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(27 Febbraio 2015)

La grande guerra. I limiti del «nazionalismo metodologico» nella ricerca storiografica. Due volumi sul primo conflitto mondiale evidenziano le sue conseguenze nella elaborazione di una «identità europea»

rissadepero

C'è un aspetto che emerge, tra i molti, nella grande costel­la­zioni di ele­menti che con­no­tano la prima guerra mon­diale ed è la sua dimen­sione di scala. Non è solo un fatto quan­ti­ta­tivo ma anche qua­li­ta­tivo. Anzi, chiama in causa, quanto meno se si vogliono coglierne gli effetti di lungo periodo, soprat­tutto il secondo fat­tore. La qua­lità, in que­sto caso, rin­via alla natura dei pro­cessi di isti­tu­zio­na­liz­za­zione del ricorso alla forza di massa, quella che con­notò cin­que anni di dis­san­guanti com­bat­ti­menti ma anche un lungo periodo suc­ces­sivo, quando il tempo della pre­va­ri­ca­zione per­durò, tra­ci­mando negli anni suc­ces­sivi e disin­te­grando una parte impor­tante dei dispo­si­tivi di media­zione poli­tica che le società libe­rali ave­vano edi­fi­cato dal secondo Otto­cento in poi.
Più in gene­rale, ciò che mutò fu la gerar­chia dei ruoli sociali e delle prio­rità poli­ti­che, por­tando al risul­tato di una «Glo­bal War» che, come tale, non si con­clu­deva sui campi di bat­ta­glia, quando l’ultimo colpo di fucile o di ati­glie­ria era stato spa­rato. Fatto che implica la com­pren­sione di quella che per gli ita­liani è stata intesa come la Grande guerra soprat­tutto in quanto oggetto di stu­dio trans­na­zio­nale. Sem­pre meno potremo quindi rac­con­tarci quella fen­di­tura da un punto di vista nostrano, dovendo pro­ce­dere piut­to­sto sul piano della let­tura intrec­ciata con le nar­ra­zioni sto­rio­gra­fi­che e con i depo­siti memo­ria­li­sti che ci deri­vano dagli altri Paesi chia­mati in causa.

I quat­tro ver­santi della ricerca

Evi­tiamo, dun­que, di reci­tare una obbli­gata gia­cu­la­to­ria sui «ritardi» o sulle «omis­sioni», poi­ché molta strada è stata invece fatta dalla ricerca, riu­scendo, almeno par­zial­mente, a coniu­gare i quat­tri ver­santi prio­ri­tari del lavoro sto­rio­gra­fico: la sto­ria diplomatico-militare, quella poli­tica, la sto­ria sociale ed infine quella cul­tu­rale. Il come riu­sci­remo ad ali­men­tare un mec­ca­ni­smo ad inca­stro, che tenga insieme que­ste diverse decli­na­zioni, ci dirà della capa­cità di com­pren­dere il feno­meno bel­lico, e i suoi cascami poli­tici di lungo periodo nella costi­tu­zione dell’identità euro­pea con­tem­po­ra­nea. Soprat­tutto se rap­por­tata alle ten­ta­zioni, adesso revi­vi­scenti, di dare fiato ad anta­go­ni­smi par­ti­co­la­ri­sti dinanzi alla crisi delle sovra­nità nazionali.

Tor­niamo tut­ta­via all’oggetto di ana­lisi, la Prima guerra mon­diale. Avvia­tasi come un con­flitto tra­di­zio­nale, ovvero loca­liz­zato in una regione pre­cisa, legato per­lo­più a logi­che pre­da­to­rie e spar­ti­to­rie pre­ve­di­bili nei loro moventi così come nei risul­tati che da esse sareb­bero dovuti deri­vare, desti­nato quindi a svol­gersi secondo indi­rizzi ope­ra­tivi rite­nuti certi, ben pre­sto, invece, sfuggì di mano ai pro­ta­go­ni­sti. Fu la cer­chia stessa dei par­te­ci­panti ad assu­mere una dimen­sione che, per l’epoca, non si era ancora vista. Poi­ché ad essere chia­mate in causa erano nazioni che da tempo costi­tui­vano (o ambi­vano ancora a costi­tuire) imperi colo­niali, fatto che diede da subito una cor­nice sovra-europea al con­fronto mili­tare. Ma quelle stesse entità impe­riali, chia­mando a rac­colta le popo­la­zioni subal­terne, varia­mente uti­liz­zate come com­bat­tenti o nello sforzo bel­lico che si com­piva nelle retro­vie, inne­sca­rono pro­cessi dai quali ne sareb­bero uscite sec­ca­mente ridimensionate.

L’evoluzione del con­flitto, infatti, si misurò non solo sui tea­tri di com­bat­ti­mento ma anche e soprat­tutto nelle infi­nite retro­vie, che si esten­de­vano per oriz­zonti spa­zial­mente infi­niti e social­mente inde­fi­niti. Fu guerra mon­diale anche per que­sto, chia­mando in causa, nella spa­smo­dica mobi­li­ta­zione di donne, uomini e risorse d’ogni genere quanti, altri­menti, ne sareb­bero rima­sti fuori o almeno un passo indie­tro. E se ciò che pre­cede il con­flitto inne­sca­tosi nel 1914 è anche e soprat­tutto sto­ria del colo­nia­li­smo che si fa impresa impe­ria­li­sta, quel che ne segue, non nel 1918 ma a par­tire già dal 1917, con la frat­tura rivo­lu­zio­na­ria russa, è un rivol­gi­mento di quel pro­cesso di «nazio­na­liz­za­zione delle masse» che sfugge al con­trollo delle classi diri­genti libe­rali, tra­sfor­man­dosi in qual­cosa d’altro.
Non è un caso, quindi, se il novem­bre del 1918 non san­ci­sca la con­clu­sione defi­ni­tiva del con­flitto armato, tra­du­cen­dosi sem­mai in una plu­ra­lità di guerre civili, in un feno­meno di pro­li­fe­ra­zione e dis­se­mi­na­zione di esse nelle terre di con­fine, così come nelle aree con­tese, che avreb­bero attra­ver­sato con fero­cia soprat­tutto l’Europa orien­tale fino alla prima metà del decen­nio suc­ces­sivo. Que­ste ultime avreb­bero inol­tre segnato il destino non solo delle popo­la­zioni che ne ven­nero coin­volte ma, in imme­diato riflesso, di quanti ne furono anche solo spet­ta­tori, rein­tro­du­cendo, dopo le vicende del 1848 e, soprat­tutto, i fatti della Comune di Parigi, il nesso tra guerra voluta e con­dotta dai mili­tari e sol­le­va­zione spon­ta­nea dei civili.

Gli equi­li­bri infranti

La nostra moder­nità si rein­venta in quello spa­zio e in quel tempo, così come si invera il comu­ni­smo, non come par­tito (e dot­trina) del con­fronto armato per­ma­nente ma in quanto sog­getto della tra­sfor­ma­zione repen­tina, rom­pendo que­gli argini del par­la­men­ta­ri­smo den­tro i quali, invece, le forze socia­li­ste si erano pro­gres­si­va­mente incu­neate, fino a rima­nerne del tutto impri­gio­nate. La nozione di vio­lenza assume in tale fran­gente un signi­fi­cato com­ple­ta­mente dif­fe­rente da quello ante­ce­den­te­mente attri­bui­tole, e il lungo dopo­guerra, di cui i fasci­smi capi­ta­liz­ze­ranno gli inte­ressi, rac­co­glie que­sto muta­mento antro­po­lo­gico, per con­durre, passo dopo passo, il con­ti­nente euro­peo verso un’altra cata­strofe, vent’anni dopo.

Que­sto ed altro ancora viene in mente leg­gendo due volumi recenti, usciti in occa­sione del fiacco e scialbo cen­te­na­rio, pal­li­da­mente cele­bra­tivo, del nostro inter­vento nella Prima guerra mon­diale. Stiamo par­lando di un libro a più voci, diretto da Nicola Labanca, il Dizio­na­rio sto­rico della Prima guerra mon­diale (Laterza, pp. 498, euro 28), che si avvale di una qua­ran­tina di col­la­bo­ra­zioni, non­ché del testo di Anto­nio Gibelli, La Grande guerra. Sto­rie di gente comune, 1914–1919 (Laterza, pp. 328, euro 20). Due opere diverse ma per più aspetti inter­se­cate, ancor­ché inconsapevolmente.

Nel dive­nire degli eventi

La prima ci offre un det­ta­glio sele­zio­nato dello stato di evo­lu­zione della sto­rio­gra­fia, a par­tire da quella ita­liana. Un con­gruo numero di voci, curate da pro­fes­sio­ni­sti del set­tore, copre le prin­ci­pali aree tema­ti­che che riman­dano al con­flitto. La seconda, invece, rac­co­glie e rie­la­bora la guerra per come venne vis­suta e rac­con­tata da chi fu costretto a com­bat­terla, oppure ad assi­stere ad essa, gli uni e gli altri acco­mu­nati da una con­di­zione di cre­scente espro­pria­zione del signi­fi­cato degli eventi e, in imme­diato riflesso, della loro ricon­du­ci­bi­lità ad una razio­na­lità quo­ti­diana che non fosse quella della sem­plice logica di soprav­vi­venza. Se Labanca dà voce all’analisi a distanza, medi­tata, ossia affi­data ad una nuova gene­ra­zione di stu­diosi, Gibelli la offre ad alcuni dei pro­ta­go­ni­sti del men­tre, attra­verso una let­tura incro­ciata (e cri­tica) delle testi­mo­nianze scritte dei com­bat­tenti di allora.

Nell’uno e nell’altro caso emerge comun­que la con­sa­pe­vo­lezza, matu­rata in milioni di indi­vi­dui, di essere improv­vi­sa­mente legati tra di loro, ancor­ché divisi in fronti oppo­sti. Il con­flitto si pre­senta come una immensa rete, senza fine o con­clu­sione pos­si­bile (e pre­sto anche senza un fine razio­nale), dove l’esistenza indi­vi­duale, e lo stesso signi­fi­cato della vita, ven­gono schiac­ciati all’interno di una inte­la­ia­tura che si regge da sé, in un con­flitto dove l’unica cer­tezza acqui­sita è la per­ce­zione del movi­mento iner­ziale degli eventi. Spae­sa­mento, spiaz­za­mento, disin­canto (per coloro che ave­vano voluto invece cre­dere nella guerra come oppor­tu­nità per acce­le­rare i tempi di un qual­che cam­bia­mento) sono quindi moneta comune nelle cose allora scritte e dette a viva voce, negli infi­niti col­lo­qui in trin­cea così come ovun­que vi fosse l’eco imme­diata delle armi. La que­stione della dimen­sione epo­cale del con­fronto armato si intrec­cia quindi con il supe­ra­mento della sepa­ra­zione tra la sfera mili­tare e quella civile, attuata con il regime delle mobi­li­ta­zioni di massa, che coin­vol­sero non solo quanti furono inviati a com­bat­tere in immensi car­nai ma anche quelle comu­nità nazio­nali, che rima­sero intrap­po­late den­tro il gigan­te­sco cir­cuito del «fronte interno».

Carne della civi­liz­za­zione tecnica

Dai due libri escono quindi ritratti a tinte forti, molto curati sul piano delle fonti e della loro let­tura cri­tica. Soprat­tutto, le sto­rie infi­nite che ci ven­gono così resti­tuite ren­dono omag­gio non solo di un’umanità che resi­ste con le poche risorse che ha con­cre­ta­mente a dispo­si­zione, ma anche della prima, gigan­te­sca prova alla quale que­gli stessi uomini e quelle mede­sime donne furono sot­to­po­sti, la per­ce­zione che la civiltà indu­striale con­tem­plava non solo lo sfrut­ta­mento attra­verso il lavoro ma la scar­ni­fi­ca­zione sui campi di bat­ta­glia. Un’immensa offi­cina della civi­liz­za­zione tec­nica, come già Anto­nio Gibelli aveva avuto modo di rile­vare in un’altra sua impor­tante opera, dove la morte è una pre­senza costante, tanto sel­vag­gia quanto «razionale».

26.2.2015

Claudio Vercelli - il manifesto

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