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(21 Febbraio 2015)
Khalifa Haftar
La campagna militarista è in corso, e molti “pacifisti del tempo di pace” cambiano idea e invocano l’intervento. Il governo è in prima fila nel creare confusione. Il“miles gloriosus” Gentiloni tuona che l’Italia”«è pronta a combattere” in Libia “nel quadro della legalità internazionale” e l’ISIS risponde che “l’Italia è pronta a unirsi alla forza guidata dalle Nazioni atee per combattere lo stato islamico”. Giovanna D’Arco Pinotti dice che “bisogna fare come nei Balcani, dove per scongiurare la bonifica etnica abbiamo inviato decine di migliaia di uomini e abbiamo contingenti dopo vent’anni per stabilizzare territorio”; ma - non occorre ripetere qui la critica politica ai devastanti interventi dell’Occidente nella penisola balcanica - il paragone non regge. Il Kosovo è di circa 10.800 km² e la Bosnia – Erzegovina circa 51.000 km², la Libia ha un territorio di 1 759 840 km², cioè è più grande di Francia, Spagna, Germania, Italia e Svizzera insieme. Il Pentagono e la CIA hanno sconsigliato al governo americano un intervento, troppo vasto, troppo costoso. Ma per i nostri ministri non ci sono limiti, e spargono paura e rodomontate a piene mani.
Il commento di chi capisce di politica estera, per esempio Limes, è il seguente: “Il “califfo” al-Baghdadi non potrebbe sperare di meglio: l’invasione armata di ciò che resta della Libia, condotta da ”crociati” (italiani, francesi e altri europei) e “apostati corrotti” (egiziani più arabi e africani vari).” "Contrariamente a quanto affermano i suoi portavoce, lo Stato Islamico non sta conquistando la Libia. Semmai, alcune fazioni che continuano a massacrarsi senza pace usano il marchio “califfale” in franchising, per ottenere visibilità e attirare reclute” .E Mauro Armanino
(Italia e Libia, “note sulla ricolonizzazione”, Nigrizia), lancia il grido; "Fermiamo la cecità e l’incompetenza della ministra della difesa italiana". Una ex potenza coloniale come l’Italia, ormai spennata e diretta da una classe politica corrotta e confusa, sarebbe proprio l’avversario sperato, darebbe pure all’ISIS, o a una sua fazione, un’immeritata fama di forza antimperialista.
Abbiamo chiarito più volte che complotti e provocazioni non sono le cause dei conflitti, ma strumenti per giustificare l’ingresso in guerra agli occhi della popolazione. Il pericolo non è tanto che le bande affiliate all’ISIS in Libia possano compiere attentati in Italia, quanto che servizi segreti li compiano a loro nome, allo scopo di trascinare l’Italia nel conflitto. Siamo di fronte a una serie di ricostruzioni di una falsità conclamata, dalla cosiddetta uccisione di Bin Laden, dove manca il corpo del reato, cioè il cadavere, alla strage di Charlie, dove una testimone sopravvissuta ha detto che un attentatore aveva gli occhi azzurri, quindi non poteva essere uno dei fratelli Kouachi. Gli scopi di queste tragiche sceneggiate è di rafforzare il potere creando, secondo le necessità, esaltazione e paura, e produrre le condizioni psicologiche per la guerra. Questi attentati puzzano di servizi segreti lontano un miglio, e altrettanto i documentari truculenti, confezionati con sapiente tecnica hollywoodiana, in cui agiscono o recitano sedicenti arabi, dal perfetto accento inglese o americano.
Quanto alle minacce dell’ISIS di lanciare missili sulla penisola o sulla Sicilia, per ora non dovrebbero averne in dotazione di così potenti. Un pericolo ci potrebbe essere per Lampedusa e le isole vicine, e, un governo borghese mediamente serio, invece di fare magniloquenti discorsi sulla guida italiana di una coalizione anti ISIS, si occuperebbe sensatamente di questo compito esclusivamente difensivo. I governi italiani non hanno difeso il territorio contro il militarismo più pericoloso, e hanno permesso agli Stati Uniti di installare sul territorio italiano decine di atomiche della quali non conoscono neppure l’ubicazione, ma di questo pericolo permanente la stampa ufficiale non parla. L’episodio di Piazza di Spagna, poi, in cui un branco di tifosi olandesi ubriachi danneggia seriamente la Barcaccia del Bernini, dimostra che con un ministro degli interni come Alfano niente è sicuro, salvo i privilegi. Altro che andare a combattere in Libia! Cominciamo a lottare contro la nostra putrida borghesia e i suoi servi al governo!
Gli americani puntano sul generale Khalifa Haftar, ex collaboratore di Gheddafi. Nel 1990 si trasferì negli Usa, dove visse per vent’anni a pochi chilometri di distanza dalla sede della CIA, Langley. Ottenne la cittadinanza americana. In questi giorni ha tenuto una riunione col premier riconosciuto a livello internazionale Al Thani e si presenta come l’uomo forte, appoggiato dall’Egitto. Quest'uomo dovrebbe garantire l'indipendenza della Libia? I soldati italiani dovrebbero combattere per lui? Questa sarebbe la scelta di Obama, ma nella classe dirigente americana si combattono tendenze diverse, i cui conflitti si riverberano all’interno dei servizi segreti, nelle ONG, nella Nato, nella UE e nei singoli governi satelliti, nessuna scelta è definitiva, le alleanze possono cambiare da un giorno all’altro.
Non si può, inoltre, combattere l’ISIS con l’aiuto di quelle stesse forze che l’hanno aiutato a nascere e a rinvigorirsi. Tutti abbiamo visto le foto del “beato costruttore di pace” McCain, in allegra compagnia con gli uomini dell’ISIS in Siria, in Libia, con i peggiori figuri in Ucraina. Non sappiamo ancora se si è incontrato con Boko Haram. Non qualche estremista di sinistra o complottista, ma lady Pandora Clinton ha dichiarato che l’ISIS è una creatura americana in funzione anti Assad sfuggita di mano: "E' stato un fallimento. Abbiamo fallito nel voler creare una guerriglia anti-Assad credibile. Era formata da islamisti, da secolaristi, da gente nel mezzo. Il fallimento di questo progetto ha portato all'orrore a cui stiamo assistendo oggi in Iraq". Così disse la Clinton nell'intervista rilasciata a Jeffrey Goldberg del giornale web "The Atlantic". Sfuggita di mano? Con i satelliti è possibile fotografare persino le targhe delle auto, ma gli USA hanno lasciato dilagare i jihadisti in gran parte dell’Iraq, della Libia, e Boko Haram in Nigeria e stati vicini. Sappiamo che la stampa americana accusa la Clinton di aver voluto l’avventura libica – per cui Sarkozy, Cameron, Berlusconi e Ignazio Benito Maria La Russa risultano solo suoi burattini – ma è certo che Obama l’ha lasciata fare, per poi liquidarla in un secondo tempo.
Le ragioni dell’opposizione alla guerra non sono cambiate, dal tempo della protesta contro le guerre di Bush, mentre assai mutata è la politica di Washington. Mentre il governo Bush, servendosi di prove false come quelle sulle armi di distruzione di massa, portava direttamente in guerra gli Stati Uniti, trascinandosi dietro truppe di stati vassalli (così li chiama Brzezinski), il governo Obama cerca, con mille trucchi, di mandare in guerra i vassalli.
Il capitalismo, per superare la crisi di sovrapproduzione, ha bisogno di distruggere forze produttive, cioè macchinari, infrastrutture e forza lavoro, cioè esseri umani. L’epoca moderna condanna come barbari i sacrifici umani compiuti da Aztechi, Cartaginesi e Achei (il mito di Ifigenia non nasce dal nulla), ma il capitalismo ha fatto mille volte peggio.
I periodi di grande prosperità USA si sono avuti con le guerre mondiali, quando l’Europa si svenava e gli USA intervenivano in ritardo, dopo essersi arricchiti con la vendita delle armi. Il governo Obama ha ben assimilato questa lezione e manda in prima linea i vassalli, riservandosi di dare il colpo di grazia e prendersi il merito della vittoria.
Il governo italiano, che sta cancellando ogni conquista dei lavoratori e che mente spudoratamente su ogni cosa, dovrebbe di colpo diventare credibile quando parla di politica estera, basandosi su notizie in gran parte false, o almeno cucinate dagli infidi media di regime? Non dimentichiamo mai che la stragrande parte delle notizie ci viene fornita dall’avversario di classe, e quindi ha lo scopo di subordinare sempre più il comportamento dei lavoratori alle esigenze del regime. Il nemico principale è in casa nostra, diceva Karl Liebknecht, non dimentichiamolo mai.
Michele Basso
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