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René Vautier, il cineasta combattente

(9 Gennaio 2015)

In Italia, i media mainstream dedicano da sempre uno spazio molto esiguo al "cinema del reale", in particolare se connotato in senso militante. Non a caso, la scomparsa - il 4 gennaio - di René Vautier non ha ricevuto un'adeguata "copertura" da parte dei grandi organi d'informazione. Sul manifesto è però uscito questo contributo di Nicole Brenez, che volentieri riprendiamo.

renevautier

Cinema. È morto a 87 anni in Bretagna il regista francese René Vautier, autore di film politici, anticolonialisti, coi quali si è schierato a favore dell’indipendenza in Algeria



Mem­bro delle For­ces Fra­nçai­ses de l’Intérieur, la Resi­stenza fran­cese, deco­rato con la Croce di guerra a 16 anni, alla fine del con­flitto mon­diale René Vau­tier decide di bat­tersi non con le armi ma con la mac­china da presa. Nel 1946 entra all’Idhec (la Scuola di cinema a Parigi, ndr) e men­tre fre­quenta ancora i corsi par­te­cipa clan­de­sti­na­mente alla rea­liz­za­zione di La grande lutte des mineurs (La grande lotta dei mina­tori), film col­let­tivo fir­mato da Louis Daquin(1948). Nel 1950, nono­stante la cen­sura gli con­fi­schi una grande parte delle bobine, rie­sce a ter­mi­nare Afri­que 50, il primo film fran­cese anti­co­lo­nia­li­sta, un capo­la­voro del cinema impe­gnato, che gli costerà tre­dici capi di impu­ta­zione e un anno di pri­gione. Da allora, nono­stante le ferite fisi­che (diceva di sé, con umo­ri­smo, che era pro­ba­bil­mente l’unico regi­sta ad avere con­fic­cato in testa un pezzo di mac­china da presa, a causa di un colpo spa­rato sulla linea Morice tra Alge­ria e la Tunisia),i molti anni di pri­gione e un memo­ra­bile scio­pero della fame, la lotta di René Vau­tier con­tro ogni forma di oppres­sione poli­tica, eco­no­mica e cul­tu­rale (la cen­sura) non si fer­merà più.

Un com­bat­ti­mento, il suo, che ha luogo su mol­te­plici fronti: con­tro il capi­ta­li­smo (Un homme est mort,1951, Tran­smis­sion d’expérience ouvrière, 1973), e con­tro il colo­nia­li­smo, in par­ti­co­lare la guerra d’Algeria (Une nation, l’Algérie, 1954, Algé­rie en flam­mes, 1958, Avoir 20 ans dans les Aurès, Tech­ni­que­ment si sim­ple e La Cara­velle, rea­liz­zati tutti e tre nel 1971 come le regi­stra­zioni di nume­rose testi­mo­nianze sulla tor­tura). Ma anche con­tro il raz­zi­smo in Fran­cia (Les Trois cou­sins, Les Ajoncs, 1970), con­tro l’apartheid in Suda­frica (Le Glas, 1970, Fron­tline, 1976), con­tro l’inquinamento (Marée noire, colère rouge, 1978, Hiro­chi­rac, 1995), con­tro l’estrema destra fran­cese (À pro­pos de l’autre détail, 1984–88). Spesso le sue bat­ta­glie sono anche in soste­gno di qual­cosa, i diritti delle donne (Quand les fem­mes ont pris la colère, codi­retto con Soa­zig Chap­pe­de­laine, 1977) o la Bre­ta­gna a cui ha dedi­cato magni­fici docu­men­tari (Le Pois­son com­mande, 1976). Chia­ra­mente inse­pa­ra­bili, (Afri­que 50 dise­gna con pre­ci­sione i legami tra capi­ta­li­smo e raz­zi­smo), tutti que­sti aspetti dell’opera di Vau­tier si deli­neano con mag­giore evi­denza in alcuni film, come La Folle de Tou­jane (rea­liz­zato insieme a Nicole Le Gar­rec, 1974), che è anche il film pre­di­letto del regi­sta, dove uni­sce in una forma inter­ro­ga­tiva, e pro­fon­da­mente dispe­rata, la resi­stenza alge­rina e l’autonomismo bre­tone.
Al tempo stesso René Vau­tier crea delle infra­strut­ture, i mezzi neces­sari alla pro­du­zione e alla dif­fu­sione dei film in lotta con­tro i cir­cuiti di stato e com­mer­ciali. Diret­tore del Cen­tro Audio­vi­sivo di Algeri tra il 1961 e il 1965 ha for­mato la prima gene­ra­zione dei cinea­sti alge­rini, e coor­di­nato la rea­liz­za­zione col­let­tiva di Peu­ple en mar­che, sulla guerra e sul primo anno del Paese dopo l’indipendenza. In quel periodo avvia anche i Ciné-Pops, un’associazione popo­lare di «cul­tura cit­ta­dina per il cinema». Nel 1972 dà vita all’Unità di Pro­du­zione Cinéma Bre­ta­gne il cui slo­gan è: «Dal colo­nia­li­smo al socia­li­smo». Nel 1984 apre Ima­ges sans chai­nes, un canale di dif­fu­sione per i film cen­su­rati dalla tele­vi­sione francese.


Ricco (e sola­mente) dei suoi sei decenni di lotta, ispi­rato anche lui, almeno all’inizio, dall’esperienza di Joris Ivens, Vau­tier rap­pre­senta l’archetipo del cinea­sta impe­gnato. Le sue cono­scenze tec­ni­che e logi­sti­che, la sua luci­dità nell’analisi sto­rica, la sua corag­giosa osti­na­zione nutrono da una parte un estremo rigore pla­stico, capace di decli­nare al pre­sente la sua gran­dezza epica, e dall’altra una con­ti­nua inven­zione for­male, gra­zie alla quale rie­sce a supe­rare in qual­siasi cir­co­stanza le dif­fi­coltà pra­ti­che legate ai film di «inter­vento sociale». Le scelte di René Vau­tier sup­pon­gono una con­ce­zione total­mente rin­no­vata del cinema. In ter­mini pra­tici di pro­du­zione, riprese, idea­zione, mon­tag­gio, distri­bu­zione; e in ter­mini sti­li­stici, sia il docu­men­ta­rio che il sag­gio o il film nar­ra­tivo, ogni gesto cine­ma­to­gra­fico è ripen­sato alla luce di un ideale col­let­tivo — com­prese le que­stioni che riguar­dano la sto­ria del cinema o la con­ser­va­zione dei film.

Sag­gi­sta, peda­gogo, e cri­tico René Vau­tier ha dedi­cato in modo diretto molti dei suoi film ai pro­blemi legati alla natura delle imma­gini. Le Remords, scritto nel 1956 e girato nel 1974, è un pam­phlet bur­le­sco e cau­stico con­tro la la codar­dia di quei regi­sti che cer­cano mille ragioni per non impe­gnarsi nel con­fronto coi pro­pri tempi, sot­traen­dosi alle loro respon­sa­bi­lità. Mou­rir pour des ima­ges (1971) riper­corre la vicenda di Alain Kamin­ker, ope­ra­tore morto in mare durante le riprese sull’Ile de Sein tra­sfor­mando in una lezione di uma­nità ciò che la sua dram­ma­tica sto­ria ci ha lasciato. Et le mot frère et le mot cama­rade (1988), descrive il ruolo dei poeti e delle loro imma­gini (let­te­ra­rie) durante la Seconda guerra mon­diale, cosa che per­mette di tro­vare una rispo­sta all’ossessiva domanda di Höl­der­lin: «A cosa ser­vono i poeti in tempi di privazione?».Destruction des Archi­ves, fil­mato da Yann Le Mas­son (1985), mostra René Vau­tier men­tre cam­mina tra i chi­lo­me­tri di docu­menti, pel­li­cole e non, fatti a pezzi con un’ascia da un com­mando «non iden­ti­fi­cato», e costi­tui­sce uno degli esempi più elo­quenti sul potere delle imma­gini, con­tro le quali biso­gna acca­nirsi sem­pre di più; un moderno capi­tolo in nitrato d’argento nella sto­ria del van­da­li­smo e dell’odio.

Ai film di Vau­tier si accom­pa­gnano le nume­rose dichia­ra­zioni pub­bli­che del regi­sta, e il suo libro, Caméra citoyenne (Ren­nes, edi­zioni Apo­gée, 1998), che riper­corre soprat­tutto i casi di cen­sura e di autocensura,a tutti i livelli, nell’esistenza di un film: con­ce­zione, scrit­tura, pro­du­zione, riprese, dif­fu­sione. Attra­verso l’insieme dei suoi inter­venti, orali e scritti, René Vau­tier ha svi­lup­pato un pen­siero sull’immagine coe­rente e radi­cale. Che sia sem­pre for­mu­lato in modo chiaro, non lo rende meno pro­fondo, attua­lizza anzi la sua prin­ci­pale riven­di­ca­zione: l’efficacia. Ogni film di Vau­tier costi­tui­sce un pam­phlet, un riparo per gli oppressi e per le vit­time della Sto­ria, una pic­cola mac­china da guerra in favore della giu­sti­zia. E come le armi nel maquis ser­vono, ven­gono date, scam­biate, pre­state, get­tate via, distrutte per­dute nasco­ste o tal­volta dimen­ti­cate a lungo nella loro fodera, così cia­scuno dei film di Vau­tier rap­pre­senta un caso par­ti­co­lare, un epi­so­dio di una sto­ria che è forse la più roman­ze­sca nella sto­ria del cinema. E pure se pieni di cica­trici, quei film spri­gio­nano un vera bel­lezza, non solo sul piano visuale o sti­li­stico, ma come espres­sione di un cinema ele­vato alla pie­nezza della sua neces­sità e della sua potenza.

Farsi pas­sare per un cada­vere, eva­dere di pri­gione e ritor­narvi volon­ta­ria­mente, tro­vare un eli­cot­tero per un giorno in modo da riu­scire a fil­mare delle sequenze proi­bite, le imprese di René Vau­tier, per­sona sedu­cente e infa­ti­ca­bile, sono tali e nume­rose che potreb­bero riem­pire molte altre vite. Osser­vando i com­por­ta­menti sem­pre dediti e devoti di René alla causa delle imma­gini, com­prese quelle per­dute come è per Un homme est mort, è dif­fi­cile non pen­sare subito a una pas­sione. Per le imma­gini sop­porta la tor­tura, la pri­gione, la fame, i pugni, sfiora di con­ti­nuo la morte, assi­ste a quella degli altri. C’è in tutto que­sto una fede incre­di­bile, pro­pria di un uomo del XX secolo, una pas­sione laica, rivo­lu­zio­na­ria e col­let­ti­vi­sta che ci offre un’idea di quanto rap­pre­sen­ta­vano le parole di Denis Dide­rot. Per René Vau­tier le imma­gini argo­men­tano una verità cri­tica in un dibat­tito visivo senza fine, il cui oriz­zonte può essere solo uno stato più giu­sto del mondo.

Nicole Brenez, il manifesto

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