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La guerra è una malattia

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(6 Marzo 2011) Enzo Apicella

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Le radici marxiste dell’antimperialismo proletario

(24 Dicembre 2014)

marxengels

Al tempo del Manifesto di Marx ed Engels non esisteva ancora l’imperialismo moderno, eppure le sue posizioni teoriche e le esperienze del 1848 -49 furono una guida insostituibile sia durante l’ottobre rosso sia nelle lotte contro il colonialismo. Nel cap. IV leggiamo:
"I comunisti rivolgono la loro attenzione soprattutto alla Germania, perché la Germania è alla vigilia d'una rivoluzione borghese, e perché essa compie questo rivolgimento in condizioni di civiltà generale europea più progredite, e con un proletariato molto più evoluto che non l'Inghilterra nel decimosettimo e la Francia nel decimottavo secolo; perché dunque la rivoluzione borghese tedesca può essere soltanto l'immediato preludio d'una rivoluzione proletaria." L’intreccio tra rivoluzione borghese e rivoluzione proletaria è chiarissimo. Appena caduto il potere feudale, rivolgere le armi contro la borghesia, e questo varrà anche per quella forma di rivoluzione democratica che è la rivoluzione anticoloniale.
La Germania allora era un paese arretrato, dove vigeva ancora l’ancien régime, ma cattedratici di tutto il mondo hanno sempre sostenuto che Marx ed Engels si aspettavano la rivoluzione soltanto dall’Inghilterra, e che fu Lenin a porre per primo il problema della rivoluzione socialista in un paese arretrato. Mandiamoli a rileggersi il “Manifesto”!
Questo tema venne sviluppato nell’ “Indirizzo del Comitato centrale della Lega dei comunisti” del marzo 1850 (ristampato nel 1853 insieme con l’opera di Marx “Rivelazioni sul processo dei comunisti a Colonia” e poi ripubblicato da Engels). Si tratta di un vero e proprio progetto rivoluzionario, in cui viene denunciato il tradimento già consumato della borghesia ed è previsto quello futuro della piccola borghesia. Quando vi si parla di comitati rivoluzionari in contrapposizione a quelli democratici, di guardia proletaria, di governo rivoluzionario provvisorio, chi legge è vittima della suggestione, perché sembra di sentir parlare di Soviet, di dualismo di potere, di guardie rosse. Alle battaglie comuni contro reazione e borghesia segue uno scontro continuo con la piccola borghesia, alla quale si cercano di imporre con la forza soluzioni sempre più ardite: “...quando i piccoli borghesi proporranno di acquistare le ferrovie e le fabbriche, gli operai dovranno reclamare che tali ferrovie e fabbriche siano confiscate dallo stato puramente e semplicemente, senza risarcimento, come proprietà di reazionari... Se i democratici proporranno esse stessi un’imposta progressiva moderata, i lavoratori insisteranno per un’imposta così rapidamente progressiva, che il grande capitale ne sia rovinato; se i democratici reclameranno che si regolino i debiti dello stato, i proletari reclameranno che lo stato faccia bancarotta...”
Lo scritto termina con le parole “Rivoluzione in permanenza”. Molte posizioni di Lenin e di Trotsky sarebbero impensabili senza questo precedente. La rivoluzione borghese che trascresce in comunista, non si ebbe nella Germania del 1848, ma si verificò in Russia con l’Ottobre rosso. I menscevichi, invece, non ne vollero sapere, la rivoluzione borghese doveva portare al potere i liberali, la situazione, secondo loro, non era ancora matura perché il proletariato potesse avere una funzione indipendente. Ponevano un muro invalicabile tra le due rivoluzioni, negavano la possibilità alla rivoluzione di trascrescere da democratica a comunista. E’ chiaro che un proletariato che giunge al potere in un paese arretrato non può dar vita ad una economia socialista senza l’aiuto di paesi avanzati, ma può spazzare via ogni residuo precapitalistico e accorciare, mediante le espropriazioni, il capitalismo di stato, la cooperazione, certi processi di accumulazione e concentrazione che in Inghilterra, ad esempio, durarono centinaia di anni. Con l’aiuto dei paesi avanzati, se la rivoluzione si estende a questi ultimi, può incamminarsi sulla via del socialismo. Era il progetto di Lenin, tragicamente interrotto, il che non vuol dire archiviato definitivamente dalla storia. Prima di diventare classe dominante a livello mondiale, la borghesia subì sconfitte, repressioni, restaurazioni dopo sue provvisorie vittorie. Un tale percorso accidentato è inevitabile anche per il proletariato.
Sulla possibilità di condurre rivoluzioni anticoloniali in funzione antimperialista si basavano le tesi del II Congresso dell’Internazionale comunista sulla questione nazionale e coloniale, mal digerite da Serrati e Graziadei, le posizioni portate a Baku da Zinoviev, quelle sulla questione nazionale contenute nelle tesi della Sinistra comunista nel Congresso di Lione del 1926, gli articoli di Bordiga del dopoguerra (si pensi a “Oriente” del febbraio 1951).
Affermare la possibilità della trascrescenza di lotte anticoloniali in rivoluzioni socialiste non significa assegnare alla borghesia o ai contadini piccoli proprietari compiti socialisti; anzi, dopo la cacciata dell’imperialismo bisogna subito rivolgere le armi contro la borghesia locale. Non è possibile confondere la posizione del II Congresso dell’Internazionale Comunista sulla questione nazionale e coloniale con l’indiscriminata alleanza con tutti coloro che si autodefiniscono nemici dell’imperialismo. Nelle rivoluzioni anticoloniali in Africa e in Asia non fu possibile alcuna rivoluzione in permanenza perché ai colonialismi europei subentrò lo strapotente imperialismo americano. Uno dei motivi per cui bisogna dirigere la propria lotta soprattutto contro gli USA e la Nato, perche il crollo della principale roccaforte incrina l’intero sistema. Ma non si otterrà nulla senza un collegamento reale col proletariato statunitense.
Una sintesi dell’impostazione comune ai comunisti, da Lenin a Trotsky a Bordiga, si può ritrovare nelle tesi di Lione dell’ala sinistra del Partito Comunista d’Italia (1926), tesi apprezzate anche da Trotsky: “Questione nazionale. Anche sulla teoria del movimento delle popolazioni nei paesi coloniali di taluni paesi eccezionalmente arretrati, Lenin ha apportato una fondamentale chiarificazione. Anche prima che siano maturi i rapporti della moderna lotta di classe sviluppati tanto dai fattori economici che da quelli importati nell’espansione del capitalismo, si pongono delle rivendicazioni che sono risolubili solo in una lotta insurrezionale e con la sconfitta dell’imperialismo mondiale.
Quando queste due condizioni si verificano in pieno la lotta può scatenarsi nell’epoca della lotta per la rivoluzione proletaria nelle metropoli, pur assumendo localmente gli aspetti di un conflitto non classista, ma di razza e di nazionalità.
Nella impostazione leninista restano tuttavia fondamentali i concetti della dirigenza della lotta mondiale da parte degli organi del proletariato rivoluzionario, e della suscitazione, non mai del ritardo o della obliterazione, della lotta di classe negli ambienti indigeni, della costituzione e dello sviluppo indipendente del partito comunista locale.
L’estensione di queste valutazioni dei rapporti a paesi in cui il regime capitalistico e l’apparato statale borghese sono da tempo costituiti rappresenta un pericolo, in quanto sotto tale aspetto la questione nazionale e l’ideologia patriottica sono diretti espedienti controrivoluzionari, tendenti al disarmo di classe del proletariato...”
Preso nel suo isolamento, un paese può essere considerato immaturo per lo sviluppo della lotta di classe moderna, ma la crescente integrazione dell’economia mondiale porta persino gli abitanti di villaggi asiatici o africani a subire gli effetti dell’ingerenza delle multinazionali, e a sentire la necessità della ribellione. Si può entrare nella lotta di classe, sia perché si è proletari, sia perché si è capito che la propria caduta nel proletariato è ineluttabile.
Torniamo a Marx. Il Marx scienziato de “Il Capitale” non è in contraddizione col Marx rivoluzionario, che non abbandona le posizioni del ’48, ma le sviluppa, come si vede dagli scritti sulla Russia tra la fine degli anni settanta e i primi anni ottanta. Di fronte al dilemma se la Russia fosse condannata inesorabilmente a seguire la via capitalistica o avesse la possibilità di evitarla, basandosi su un rinnovamento in senso moderno della Comune agricola rispose: “ ...se la Russia continua a battere il sentiero sul quale dal 1861 ha camminato, perderà la più bella occasione che la storia abbia mai offerto a un popolo, e subirà tutte le peripezie del regime capitalistico” “... se la Russia aspira a diventare una nazione capitalistica alla stessa stregua delle nazioni dell’Europa occidentale, e negli ultimi anni si è data un gran daffare in questo senso, essa non lo potrà senza prima aver trasformato buona parte dei suoi contadini in proletari: dopo di che, presa nel turbine del sistema capitalistico, ne seguirà, come le altre nazioni profane, le leggi inesorabili. Ecco tutto. Ma, per il mio critico, è troppo poco. Egli sente l’irresistibile bisogno di metamorfosare il mio schizzo della genesi del capitalismo nell’Europa occidentale in una teoria storico- filosofica della marcia generale fatalmente imposta a tutti i popoli, in qualunque situazione essi si trovino, per giungere infine alla forma economica che, con la maggior somma di potere produttivo del lavoro sociale, assicura il più integrale sviluppo dell’uomo”. “La chiave di questi fenomeni sarà facilmente trovata studiandoli separatamente uno per uno e poi mettendoli a confronto; non ci si arriverà mai col passe-partout di una filosofia della storia, la cui virtù suprema e d’essere superstorica”. (1)
Niente di comune, quindi, con un rigido determinismo meccanicistico. Marx non poteva escludere a priori una rivoluzione che evitasse alla Russia il passaggio attraverso l’inferno capitalistico. A qualcuno, saltare una fase dello sviluppo storico può sembrare un’assurdità, ma se si riflette sul fatto che certe regioni del Borneo sono passate direttamente dalla fase dell’uomo cacciatore –raccoglitore a quella del capitalismo, senza attraversare sistemi economico sociali intermedi, come il sistema asiatico di produzione, o il feudalesimo, e che qualcosa di simile e accaduto in molte parti dell’Africa, forse si comincia a capire cosa intendeva Marx. D’altra parte, questo avviene in tutti i campi: nei villaggi africani non si passa dall’analfabetismo alla penna d’oca o alla macchina da scrivere meccanica, ma direttamente alla tastiera del computer. E le industrie introdotte dal capitale americano, europeo, giapponese... nei paesi meno sviluppati sono spesso più tecnologicamente avanzate di quelle esistenti nella metropoli. Ci sono, al contrario, paesi ricchissimi di capitali, come l’Arabia Saudita, dove molti aspetti della rivoluzione borghese, come l’emancipazione della donna, non si sono mai attuati. E in molti altri paesi, non solo in Asia e Africa, questo problema si è aggravato. Chi sostiene che i comunisti non dovrebbero occuparsi di queste questioni perché sono specifiche della rivoluzione borghese dimostrerebbe di non aver capito assolutamente la complessità della società e della lotta politica.

NOTE
Questo articolo nasce da una lettera di risposta ad un compagno. Poiché questa comprendeva numerose citazioni delle sue posizioni e relative risposte, per cui il tema principale rischiava di essere oscurato, ho preferito riprodurre solo la parte che riguarda i rapporti tra rivoluzione borghese e rivoluzione proletaria.

1)Da una lettera di Marx alla redazione dell’ Otecestvennye Zapiski, fine del 1877. Nel volume “India, Cina, Russia”, uscito nel 1960, si trovano articoli e lettere di Marx ed Engels, tradotti da Bruno Maffi, che forniscono un quadro chiaro delle loro posizioni sulla Russia. Le lettere si trovano anche nelle edizioni Lotta comunista delle Opere di Marx ed Engels, continuazione di quella degli Editori Riuniti. La documentazione, quindi, è a disposizione del lettore italiano da circa 65 anni. Questo non impedisce che, ogni tanto, qualche studioso borghese e anticomunista scopra “l’altro Marx”(è il caso di Ettore Cinnella) come se certi scritti fossero inediti per l’Italia.

Michele Basso

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