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Paradiso perduto

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    L’INUTILITA’ DELLE LEGGI: TRA QUESTIONE POLITICA E QUESTIONE MORALE

    (26 Marzo 2015)

    inutilitaleggi

    Alessandro De Nicola conclude, oggi 26 Marzo, il suo articolo apparso nella pagina commenti di Repubblica con una citazione di Tacito “coruptissima re publica plurimae legis”.

    L’argomento dell’articolo riguarda la tanto strombazzata legge sull’anticorruzione in discussione al Parlamento (“troppi rinvii” ha chiosato il presidente del Senato Grasso).

    A costo di sfiorare l’accusa di qualunquismo deve essere chiarito subito che, nel complesso della situazione politica italiana, questa legge appare del tutto inutile: un semplice spot, come troppo spesso viene usato di questi tempi il procedimento legislativo, in funzione propagandistica pro-governo.

    Le leggi anticorruzione in Italia sono sempre servite come le “grida” dei governatori spagnoli in Lombardia che l’Azzeccagarbugli credendo Renzo un “bravo” gli mostra per indicargli la via dell’impunità.

    Niente di più e niente di meno.

    Le leggi anticorruzione, compresa la “Severino” che adesso il magistrato anticorruzione per eccellenza, questo “prezzemolo” Raffaele Cantone intende mutare allo scopo di non disturbare l’ascesa alla presidenza della Regione Campania dello sceriffo di Salerno Del Luca, sono risultate nel loro complesso, da Tangentopoli in poi non solo inutili ma foriere di una crescita esponenziale del fenomeno in tutti gli ambiti possibili del rapporto tra questione politica e questione morale: tangenti, “spese pazze”, appalti truccati, carriere facilitate e quant’altro possa venire in mente.

    “Questione politica e questione morale”: un titolo usato e abusato nel corso degli ultimi 30 anni (ed anche prima.) per commentare lo sviluppo delle vicende politiche italiane: un titolo che torna ancora d'attualità (se mai ce ne fosse stato bisogno) in questi giorni, davanti ai fatti che si stanno dispiegando davanti all'opinione pubblica.

    Cosa c'è di diverso rispetto al passato?

    Da un certo punto di vista poco, l'organizzazione del rapporto di affari tra politica, imprenditoria, amministrazione più o meno appare inalterata.

    Così come non pare cambiato il ruolo di “supplenza” esercitato dalla magistratura nei confronti della politica.

    Enucleiamo però alcuni due elementi di evidenti “diversità” rispetto all'epoca di Tangentopoli.

    Il primo fra tutti riguarda il quadro istituzionale nel suo insieme, con il passaggio a una forma di governo incentrata sul presidenzialismo che adesso s’intende suffragare attraverso l’adozione di un sistema elettorale che, alla fine, si rivelerà un vero e proprio trucco per limitare l’espressione democratica del voto e superare la natura parlamentare della Repubblica.



    Hanno vinto il populismo, la personalizzazione della politica, la cooptazione dall'alto e/o “dal basso” se guardiamo ai criteri di selezione del ceto dirigente, in un quadro complessivo di vero e proprio “familismo amorale”

    Non basta per fronteggiare questo stato di cose, apparentemente non contrastabile, quella che è stata definita “bella” o “buona” politica: intenzioni di cui appare lastricata di sassi la strada dell'inferno.

    Serve, invece, prima di tutto l'ingresso sulla scena politica italiana di un soggetto che manca: un soggetto in grado di indicare, in prospettiva, un diverso modello di società, di relazioni politiche, economiche sociali.

    Un soggetto dove l'interesse pubblico e collettivo prevalga, che non sia “un'isola”, si confronti con il resto, ma si realizzi comunque attraverso strumenti di agibilità dell'azione politica in modo da tenere assieme la partecipazione, la rappresentanza, la capacità di direzione.

    Serve un partito che intrecci assieme questione politica e questione morale, nell'accezione in cui Machiavelli distingue i partiti dalle fazioni (portatrici di disordini), quali portatori degli “umori sociali”: un partito portatore, insieme, di una ragione universale e strumento per l'intervento nelle istituzioni e, insieme, punto di coagulo del blocco sociale più avanzato.

    Serve una “diversità” radicale portatrice di una proposta di egemonia alternativa.

    Abbiamo ceduto su questo terreno; abbiamo ceduto al corporativismo e a un’idea, sbagliata, di democrazia diretta di tipo sostanzialmente “referendaria” (non a caso tutte le ultime tornate elettorali in Italia, sono state praticamente dei “referendum” su di una persona, quella al centro delle clamorose contese di questi giorni).

    Occorre questa idea di partito, comprendendo appieno come quella che è stata definita “partitocrazia” (da Maranini) può essere superata soltanto tornando alla piena rilevanza della rappresentanza politica collettiva.



    E’ difficile trovare la via di un discorso politico che non appaia semplicemente un richiamo moralistico e, quindi, potrebbe essere il caso di fermarci a questo punto dimostrando semplicemente di aver registrato attentamente, ma per l’ennesima volta in un caso di “repetita non juvant”, ciò che è accaduto di più recente: il sistema “Incalza”, l’inchiesta “Roma Capitale”, gli allarmi lanciati dall’ex-ministro Barca sul “PD romano soggetto pericoloso”, le cronache delle primarie in Liguria e in Campania.

    Il tutto in un quadro politico dove non esistono più centrodestra e centrosinistra (se mai questa distinzione ha potuto essere considerata seriamente valida) e il tutto appare confluito in un indistinto “Partito della Nazione” il cui solo scopo è detenere un potere ad ogni costo, esercitandolo senza principi.

    Due considerazioni di fondo però possono essere svolte:

    1) Non è certo costruendo un regime personali fondati sull’asservimento e la prostrazione di corifei interessati che si affrontano gli elementi più oscuri e difficili che rappresentano i veri mali di questo paese. Inoltre la politica non può limitarsi, come quasi sempre è avvenuto, a delegare la magistratura;

    2) Forse, da qualche parte, è ancora il caso di richiamarsi alla “diversità” legata all’espressione di un’idea di eguaglianza, di diverso modo di vivere, di ideali da perseguire per i quali può valer la pena di vivere. Studio e sacrificio, nella via “etica” alla politica, in una qualche misura indicata nell’odio gli indifferenti di memoria gramsciana potrebbe ancora rappresentare un monito e un esempio. Poca cosa? Intanto…

    Franco Astengo

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