contadini poveri e senza terra un potenziale sovversivo suscettibile di fornire un contributo prezioso alla rivoluzione proletaria.
3) Le parole d’ordine corrispondenti alla situazione dei paesi coloniali, in cui i problemi della rivoluzione proletaria sono indissolubilmente intrecciati con quelli della rivoluzione borghese e della lotta contro l’imperialismo. Senza rivendicarle come proprie, il proletariato (e il suo partito) deve dare apertamente il suo appoggio a queste esigenze.
4) Le parole d’ordine relative all’esercizio del potere della borghesia. Il proletariato dei paesi avanzati non può appoggiarle, se non vuole cadere nel riformismo.(4)
Condivido pienamente queste posizioni.
Nonostante gli insegnamenti di Lenin, la tendenza a disconoscere alcune di queste rivendicazioni, segnatamente quella dell’autodeterminazione dei popoli, rinasce continuamente, anche perché ha un’apparenza particolarmente radicale.
In questa “Società –mondo” di S. Isaia si nega che la contrapposizione tra le nazioni più deboli e gli imperialismi possa avere sviluppi classisti. Invece Lenin dice: “La rivoluzione socialista può divampare non soltanto in seguito a un grande sciopero o a una grande dimostrazione di strada, o a una rivolta dovuta alla fame, o in seguito a un ammutinamento militare, o a un’insurrezione coloniale, ma anche in seguito a una qualsiasi crisi politica come l’affare Dreyfus, l’incidente di Zabern, oppure a un referendum sulla questione della separazione di una nazione oppressa, ecc” (5). L’incidente di Zabern: si riferisce a violenze di un prussiano contro alsaziani, nel novembre 1913 a Zabern in Alsazia.
Lenin non si lega le mani e non pronuncia un voto di castità in politica estera dichiarando che le contraddizioni tra paesi minori e tra grandi potenze non possono essere utilizzate in chiave antimperialistica. Pensate a Lenin e ai bolscevichi, che trattarono con lo stato maggiore tedesco il viaggio in Russia sul famoso vagone piombato. Usarono, per usare le parole di S. Isaia, “strumentalmente, tatticamente” i contrasti tra nazioni imperialistiche, come un qualsiasi “aspirante grande stratega”? Gli accordi di Brest-Litovsk, l’appoggio dato alla Turchia nella guerra contro l’Intesa, il congresso di Baku in cui s’invitavano i popoli d’oriente a condurre una “guerra santa” contro l’Inghilterra, sarebbero stati inani tentativi di chi non ha compreso “né la natura del processo sociale considerato alla scala mondiale, né la sua dialettica interna, né le lezioni della storia”? L’interpretazione di S. Isaia dell’imperialismo comporterebbe la rinuncia a ogni politica estera per il proletariato. Con tutto il rispetto per le sue teorizzazioni, trovo più suggerimenti e indicazioni politiche per la lotta di classe odierna nell’analisi di Lenin che nella sua.
Se esistono nazioni imperialiste, esistono necessariamente nazioni vittime dell’imperialismo, ma questo, per questa versione di “imperialismo unitario”, fa parte di una logica puramente interna all’imperialismo. Ne deriva che, se Israele invade Gaza o il Libano, o gli Stati Uniti invadono Grenada, o occupano Haiti con la scusa di portare soccorso ai terremotati, le lotte e le proteste che ne derivano non si possono utilizzare in senso classista. Provate ad applicare questo criterio alle guerre di liberazione d’Algeria, del Congo, del Vietnam, alla rivolta delle colonie portoghesi. Le straripanti piazze che in America e in Europa protestavano contro l’invasione del Vietnam sarebbero risultati fenomeni interni all’imperialismo? Un proletario del paese dominante che scende in piazza per rivendicare la liberazione di una colonia del proprio paese fa una scelta internazionalistica. La lotta di liberazione del Congo mostrò una chiara connessione col gigantesco sciopero del 1960 nella madrepatria, il Belgio. Quanti giovani di allora fecero i primi passi verso l’internazionalismo partendo dall’indignazione per le repressioni dell’imperialismo in Kenia, in Algeria, in Congo, e dall’entusiasmo per le lotte di liberazione! Lo stimolo a leggere Marx e Lenin venne anche dalla necessità di comprendere questi fatti storici.
Le rivoluzioni borghesi in Africa e Asia non ebbero la possibilità di trascrescere in rivoluzioni socialiste perché ai vecchi colonialismi (inglese, francese, belga, olandese, portoghese, quello italiano estinto con la guerra mondiale) subentrò il più potente imperialismo USA, che, ipocritamente, non chiama colonie ma libere democrazie i paesi occupati e guidati da Quisling, o dall’ambasciatore USA, in realtà un proconsole con pieni poteri.
Oggi, il dominio della repubblica stellata è in crisi. La particolare pericolosità odierna degli USA deriva dal fatto che la loro supremazia economica è al tramonto, e tutto l’attivismo diplomatico, politico, spionistico, militare, terroristico ha lo scopo di ritardare l’ascesa di nuove grandi potenze globali.
Gli Stati Uniti sono alla testa di un’alleanza, la Nato, al confronto della quale la Santa Alleanza era un gioco da fanciulli; da soli spendono la metà del bilancio mondiale degli armamenti, trattano gli alleati come vassalli, invadono con i più diversi pretesti i paesi petroliferi e quelli sulla rotta dei gasdotti e oleodotti, con i droni inseguono terroristi veri e presunti massacrando nel frattempo migliaia di innocenti. Hanno riempito Europa e Asia di loro basi, e, tra la colpevole indifferenza degli altri paesi, stanno creando in tutta l’Africa una rete di contatti e di presenze militari del tutto analoga a quella che nei decenni scorsi ha schiavizzato l’America latina. Hanno finanziato, fingendo di combatterli, i peggiori terroristi, da Al Qaeda a Boko Haram al Califfato dell’ISIS, per crearsi il pretesto per interventi militari. Questo regime è caratterizzato da un revisionismo bellico paragonabile solo a quello dei paesi dell’asse negli anni trenta, con la differenza che si ammanta di ideali democratici.
Sarebbe assurdo se un comunista, invece di denunciare gli Stati Uniti, e le altre potenze, dirigesse le sue lotte principalmente contro i piccoli paesi, le “minores gentium” di Marx. Tra gli imperialismi più importanti, nonostante le ridotte dimensioni territoriali, c’è Israele, che ha un armamento atomico quantitativamente paragonabile a quello della Cina, un esercito rifornito delle più moderne armi da Stati Uniti, Francia, Inghilterra, Germania, Italia; può compiere le sue esercitazioni devastando e inquinando la Sardegna, ed è continuamente rimpinzato di dollari, non solo dei banchieri e miliardari, ma anche e soprattutto del disgraziato contribuente americano. Lo sciovinismo bellico di Israele è stato denunciato da molti ebrei coraggiosi. Quanto a Gran Bretagna, Francia, Italia hanno classi dirigenti sempre più agli ordini di Washington. Per noi, comunisti e lavoratori italiani, la lotta contro il nostro imperialismo, quello della NATO e degli Stati Uniti in particolare, diventa una sola perché il nostro paese è una piattaforma di basi per le guerre in Africa, in Medio Oriente, e, potenzialmente, contro la Russia. Lenin disse che nella prima guerra mondiale il male minore sarebbe stato la sconfitta della Russia zarista, noi con altrettanta chiarezza dobbiamo dichiarare che il male minore sarebbe la sconfitta della Nato, del suo malefico potere militare, della CIA e delle altre organizzazioni spionistiche americane, che danno ordini anche ai nostri servizi segreti. Anche perché una sconfitta degli USA, che li costringa ad abbandonare effettivamente ( e non sostituendo i soldati con i contractor o altri mercenari) l’Iraq, l’Afghanistan, il Pakistan e gli altri paesi occupati, può risvegliare il gigante in grado di colpire al cuore l’imperialismo più forte, il proletariato americano. Dobbiamo capire che il crollo del muro maestro del capitalismo, gli USA, può scatenare la rivoluzione mondiale. Come avvenne per la Russia , che da centro principale della reazione zarista divenne con l’ottobre rosso il centro della rivoluzione, la stessa cosa potrebbe avvenire con Washington. Per questo, occorre concentrarsi nella lotta contro i grandi imperialismi: “I grandi risultati si traggono dietro i piccoli; e gli effetti strategici possono quindi raccogliersi intorno a determinati centri di gravità”, scriveva Clausewitz, e Lenin consigliava ai bolscevichi di studiare il suo trattato, per le evidenti analogia tra politica e arte militare.
Occorre denunciare, oltre agli Stati Uniti e Nato, anche la Russia di Putin, che rivaluta lo zarismo e i pope, definisce Lenin e i bolscevichi “traditori della Patria” per il loro disfattismo rivoluzionario, corteggia Israele anche quando questa distrugge Gaza. Attrae l’opposizione dei borghesi danneggiati dalle sanzioni imposte dagli USA, e si ammanta di un’immeritata fama di antimperialismo. La posizione fondamentalmente difensiva non è frutto di una maggiore saggezza di Putin rispetto ad Obama, ma dei rapporti di forza, soprattutto militari.
In conclusione: la impostazione di Marx - Engels e quella di Lenin, in perfetta continuità e compatibilità, pur tenendo conto degli sviluppi storici, lasciano molte vie aperte alla lotta di classe, molti “detonatori” che possano facilitare l’esplosione della lotta di classe nelle metropoli. Questi nascono dalla ribellione delle nazionalità oppresse, dalle rivolte delle masse contadine povere ma non ancora pienamente proletarizzate di Asia, Africa e America latina. Dal fatto che, persino nei paesi più sviluppati, esistono settori arretrati, e che le guerre riportano paesi relativamente evoluti come Iraq, Siria, Libia ad una economia del baratto e della borsa nera. Lenin criticò Bucharin, che vedeva la società completamente imperialista in tutti i suoi aspetti, e ribadì che non esiste imperialismo puro senza il sottofondo del vecchio capitalismo concorrenziale. Quanto al totalitarismo, non è specifico dell’epoca recente, ma è presente nella società imperialista fin dall’inizio, col massacro dei popoli coloniali, l’indifferenza con cui la classe dominante mandava milioni di persone a morire nelle trincee, o gli assassinii, nel paese per eccellenza della democrazia, gli USA, di neri e di comunisti. Il fascismo nacque quasi cento anni fa. Nessuno pensi, quindi, che ci sia una differenza di natura tra l’imperialismo dell’età di Lenin e quello attuale, e che le sue conclusioni teoriche siano da relegare in soffitta.

Note
1) Sebastiano Isaia, “Sul concetto di imperialismo unitario” in “Nostromo”, 27-11- 2014.
2) Memoria dei delegati francesi al congresso di Ginevra (1866).
3) Lenin, “Sulla tendenza nascente dell' "economicismo imperialistico", (agosto-settembre 1916);
“Intorno a una caricatura del marxismo e all’economismo imperialistico” (agosto-ottobre 1916)
4) «Trotsky, ‘La Fraction de gauche du PC d’Italie’ et les ‘Mots d’ordre démocratiques’», in ‘Programme Communiste’ n. 84-85, Ottobre 1980, marzo 1981.
5)Lenin, “La rivoluzione socialista e il diritto delle nazioni all’autodecisione”.(gennaio-febbraio 1916)

Michele Basso

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