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Addio compagne

Addio compagne

(23 Febbraio 2010) Enzo Apicella
Il logo della campagna di tesseramento del prc 2010 è una scarpa col tacco a spillo

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    (Memoria e progetto)

    Un'autoriforma dialettica del partito per adeguarlo alle sfide che ci attendono.

    Emendamento integrativo collegato al 1° documento congressuale.

    (3 Marzo 2005)

    Un’emendamento dal basso

    Con questo documento noi iscritti e quadri periferici del PRC vogliamo esprimere il disagio che l'inadeguatezza e l'incompletezza del primo documento al dibattito congressuale in atto produce nel nostro cercare di essere coerenti con le tesi del V congresso e con i militanti, gli iscritti e i simpatizzanti con cui tutti i giorni lavoriamo per far crescere questo partito.

    Il VI Congresso

    Questo è certamente un congresso di linea, in cui all'ordine del giorno è il problema di come affrontare la difficile fase che ci sta di fronte, che è egregiamente illustrata dal compagno Bertinotti nelle sue 15 tesi. Condividiamo l'analisi complessiva del quadro politico e comprendiamo come quella tracciata sia l'unica prospettiva che non si presenti rinunciataria ed automarginalizzante per il Partito e, in definitiva, per la sopravvivenza stessa di un'ipotesi di trasformazione in senso anticapitalista della società.
    Essa tuttavia rappresenta una scommessa, una possibilità che per essere interpretata richiederà ancora una volta una straordinaria mobilitazione di energie ed intelligenze di questo generoso Partito. Quel partito che, ad esempio, raccogliendo la stragrande maggioranza delle 600.000 firme necessarie al referendum sull'art. 18 e successivamente ottenendo quasi 11 milioni di voti a favore, ha dimostrato concretamente la possibilità di mettere in discussione, almeno su alcune centrali questioni, l'egemonia della sinistra moderata sul cosiddetto popolo di sinistra.
    Che si arrivi ad un accordo politico col centrosinistra o meno, è chiaro che la preminenza del lavoro politico nel sociale e nei movimenti rispetto a quello squisitamente politico-istituzionale, sancita dal precedente congresso e ribadita dal primo documento, dovrà ulteriormente inverarsi e dispiegarsi per forzare l'orizzonte riformista e compatibilista dentro cui è rinchiuso il centro-sinistra. Forzare questo orizzonte e portare, dall'interno o dall'esterno, al centro dell'azione del prossimo governo quei temi e quelle istanze che hanno fin qui caratterizzato i movimenti, da quello pacifista a quello ambientalista, da quello democratico a quello sindacale-operaio, a quello della scuola e dei migranti, è la scommessa che non possiamo permetterci di perdere. Per imporre al centrosinistra un'agenda di reale cambiamento non basterà più una presenza di semplice appoggio e condivisione delle iniziative dei movimenti, invero al momento piuttosto ripiegati su se stessi, anche se certo non scomparsi o finiti. Occorrerà un ruolo decisamente più attivo, propositivo e di concreto sostegno organizzativo da parte del PRC, perché senza una sponda di iniziative e lotte sociali, il passaggio tattico del governo è destinato a trasformarsi in un disastro strategico (la vittoria della legge del pendolo, che noi pagheremmo più di ogni altra forza della sinistra). Perché ciò sia possibile serve un partito motivato, mobilitato, cosciente della posta in gioco, attrezzato ed organizzato con investimenti materiali e politici adeguati alla sfida che abbiamo lanciato.

    La Questione del Partito

    La democrazia nel partito
    Per questo riteniamo che il documento presentato dall'area dell'Alternativa di Società sia largamente insufficiente, se non reticente, sul Partito, sulla sua riforma e sulla sua identità.
    Ciò ha aperto spazi enormi di critica, ai limiti del linciaggio ideologico, a componenti interne che ben poco hanno fatto in questi anni per permettere al Partito di collocarsi dove ora si trova, in grado cioè di poter tentare un proprio autonomo percorso alternativo all'appiattimento sul centro-sinistra da un lato o alla marginalità testimoniale dall'altro.
    Non possiamo subire l'appropriazione indebita del marxismo e del materialismo storico da parte di chi ha sempre dimostrato di non averne capito il presupposto filosofico fondante, la dialettica, ed è perciò sempre stato refrattario ad ogni ipotesi di cambiamento e trasformazione del Partito, contrapponendosi nei fatti alle aperture verso i movimenti e le loro culture; da parte di chi ancora oggi non riesce ad andare oltre la riproposizione dogmatica e sterile ciascuno della propria dottrina, sia essa un trozkismo velleitario e settario o una versione vetero-pciista del marxismo-leninismo, tanto estremista a parole quanto disponibile al compromesso con la sinistra liberale nella pratica politica delle sue burocrazie locali.
    Né possiamo concedere di farsi alfieri della democrazia interna chi ha deriso fin dalla prima ora le esperienze di democrazia partecipativa, tentate oramai in ogni angolo del pianeta, e molto spesso privilegia il fare politica nel Partito – inteso come ricerca del consenso tra gli iscritti attraverso la cooptazione personale e l'ostruzionismo burocratico negli organismi dirigenti – al fare politica per il Partito, intervenendo cioè nella società, nella classe, nei movimenti, accrescendone il radicamento, il tesseramento, le capacità di lotta e mobilitazione.
    Per la rivendicazione orgogliosa del percorso di rifondazione aperto dal V congresso, che abbiamo cercato di praticare e di cui cogliamo i chiari risultati, che si manifestano a livello di centralità politica della nostra proposta sul piano istituzionale, ma anche e soprattutto in un accresciuto radicamento (inversione di tendenza nel tesseramento dopo diversi anni) e in una maggiore capacità di collocarci all'interno delle contraddizioni e delle lotte che si producono nella società; ci sentiamo in diritto di richiamare i nostri dirigenti ad una maggiore cura nei rapporti con il Partito: le gambe su cui la nostra proposta politica cammina.
    Comprendiamo che il corpo del partito può non sempre avere la capacità di comunicare e tradurre in pratica con tempestività gli aggiustamenti di linea che lo sviluppo del dibattito politico nazionale ed internazionale richiedono. Siamo coscienti anche che l'insufficiente radicamento e la scarsa efficienza organizzativa non consentono alle nostre parole d'ordine di raggiungere, con i mezzi diretti dell'interlocuzione e della propaganda popolare, tante persone e tanto rapidamente quante ne raggiungono la televisione, la radio e i giornali nazionali.
    Tuttavia la pratica sempre più frequente di comunicare alla stampa prima che al partito le scelte politiche maturate dal segretario o dalla segreteria, se può apparire efficace dal punto di vista della strategia comunicativa, sul medio periodo può rivelarsi molto dannosa. Essa infatti ingenera passività nel corpo militante, suggerendo l'idea che conti incommensurabilmente di più un articolo su un giornale della faticosa pratica quotidiana di intessere relazioni, di fare propaganda e organizzare iniziative concrete sul territorio o nei posti di lavoro. L'espropriazione del dibattito sulle scelte di linea politica disabitua i compagni alla discussione collettiva e li deresponsabilizza. Né possono considerarsi un risarcimento le discussioni in sede locale in cui ognuno cerca di inventarsi l'esegesi esatta che consenta la ratifica di decisioni già prese, né le discussioni congressuali, che finiscono – anche stavolta – per divenire, piuttosto che dei momenti di confronto aperto, dei veri e propri referendum blindati sul nostro ceto politico dirigente: da promuovere interamente ed in blocco insieme alla linea politica o da bocciare senza appello. Crediamo spetti prima di tutto a noi dell'"alternativa di società", che abbiamo fatto della democrazia partecipativa uno degli assi portanti della nostra iniziativa, pretendere un maggior coinvolgimento degli iscritti nella discussione e nelle scelte politiche del partito.

    Turn-over e ricambio del quadro dirigente
    Questo deficit di democrazia – e soprattutto di esercizio della dialettica – crediamo sia una delle ragioni del paradosso che viviamo in questo momento: la nostra linea politica sembra venir apprezzata più all'esterno che all'interno del Partito. In un momento di indubbio incremento del proprio potere di attrazione e di influenza sulla società, che tocchiamo con mano nella crescita del tesseramento come nello straordinario risultato delle primarie pugliesi, può divenire ancor più stridente e pericoloso il contrasto tra le aspettative di chi si avvicina a noi, convinto di trovare una comunità coesa, motivata, ricca culturalmente e politicamente, e la realtà di un corpo militante esiguo, logorato dalla mole di lavoro di cui deve farsi carico e dalle critiche cui viene esposto dalle continue prese di posizione delle istanze superiori, anche locali, che non passano attraverso la discussione dei circoli se non per essere ratificate. È anche qui che ha origine il turn-over degli iscritti e dei simpatizzanti attivi, nella difficoltà che ha il partito di offrire un ruolo di protagonismo attivo ai suoi militanti, di coinvolgerli e motivarli nelle scelte che assume.
    È vero che il PRC è nato da un quadro politico residuale proveniente da un ciclo di lotte concluso e si potrebbe anche pensare che il turn-over abbia rappresentato in certa misura un fenomeno positivo di svecchiamento del partito. Tuttavia va considerato che esso riguarda quasi esclusivamente i militanti e solo raramente, scissioni a parte, ha interessato il ceto politico, che invece è quasi esclusivamente proveniente dalle battaglie e dalle organizzazioni politiche di fine '900.
    Il nostro è infatti un partito pervicacemente refrattario al cambiamento del proprio quadro dirigente. Esso si riproduce quasi esclusivamente per cooptazione. Ogni carica del partito viene eletta di fatto su liste bloccate concordate dalle commissioni politiche congressuali ed è perciò inevitabile che nella scelta dei dirigenti conti tendenzialmente di più l'affidabilità politica, la fedeltà al gruppo o alla corrente, piuttosto che le capacità politiche e critiche, l'internità a settori di classe, le capacità dialogiche e di contaminazione con il resto del Movimento dei Movimenti, la disponibilità al lavoro politico e alla lotta.
    Del resto come potrebbe un semplice iscritto competere sul piano dialettico e politico con un maturo quadro di partito, che solitamente ha un suo personale bagaglio culturale costruito prima e fuori dal PRC?

    La formazione politica
    È curioso infatti che mentre denunciamo la privatizzazione dell'istruzione e la minaccia al diritto allo studio, poi consideriamo la formazione politica dei nostri compagni un fatto del tutto privato, che dipende dalla voglia ma soprattutto dalle possibilità del singolo (in termini di tempo e di disponibilità economiche), riproducendo così al nostro interno le differenze di classe. La formazione politica dovrebbe essere un diritto di tutti gli iscritti e non un dono che i singoli dirigenti concedono ai propri delfini.
    Certo il problema della formazione politica evoca paure di indottrinamento, di dogmatismo, di chiusura alle Culture Altre dei Movimenti. Ma non può certo essere questa la considerazione che ci induce a non offrire ai compagni una cultura comunista: infatti la paura che vengano indottrinati non ci impedisce affatto di mandare i figli a scuola. È semmai necessario affrontare laicamente il tema di come si possano fornire degli strumenti intellettuali e culturali ai nostri compagni che evitino questi rischi.
    Di certo non possono considerarsi passaggi di crescita collettiva e condivisa convegni di uno o due giorni che affrontino temi fondamentali come la violenza o lo stalinismo. Essi hanno senso se sono accompagnati, meglio ancora se preceduti, da riflessioni che investono capillarmente il partito e da materiali di approfondimento adeguati alla valenza dei temi affrontati. Altrimenti non sono altro che prese di posizione spettacolarizzate del ceto politico, che ricollocano l'immagine del Partito senza spostarne il corpo, che probabilmente nella sua maggioranza non ha nemmeno chiaro l'oggetto della discussione.

    L'identità del Partito, ovvero la questione di Marx e della dialettica marxista
    Noi crediamo che sia possibile fornire strumenti e occasioni di formazione collettiva che attraversino capillarmente la base del partito, o almeno quella parte che è interessata, senza cadere nel dogmatismo. Noi crediamo che l'antidoto migliore sia ancora Marx, che secondo le tesi del V congresso doveva essere il punto di partenza per la rifondazione e di cui nel nuovo documento congressuale si sono già perse le tracce.
    Il marxismo infatti è prima di tutto visione dialettica della realtà e, in quanto tale, non può che essere antidogmatico.
    Uno studio, in generale del pensiero comunista e nello specifico del pensiero di Marx, che sia incentrato sul concetto di dialettica – intesa contemporaneamente come strumento ed oggetto d’indagine – rappresenta, anche storicamente, l’antipode geometrico del dogmatismo e della rigidità.
    Ma il marxismo è anche lo straordinario metodo di analisi della realtà che, dimostrando la storicità del modo di produzione capitalistico ed analizzandone le contraddizioni, ha dato la forza e la convinzione a milioni di uomini per mettere in discussione gli oppressori ed inaugurare una stagione di ricerca di un altro mondo possibile, come si direbbe oggi, ricerca che non si è ancora conclusa.
    Fuori dal materialistico dialettico come metodo di analisi storico-politica anche importanti svolte teoriche e pratiche come la "non-violenza" che, se basate su analisi serie ed obiettive delle parabole storiche dei movimenti armati e delle società che talora ne sono scaturite, potrebbero dispiegare tutta la potenza della loro critica alla politica reale e al potere per come sono e per come furono intesi anche dai movimenti comunisti nel secolo scorso, si riducono a professioni d'intenti assolute, di natura del tutto etica ed idealistica, addirittura metastoriche e quindi inutilizzabili nella crescita di nuovi percorsi di liberazione e persino pericolose nel concreto dello scontro sociale, come hanno purtroppo constatato migliaia di persone solo 4 anni fa a Genova.
    A nostro avviso i problemi inerenti al partito che abbiamo sollevato derivano proprio da un deficit di esercizio della dialettica all’interno del Partito.
    Pensiamo che il superamento concettuale della concezione rigida e sterile della dialettica di stampo hegeliano integralmente meccanicista (che è storicamente prevalsa nei socialismi reali ed ancora oggi sembra trovare di fatto un’importante collocazione nel bagaglio teorico di alcune tendenze del nostro Partito) possa e debba essere uno dei punti qualificanti della Rifondazione Comunista. Proprio per questo crediamo che il Partito debba farsi carico di un’ampia elaborazione teorica e di dibattito su questo tema che arrivi a definire i contorni di quella che potrebbe essere definita una dialettica della dialettica: in cui – attraverso nuove forme di partecipazione democratica dei compagni – lo strumento partito modifichi continuamente se stesso, così da aderire ad una realtà che mai come oggi non può che essere concepita in divenire.
    Negare ai compagni l'opportunità di acquisire gli elementi metodologici della dialettica e del marxismo significa non solo privarli degli strumenti indispensabili a capire la realtà, a prevederne gli sviluppi e a confrontarsi con soggetti politici diversi; significa anche rinunciare a costruire un ricambio del quadro dirigente comunista per questo partito e dunque prospettare un futuro non più comunista per esso.
    Inoltre, più prosaicamente, far sparire Marx e il materialismo dialettico dalle tesi congressuali equivale ad offrire strumenti gratuiti di critica alle altre tendenze, ingenerare confusione e imbarazzo nella propria area, perdere compagni preziosi e spalancare le porte all'idealismo e all'opportunismo.
    Il tema della formazione è quindi strategico e va affrontato con investimenti di energie e risorse adeguate. Non affrontarlo è una decisione non meno precisa che decidere di farlo. Solo che ha un segno politico opposto.

    Paolo Michelini, Giordano Padovan
    (CPF di Padova)

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