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(24 Novembre 2011) Enzo Apicella

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    LA FIOM ALLA RIPROVA DEGLI SCIOPERI ALLA FIAT CONTRO LO STRAORDINARIO NEI SABATI E DOMENICHE

    (6 Aprile 2015)

    Bravo Marchionne

    Il 12 gennaio Marchionne annunciava da Detroit l’assunzione di mille lavoratori alla Fiat Sata di Melfi. Intervistato da Repubblica il 14 gennaio, Landini dichiarava: «È un’ottima notizia. Diciamo bravissimo a Marchionne. È la dimostrazione che con gli investimenti e i nuovi prodotti arriva l’occupazione». Potremmo definire quella di Landini demagogia sindacale: un pensiero che apparentemente aderisce alla realtà ma solo perché ne rimane alla superficie rifiutandosi di andarvi in profondità.

    Che ingenti investimenti comportino acquisto di materie prime e macchinari da un lato (il capitale costante) e forza lavoro dall’altro (il capitale variabile) è scoprire l’uovo di Colombo! Mezzo metro più in profondità della demagogia sindacale di Landini vi è la constatazione che gli investimenti possono anche significare ammodernamento della fabbrica, sostituzione dei lavoratori con le macchine e quindi generare l’effetto opposto: diminuire gli occupati. Produrre di più con meno operai, cioè aumentare la produttività per diminuire il costo per unità di prodotto, ossia abbassare il valore della singola merce e quindi il suo prezzo, allo scopo di battere la concorrenza.

    Ma si può – e si deve – andare ancora più in profondità. Il Capitale è investito se genera profitto. Uno dei fattori fondamentali della crisi del capitalismo è la sovrapproduzione. Se il mercato è saturo le aziende non investono perché non riescono a vendere le merci. Per questo le fabbriche si fermano. Questa è stata la situazione del comparto produttivo automobilistico, come di tanti altri, con la nuova accelerazione della crisi nel 2007/08. Landini aveva un bel invocare investimenti in questa situazione.

    Ora, dopo anni di drastici cali delle vendite, si assiste a una parziale ripresa – buona nell’area nordamericana (Stati Uniti, Canada, Messico), debole in Europa – e alcuni stabilimenti del gruppo in Italia riprendono a produrre. Le vendite negli Stati Uniti sono favorite dal deprezzamento dell’Euro rispetto al Dollaro e in generale nel mondo dal calo del prezzo del petrolio e quindi dei carburanti. Tutti fattori dell’economica capitalista di cui una azienda tiene ovviamente conto. Nulla ha fatto di strano o straordinario la Fiat ed il suo amministratore delegato, né prima né ora, se non battersi per la affermazione di questa azienda nel mercato mondiale.

    “Bravo Marchionne”, certo, è ciò che penseranno gli azionisti Fiat. Ma è interesse della classe operaia la affermazione della Fiat sul mercato mondiale? Se in questa competizione la Fiat vince non sarà a discapito di altri gruppi, o viceversa? E che sarà dei lavoratori delle aziende sconfitte nella competizione capitalista? Le sorti dei lavoratori dipendono dalle fortune della azienda in cui lavorano? Vi saranno lavoratori che vincono insieme alle aziende per cui lavorano e altri che perdono, o piuttosto tutti saranno sconfitti se sottometteranno i loro interessi a quelli aziendali?

    Per queste elementari considerazioni classiste il movimento operaio nella sua grande tradizione ha sempre rifiutato di legare la lotta alla disoccupazione alle sorti della azienda, come fa invece Landini sostenendo che gli investimenti portano l’occupazione; si è invece sempre battuto per una soluzione che tanto va contro gli interessi di tutte le aziende quanto è favorevole a quelli di tutti i lavoratori: la riduzione dell’orario di lavoro.


    Svilire lo sciopero: Pomigliano

    A seguito della ripresa produttiva, da gennaio, in alcuni stabilimenti la Fiat comanda sabati e domeniche di straordinario. Dopo anni di cassa integrazione, a fronte del ritorno degli ordini l’azienda pretende di produrre ai massimi ritmi. Si arriverà così più in fretta a una nuova saturazione del mercato, a nuova cassa integrazione, a nuovi licenziamenti. Ma il profitto sarà massimo e maggiori le possibilità di non soccombere nella competizione capitalista. Altre strade, nel capitalismo, non vi sono né si sono mai viste. Il massimo per il capitale è disporre dei lavoratori come esso meglio vuole: massima “flessibilità”.

    Contro questa pretesa la Fiom proclama lo sciopero dello straordinario il sabato e la domenica. Si tratta più di una azione simbolica, di non piegarsi completamente alla volontà aziendale, che di una lotta per conquistare un determinato obiettivo: si sa infatti che lo sciopero sarà difficile per dei lavoratori che vengono da mesi di cassa integrazione. A Pomigliano metà della forza lavoro è ancora in questa condizione. Lo sciopero quindi avrebbe un valore, perché indica la strada della distribuzione del lavoro fra tutti gli oltre 4000 operai. Ma questo obiettivo è evocato dalla Fiom come un generale principio di giustizia e non vi è alcuna intenzione di imbastire una lotta adeguata a raggiungerlo effettivamente.

    Va ricordato cosa accadde nel 2013. La Fiom e lo Slai Cobas proclamarono anche allora, per sabato 15 giugno, sciopero dello straordinario. Un ingente schieramento poliziesco spezzò i picchetti. Il sabato successivo si mosse la Fiom nazionale: fu organizzata nella notte del venerdì una sorta di festa, alla presenza di Landini, con delegati da varie parti d’Italia e anche qualche parlamentare. Ma il picchetto, questa volta, non provò nemmeno a opporre resistenza all’intervento poliziesco: appena le forze dell’ordine si fecero avanti Landini ne ordinò lo scioglimento.

    Era perciò certa la difficoltà del nuovo sciopero contro lo straordinario. Cosa ha fatto la Fiom per cercare di portare successo alla nuova mobilitazione o quanto meno di evitare un suo completo fallimento? Nulla. Nemmeno un finto picchetto come nel 2013. E nemmeno dei semplici volantinaggi nelle giornate precedenti per informare i lavoratori dello sciopero. Ci si è limitati ad appendere in bacheca un volantino. Sabato 14 febbraio allo sciopero hanno aderito cinque lavoratori su 1.478 comandati allo straordinario.

    La stampa borghese giustamente non si è fatta scappare l’occasione ed ha esaltato la sconfitta. Landini, intervistato dal Mattino di Napoli, non se ne è mostrato preoccupato: «Lo sapevamo che sarebbe andata così, eravamo consapevoli di ciò che sarebbe successo». Perché non far nulla per evitare la disfatta di uno sciopero, per di più in quella fabbrica simbolica dove iniziò, nel giugno 2010, da un lato, con Marchionne alla testa, il nuovo più duro attacco padronale, dall’altro la nomea della Fiom quale unico sindacato che voleva e poteva opporsi ad esso? Riportiamo i fatti per poi dare la nostra spiegazione.

    A seguito del suo fallimento la Fiom sospende lo sciopero a Pomigliano e annuncia che per il sabato successivo, il 21 febbraio, «i delegati e gli iscritti della Fiom devolveranno le maggiorazioni dello straordinario a un fondo di solidarietà gestito da Don Peppino Gambardella e dall’Associazione Libera. Si invitano tutti i lavoratori a contribuire a tale fondo che verrà utilizzato per aiutare i colleghi in difficoltà». Dunque, non sciopero per imporre ai padroni di aprire le tasche a sostegno dei lavoratori ma ulteriore sacrifico degli operai stessi, lasciando indisturbati gli industriali. Coerentemente, questa iniziativa dal sapore di penitenza pasquale è data in gestione ai preti.


    Combattere lo sciopero: Melfi

    Alla Fiat Sata di Melfi l’adesione agli scioperi, pur sempre minoritaria, è più robusta: fra i 300 e i 400 scioperanti su circa 2.000 operai chiamati al lavoro il sabato e la domenica. Ciononostante venerdì 20 febbraio, in una riunione fra direzione nazionale, regionale ed RSA di stabilimento, la Fiom decide anche in questo stabilimento di sospendere lo sciopero. Una minoranza di delegati però – cinque su sedici – non rispetta la decisione e prosegue a organizzare gli scioperi.

    La rinuncia allo sciopero da parte della Fiom avviene durante la cruciale trattativa sul passaggio da 18 a 20 turni. In tal modo Melfi diviene la prima fabbrica automobilistica a ciclo continuo, sottoponendo gli operai a uno sfruttamento ancora più spietato per giungere a produrre 1.100 auto al giorno e correre più rapidamente verso nuova sovrapproduzione, cassa integrazione, nuovi licenziamenti, massimizzando però nel periodo di ripresa degli ordini il saggio del profitto. L’accordo è siglato da Fim-Uilm-Fismic-Ugl-Aqcf la sera di giovedì 26 febbraio. Nelle assemblee i giorni successivi vi sono contestazioni di un certo peso ma l’unica cosa che fa la Fiom è... chiedere di cambiare l’accordo! Nel frattempo lo sciopero organizzato dai cinque delegati seguita a non essere sostenuto.

    Mercoledì 25 febbraio, a Pomigliano, nella Sala dell’Orologio, Landini tiene una conferenza nella quale annuncia il suo progetto di “Coalizione Sociale” e spiega come «va bene tornare in piazza ma bisogna anche trovare nuove forme di protesta». La vera “vecchia forma di protesta” da mettere in disparte non è un generico “scendere in piazza” ma precisamente lo sciopero.

    Il 9 marzo la corrente di minoranza “Il sindacato è un’altra cosa” lancia una manifestazione nazionale davanti ai cancelli della Sata di Melfi per sabato 24 marzo a sostegno dello sciopero, appellandosi per la partecipazione anche al sindacalismo di base. La risposta della dirigenza è pronta. Due giorni dopo a Potenza si svolge l’attivo dei delegati della Fiom provinciale allargato ai direttivi della Sata nel quale Landini ribadisce la fermata degli scioperi contro gli straordinari comandati in Fiat e ammonisce al rispetto della disciplina da parte dei delegati. Lo stesso giorno Landini, insieme al segretario provinciale Cgil, al segretario regionale Fiom, al deputato di Sel ex operaio alla Fiat Sata Barozzino, al Coordinatore Nazionale Fiom per il Gruppo Fca, si presenta davanti ai cancelli della fabbrica a volantinare. Gli operai più ingenui dentro la fabbrica, e soprattutto quelli fuori, sono ingannati vedendo il segretario del sindacato fare volantinaggio in mezzo agli operai e non impegnarsi a fermare gli scioperi nelle riunioni interne.

    Alla manifestazione di sabato 14 aderiscono diversi sindacati di base: SI Cobas, Usb, Cub e il Comitato Cassaintegrati di Pomigliano. Le adesioni allo sciopero restano sostanzialmente in linea con i sabati e le domeniche precedenti. I delegati ribelli della Fiom aggirano l’accusa, nemmeno tanto velata, di indisciplina proclamando l’astensione dal lavoro non contro lo straordinario ma per la sicurezza sul lavoro, a seguito di un incendio sviluppatosi la notte del 4 marzo all’interno del capannone plastiche. L’incidente, effettivamente grave, non aveva visto alcuna reazione né da parte dei sindacati firmatari dell’accordo del 26 febbraio né da parte della Fiom.

    Bene han fatto i delegati Fiom a dare anche questa motivazione allo sciopero, ma va d’altronde detto che, da un lato avrebbero potuto farlo il sabato e la domenica precedenti, dall’altro che nulla vietava di aggiungere questa rivendicazione a quella del rifiuto dello straordinario e dell’accordo per la maggiorazione dei turni, invece che sostituirla ad esse. Si è trattato quindi, almeno in parte, di uno stratagemma per evitare le reazione da parte della dirigenza Fiom. Un comportamento comprensibile che non risolve ma solo rimanda il problema di fondo e che dimostra come, per organizzare una coerente azione di lotta, restando dentro la Fiom si debba finire per trasgredire alla disciplina interna, cosa che, alla lunga, come spiegato dallo stesso Landini, significa porsi fuori dal sindacato.


    Tre assemblee in CGIL

    Parallelamente all’arretramento nel campo di un sindacalismo sempre più apertamente anticlassista sul piano aziendale – in questo caso nella Fiat – lo stesso processo segue a compiersi sul piano generale.

    Facendo un passo indietro, il 18 febbraio si svolge il Direttivo Nazionale della Cgil. Il Documento Conclusivo, approvatocon soli due voti contrari, afferma di voler proseguire la mobilitazione contro il Jobs Act. La minoranza di sinistra vede e denuncia nelle decisioni del Direttivo una smobilitazione, in quanto si rinuncia all’azione di sciopero. In effetti farsa è stata fino allo sciopero generale del 12 dicembre, farsa continua ad essere dopo. L’organo dirigente Cgil da un lato conferma ciò che aveva già stabilito al precedente direttivo del 17 dicembre, ossia di opporsi agli al Jobs Act sul piano aziendale. È questo uno stratagemma consueto in Cgil: passato il provvedimento contro cui non si è imbastita reale azione di lotta, si dissimula la sconfitta e si finge di non abbandonare la battaglia – mai combattuta – chiamando alla guerriglia azienda per azienda. Lo fece anche la Fiom con il contratto nazionale separato di Fim e Uilm. Quando alla lotta si chiama l’intera classe lavoratrice, o una sua intera categoria come i metalmeccanici, i rapporti di forza sono enormemente più favorevoli per i lavoratori rispetto a un confronto chiuso nella singola impresa. Ciò che non si è difeso sul piano generale di classe e che si è appena perduto non può essere riconquistato sul piano aziendale. Infatti si hanno solo sporadiche affermazioni in singole aziende – sempre meno a causa della crisi – in cui i rapporti di forza sono particolarmente favorevoli. Episodi propagandati a gran voce dalla Cgil ma che inevitabilmente finiscono per soccombere sotto la enorme marea delle sconfitte nella generalità delle altre aziende. Insomma, è solo una ulteriore turlupinatura.

    Dall’altro lato, la novità annunciata dal direttivo è la stesura di un “nuovo statuto dei lavoratori” che diverrà una proposta di legge da sostituire al Jobs Act e al veccho statuto appena demolito dalla nuova riforma. Pur non dubitando dello spirito anticlassista del contenuto di tale nuovo statuto, come si può far credere di poter conquistare ciò che si è appena perso, senza aver nemmeno combattuto? Infine, il direttivo lascia aperta la possibilità di ricorrere a un referendum abrogativo contro ilJobs Act.

    Sei giorni dopo – il 24 febbraio – si svolge a Roma l’Assemblea Nazionale della corrente di minoranza della Cgil “Il sindacato è un’altra cosa”. L’ordine del giorno conclusivo evidenzia una serie di errori, alcuni dei quali dovuti alla necessità di giustificare una lotta interna alla Cgil per un suo cambiamento in senso classista, che appare in maniera sempre più evidente impossibile, come noi denunciamo dal finire degli anni Settanta. Lo sciopero generale del 12 dicembre è definito “la fine della parabola di conflitto della Cgil”. Ma l’azione della Cgil non è stata un conflitto bensì una mobilitazione farsesca con lo scopo di dissimulare la volontà di evitarlo, il conflitto. La minoranza di sinistra confonde questa farsa con una reale lotta perché deve continuare a illudersi e a illudere su una natura della Cgil meno profondamente antioperaia di quel che realmente è. Ciò è confermato dalla successiva affermazione che la Cgil “non ha avuto il coraggio di fare sul serio”! Anche qui si vuol far passare la inveterata e irreversibile politica di questo sindacato come un errore della sua maggioranza, una sua debolezza. Si prosegue sostenendo che “la CGIL esce sconfitta”, mostrando di non comprendere che la forza del sindacalismo di regime riposa sulla debolezza e sulle sconfitte della classe operaia.

    Oltre alle questioni che vertono sulla natura della Cgil, un altro grave errore denuncia la mancanza di una impostazione sindacale classista in questa corrente: viene dato sostegno infatti alla proposta di avviare una campagna per un referendum abrogativo del Jobs Act. Il referendum è già una truffa, una trappola padronale, quando serve ad approvare accordi aziendali. In esso il voto del crumiro ha lo stesso peso di quello del lavoratore che sacrifica tempo della sua vita per la difesa degli interessi collettivi, rischiando la repressione aziendale. Nel voto segreto e individuale prende forza il ricatto aziendale, che invece è indebolito nelle assise pubbliche dei lavoratori, generalmente disertate dai crumiri e dagli individualisti. Queste considerazioni – cui ne andrebbero aggiunte altre importanti che non riportiamo per mancanza di spazio – si aggravano in un referendum a carattere popolare, interclassista, in cui per questioni che riguardano i lavoratori sono chiamati a decidere i membri di tutte le classi, anche di quelle che sullo sfruttamento dei lavoratori campano. Se già il referendum in azienda o categoria è un valido strumento per far prevalere la parte più arretrata della classe su quella più combattiva, che può affermarsi solo con la lotta, il referendum popolare conferisce al padronato ancor maggiori garanzie di successo, come si è visto nei casi passati.

    Infine, qui giustamente, l’ordine del giorno denuncia la decisione della Fiom di fermare gli scioperi alla Fiat e quindi di non sostenere i delegati che li stavano proseguendo alla Sata di Melfi.

    Tre giorni dopo – il 27 e il 28 febbraio – si riunisce a Cervia l’Assemblea Nazionale dei delegati Fiom. Il documento della maggioranza (Landini) è approvato con 484 voti a favore; quello della minoranza di sinistra respinto con 38 voti a favore. Numeri che rendono conto dei rapporti di forza fra le due correnti. Il Documento di maggioranza sostiene la proposta del Direttivo Cgil di un “progetto di legge di iniziativa popolare” per un nuovo statuto dei lavoratori così come l’avvio di una campagna per un referendum aborgativo del Jobs Act.

    La novità riguarda il rinnovo del Ccnl metalmeccanico, quello separato del dicembre 2012, in scadenza a fine 2015. La Fiom conferma e rafforza uno dei principi fondamentali della sua linea: l’unità sindacale con Fim e Uilm. Usualmente però i delegati Fiom discutevano una loro piattaforma, con la quale poi la dirigenza andava a incontrarsi con Fim e Uilm, per mediare una piattaforma unitaria. Questo passaggio, evidentemente più che altro formale, viene eliminato e si stabilisce che la dirigenza Fiom discuterà con gli altri sindacati senza prima essersi confrontata con un certo grado di approfondimento coi propri delegati sul rinnovo del contratto.

    Gli ultimi due rinnovi del contratto metalmeccanico sono stati separati, ossia non firmati dalla Fiom, la quale, per riconquistare un contratto unitario, che a suo dire difenderebbe meglio i lavoratori, ha di volta in volta ceduto sempre più alle posizioni apertamente filopadronali di Fim e Uilm. L’assemblea dei delegati di febbraio compie un ulteriore piccolo passo in questa direzione, allontanandosi ancora di più dalla rottura con Cisl e Uil sostenuta dalla sua minoranza.

    Anche ciò conferma il nostro bilancio sulla azione della sinistra Cgil che in un arco di oltre 35 anni non solo non è riuscita a conquistare la Cgil, non solo è sempre più lontana da questo obiettivo, ma nemmeno è riuscita a fermare questo continuo spostarsi su posizioni sempre più apertamente corporative.

    Partito Comunista Internazionale

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