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PD: PARTITO DANNOSO E DEFORMAZIONI CLIENTELARI

(20 Marzo 2015)

fabriziobarca

Fabrizio Barca

PD; “Partito dannoso , deformazioni clientelari”: questa la definizione fornita dall’ex-ministro Fabrizio Barca in una sua relazione inviata al commissario romano del Partito, Matteo Orfini (che ne è anche Presidente) in relazione ai fatti accaduti con la vicenda di “Roma Capitale” e il pieno coinvolgimento in essa proprio di esponenti del partito di maggioranza relativa.
Matteo Orfini ha concordato.
Se n’è parlato poco in questi giorni perché l’attenzione, al riguardo della politica interna, è stata rivolta soprattutto a un’altra vicenda legata alla “questione morale”: quella che sta portando alle dimissioni del ministro ciellino Maurizio Lupi.
E’ il caso però di ritornare sulla relazione di Barca soprattutto dal punto di vista delle implicanze di carattere generale che essa comporta.
Prima di tutto è facile intuire, in particolare per chi vive in Liguria, come la definizione di “partito dannoso, deformazioni clientelari” possa essere sufficientemente generalizzata sul piano nazionale: fatti recenti legati, appunto in Liguria ma anche in Campania e ancor prima in Emilia, alle sciagurate vicende legate alle cosiddette “primarie” confermano in pieno questo tipo di valutazione.
Andando a scavare restano insolute, nel PD, tantissime storie di vera e propria deformazione nel minimo di correttezza – almeno formale – dell’agire politico tali da consentire di giudicare come inquietante la presenza di questo partito nel sistema politico italiano: ne ricorda soltanto alcune Andrea Fabozzi oggi nell’editoriale pubblicato dal Manifesto.
Non è nemmeno questo, però, il punto che deve essere affrontato al fine di chiarire le ragioni per le quali il giudizio formulato da Fabrizio Barca al riguardo del PD romano possa essere esteso all’intero PD (ormai diventato PdR? come nella definizione di Diamanti).
IL PD infatti ha attuato, soprattutto con il pericoloso passaggio dalle primarie che hanno portato all’elezione di Renzi a segretario e alla conseguente nomina dello stesso Renzi a Presidente del Consiglio, una vera e propria cesura rispetto alla storia dell’amalgama mal riuscita (versione D’Alema) tra ex-DS e Margherita.
Il PdR è una nuova formazione politica, rispetto a quella storia, che ha fuso assieme, nell’idea del Partito della Nazione unico soggetto centrale del sistema politico, il vecchio “partito-pigliatutti” con una versione aggiornata del “partito – personale”.
Un completamento, efficace sul piano operativo e della raccolta di consenso, dell’intuizione berlusconiana del PDL, poi naufragata sull’altare della bella vita del leader e dell’ostilità europea, dopo aver raccolto un consenso di oltre 13 milioni di voti alle elezioni politiche del 2008, due milioni di voti in più di quelli raccolti dal PD nelle europee del 2014.
Quali sono le regole auree sulle quali si basa questa nuova forma-partito che il PdR rappresenta:
1) L’assoluto divieto di produrre cultura politica, in qualsivoglia senso. La produzione di cultura politica introdurrebbe la necessità di esplorare un’idea di progetto per il futuro che allontanerebbe dalla capacità di affrontare le cose all’interno di un “eterno presente” e dall’obiettivo di esercitare esclusivamente la funzione del potere;
2) A partire dal segretario – premier fino alle piccole gerarchie di circolo si tratta di stabilire un sistema di “uomini/donne soli al comando” in tutte le situazioni. Grandi e piccoli ras che si distinguono tra loro attraverso l’espressione di un “individualismo competitivo” che si esprime attraverso una lotta per il conseguimento degli incarichi svolta attraverso l’utilizzo e l’espressione di trasformismi e opportunismi. Sotto quest’aspetto siamo anche a una forma degenerativa della cosiddetta “democrazia del pubblico”;
3) Dispiace per chi crede in questo strumento come fattore di “allargamento della democrazia” ma sono proprio le primarie il fattore determinante di questa logica trasformista – opportunista. Le primarie sono uno strumento di una forma particolare di democrazia diretta che sottovaluta o addirittura nega le forme fondamentali della democrazia rappresentativa. Tanto più quando si svolgono senza regole, neppure quelle minime che sono state ormai da molto tempo adottate in quel paese, gli USA, dove sono state inventate per scegliere i candidati dei maggiori partiti alla Presidenza della Repubblica;
4) “L’individualismo competitivo” porta poi alla necessità di affrontare un altro delicatissimo aspetto: quello delle risorse finanziarie necessarie per prevalere sui concorrenti. Ne deriva, come verifichiamo molto spesso, una commistione tra finanza, politica, affari affatto diversa da quella che aveva animato, a suo tempo, “Tangentopoli”. Non un fatto esterno ma interno alla logica stessa della gestione del potere. Soprattutto nascono da qui scelte compiute in materia di politiche pubbliche assolutamente funzionali al reperimento di risorse per la lotta politica interna per assumere le quali debbono essere costruiti opportuni centri decisionali;
5) Il tema della decisionalità rimane quello dirimente e rimane collegato all’assenza di produzione di cultura politica che rimane il carattere distintivo del PD. Quando la decisionalità purchessia diventa la “stimmate” di un partito politico fondato sulla personalizzazione a tutti i livelli e che punta all’espressione assoluta della governabilità senza principi il risultato è quello della subalternità nelle scelte: nel nostro caso la subalternità, prima di tutto, a Bruxelles e Francoforte e in secondo luogo ai vari centri di potere economico – finanziario che provvedono a mettere in campo le risorse necessarie per la sopravvivenza di questo sistema di potere.
In questo senso il PD è davvero un partito pericoloso per la democrazia e che agisce esclusivamente e naturalmente su spinte di natura clientelare.
Sono due gli elementi di riflessione che questi spunti appena accennati possono offrire a chi intende ancora misurarsi sui temi della qualità dell’agire politico e sulle possibilità d’espressione di un’opposizione di sistema che appare quanto mai necessario e urgente mettere in campo (è chiaro che quest’analisi del PD esclude, a tutti i livelli, una qualsiasi prospettiva di recupero di una formula di centrosinistra stile “Ulivo” et similia):
1) Servirebbe un’analisi di fondo del sistema politico italiano almeno a partire dal momento dello scioglimento del PCI e dell’adozione del sistema elettorale maggioritario ricordando che il PCI fu sciolto all’insegna della generica indicazione dello “sblocco del sistema politico”. Accanto al già operante “decisionismo” craxiano fu quello il momento in cui la sinistra italiana cessò pressoché completamente di riflettere sulle prospettive di fondo dell’azione politica in termini di sistema e si aprì il vaso di Pandora della degenerazione della vita politica;
2) Andrebbe posta in opera, attraverso un lavoro di costruzione/ricostruzione anche sul piano teorico, la prospettiva di costruire una soggettività completamente “aliena” (ben oltre che “alternativa”) rispetto al meccanismo fin qui descritto e che agisce appunto all’interno del PD. Una soggettività fondata, prima di tutto, su due elementi: quello della rappresentanza sociale connessa alle contraddizioni concretamente operanti nella realtà; quello della costruzione di una prospettiva di alternativa nel senso di una radicale trasformazione nell’insieme degli assetti politici recuperando molto (ma anche innovando) l’idea della repubblica parlamentare contenuta nella Costituzione.

Franco Astengo

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