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(11 Aprile 2005)
Il successo di Nichi Vendola in Puglia è una di quelle situazioni che gli anglosassoni chiamano win win: la vittoria di uno è la vittoria di tutti.
Di Vendola, ovviamente, che ha battuto Fitto dopo una campagna elettorale intelligente e fantasiosa.
Di Fausto Bertinotti, che può salutare il suo Lula e dimostrare che la sinistra alternativa gioca allo stesso tavolo di quella riformista.
Ma anche di Romano Prodi e dei vertici dell'Ulivo, cui le urne pugliesi regalano la prova provata della costituzionalizzazione di Rifondazione comunista.
Perché una cosa era chiara già prima del voto, e cioè che Vendola avrebbe eventualmente vinto non sul suo nudo curriculum, non in quanto comunista o estremista, ma come espressione di una istanza politica certo radicale ma che nell'Unione ha comunque piena cittadinanza.
Le basi della vittoria di Vendola - con il suo mix di radicalismo e misticismo, moroteismo e oltranzismo, tradizionalismo e dinamismo sociale - testimoniano che l'Unione ha un vantaggio strutturale rispetto all'Ulivo del 1996: può declinare le sue diversità interne in offerta politica plurale.
Insomma, in Vendola gli elettori pugliesi hanno visto non un anomalia rispetto al manuale del bravo candidato, ma un aspirante governatore del centrosinistra, al pari degli altri.
E lo hanno votato in quanto tale.
Lo striminizito risultato pugliese di Rifondazione, che non ha goduto di alcun effetto traino e si è fermata al 5 per cento, ne è la conferma (nonché; probabilmente, il prezzo che Bertinotti paga alla costituzionalizzazione in Puglia come nel resto d'Italia).
Nell'era di Prodi II la coalizione fa premio sul partito, anche se il partito si chiama comunista.
Col risultato che l'Unione sdogana Bertinotti.
E viceversa.
Il Riformista
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