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CENT'ANNI FA LE RADIOSE "GIORNATE DI MAGGIO"

(14 Maggio 2015)

filippocorridoni

Filippo Corridoni al termine d'una manifestazione interventista

24 Maggio 1915: “mormorò il Piave” e gli italiani furono gettati, grazie ad un vero colpo di stato militar-monarchico, nella fornace divoratrice della prima guerra mondiale.
L’Italia non era obbligata a entrare in guerra.
Sebbene la Triplice Alleanza (sottoscritta per la prima volta nel 1882) la legasse formalmente all’Austria e alla Germania, il fatto che l’Austria non l’avesse consultata prima di dichiarare guerra alla Serbia alla fine del luglio 1914 aveva significato che a rigore l’Italia era sciolta dai suoi obblighi.
Così mentre l’Europa mobilitava i suoi eserciti e nel corso dell’Agosto 1914 prese a scivolare verso la catastrofe, l’Italia annunciò la sua neutralità.
E molti, compresi Giolitti e una maggioranza di deputati, pensavano dovesse rimanere neutrale. Erano convinti che il Paese fosse economicamente troppo fragile per sopportare un conflitto di grandi dimensioni, tanto più a così breve distanza dall’invasione della Libia (1911).
Giolitti suggerì che l’Italia aveva da guadagnare “parecchio” contrattando con entrambe le parti la sua rinuncia a combattere.
Ma il Presidente del Consiglio del momento, Salandra, e il suo ministro degli Esteri, Sonnino, condussero negoziati segretissimi con i governi di Londra e Parigi da un lato e di Vienna e Berlino dall’altro (nello spirito di quello che Salandra chiamò “sacro egoismo”) con l’intenzione di accertare quale prezzo l’Italia poteva spuntare per il suo intervento nel conflitto.
Gli interventisti costituivano un fascio di forze eterogenee che agivano per motivazioni diverse.
C’era una minoranza di idealisti liberali. C’era il Re, che aveva ricevuto un’educazione militare e che voleva ridurre l’influenza di Giolitti, così come suo nonno aveva tentato di liberarsi di quella di Cavour.
La maggior parte dei massoni e degli studenti universitari dotati di più viva coscienza politica erano interventisti, e gli irredentisti naturalmente lo erano “in toto”.
Il partito nazionalista, non appena cominciò a svanire la sua originaria speranza di una guerra contro la Francia, fece fronte comune contro la Germania, dato che per esso una guerra qualsiasi era meglio che nessuna guerra.
I futuristi pure erano decisamente per la guerra, vista come un rapido ed eroico mezzo per raggiungere potenza e ricchezza nazionale: nel settembre del 1914 interruppero a Roma un’opera di Puccini per bruciare sul palcoscenico una bandiera austriaca.
Marinetti dichiarò che i futuristi avevano sempre considerato la guerra come l’unica fonte di ispirazione artistica e di purificazione morale e che essa avrebbe ringiovanito l’Italia, l’avrebbe arricchita di uomini d’azione e l’avrebbe infine costretta a non vivere più del suo passato, delle sue rovine e del suo clima.
Strani compagni di viaggio di questi elementi d’avanguardia erano i conservatori che continuavano la tradizione francofila di Visconti Venosta e di Bonghi, ma anche Salvemini e i socialisti riformisti, i quali volevano una guerra condotta con generoso idealismo, nel nome della libertà e della democrazia, contro la Germania che aveva invaso il Belgio violandone la neutralità.
I socialisti rivoluzionari con a capo Mussolini furono sorpresi di essersi venuti a trovare nello stesso campo neutralista in compagnia dei loro tre principali nemici, Giolitti, Turati e il Papa.
Ma nell’ottobre 1914 Mussolini modificò il suo atteggiamento in “neutralità condizionata” per abbracciare infine nel novembre la tesi opposta dell’interventismo dichiarato.
Può darsi che questo sconcertante cambiamento fosse dovuto al denaro francese, ma senza dubbio influì su Mussolini la convinzione che la guerra avrebbe potuto preparare il terreno alla rivoluzione e abituare le masse alla violenza e alle armi.
De Ambris, Corridoni e gli altri superstiti del sindacalismo rivoluzionario aderirono a questa visione; altrettanto fece Pietro Nenni che definì la neutralità un umiliante sintomo d’impotenza.
Nel novembre 1914 Mussolini fondò un nuovo quotidiano “Il Popolo d’Italia”, con lo scopo preciso di propugnare la causa della guerra contro la Germania; per l’iniziativa ricevette sovvenzioni dalla Francia e da alcuni industriali italiani.
Il partito socialista ufficiale, scandalizzato dall’irresponsabile tradimento di Mussolini reagì espellendolo.
Il PSI si divise così in due correnti entrambe neutraliste: quella moderata di Turati e Treves e quella rivoluzionaria di Lazzari e Bombacci.
All’inizio del 1915 i fautori dell’intervento erano dunque presenti in tutto l’arco dello schieramento politico, ma complessivamente risultavano essere in minoranza.
Alcuni membri del governo fecero allora presente che una nuova politica di guerra rappresentava una sfida deliberata nei confronti della grande maggioranza del Parlamento e dell’opinione pubblica.
Fatto ancora più grave, i motivi dell’interventismo dei diversi gruppi erano fra loro inconciliabili.
Ciononostante la loro momentanea unione indusse Salandra a un ardito atto di doppiezza politica.
Il 16 Febbraio 1915, sebbene fossero ancora in corso trattative con l’Austria, il Presidente del Consiglio inviò in tutta segretezza un corriere a Londra per far sapere che l’Italia era disposta a studiare eventuali offerte dell’Intesa.
Al tempo stesso fu imposta una sterzata brusca alle trattative in corso a Vienna, nella convinzione che le due parti si sarebbero ora conteso l’appoggio italiano.
La scelta finale fra i contendenti fu resa più facile dalle notizie, pervenute in marzo, di grandi vittorie russe nei Carpazi.
Salandra cominciò a pensare che la vittoria dell’Intesa era ormai prossima e divenne così ansioso di non arrivare troppo tardi per ottenere la sua parte di bottino che diede istruzioni al suo inviato a Londra di lasciare cadere alcune richieste italiane e di raggiungere l’accordo il più presto possibile.
Il memorandum originariamente mandato agli inglesi chiedeva non soltanto Trento e Trieste, ma tutto il Tirolo cisalpino, buona parte della Dalmazia con le sue isole, e una porzione dell’impero ottomano, oltre a un contributo finanziario, all’esclusione del Vaticano da qualsiasi futura conferenza di pace e un trattamento equo nella distribuzione delle colonie.
Ma il 27 Marzo furono accettate le controproposte di compromesso per paura che la guerra potesse concludersi quanto prima, e anche perché la Russia, come protettrice dei popoli slavi, insisteva di vedere ridotte le pretese italiane sulla Dalmazia.
Anche così, comunque, le clausole definitive del trattato di Londra portavano la frontiera orientale dell’Italia fino a capo Planka e le assegnavano la maggior parte delle isole dalmate.
In cambio Sonnino concesse volentieri ai serbo-croati uno sbocco marittimo a Fiume, in quanto questa città non rientrava nelle ambizioni italiane.
Il trattato segreto di Londra fu firmato il 26 aprile e in base ad esso l’Italia s’impegnava a entrare in guerra nel giro di un mese.
Le potenze dell’Intesa avevano deciso che l’assistenza militare dell’Italia non meritava più di un certo prezzo, e ciò specialmente dopo che si erano rese conto del tenore delle proposte di Salandra, che la missione von Bulow per riportare l’Italia nel campo degli Imperi Centrali era fallita.
Si giunse così all’anomala situazione per cui l’Italia venne a trovarsi per lo spazio di una settimana legata simultaneamente da vincoli di alleanza con entrambe le parti belligeranti: infatti, fu solo il 4 Maggio che Salandra denunciò la Triplice Alleanza in una nota privata indirizzata ai suoi firmatari, che egli definì in seguito sorprendentemente come il primo gesto politico compiuto in piena libertà dall’Italia dalla fine del Risorgimento in poi.
In nessun momento Salandra consultò Giolitti o alcun altri membri della maggioranza parlamentare, nonostante le formali promesse a farlo.
Salandra e Sonnino ingannarono anche i componenti del loro stesso Ministero e nessuno dei capi militari fu messo al corrente dei negoziati segreti in corso a Londra.
Il testo del nuovo trattato fu conosciuto soltanto alcuni anni più tardi, quando fu pubblicato da un giornale di Stoccolma sulla base di documenti russi.
Salandra impegnò così il Paese alla guerra su sua esclusiva responsabilità e (come confessò francamente) contro quelli che si sapevano essere i sentimenti della larga maggioranza del parlamento e dell’opinione pubblica.
Da un punto di vista strettamente giuridico, egli aveva senza dubbio diritto a farlo, ma l’Italia dovette sopportare tragiche sofferenze a causa di quest’anomalia costituzionale.
Salandra non aveva consultato neppure Cadorna né lo stato maggiore generale sul cambiamento di politica che richiedeva un completo rovesciamento dei loro piani militari.
Giolitti, leader dei neutralisti, viveva lontano da Roma nella sua tenuta in Piemonte.
La sua lunga assenza dalla scena politica rispecchiava un’altra deficienza della prassi costituzionale di allora.
Il suo punto di vista, che si sarebbe rivelato quanto mai lungimirante, era che quella che, superficialmente considerata, poteva sembrare una guerra facile e attraente di espansione nazionale, avrebbe potuto rivelarsi il primo passo di una rivoluzione interna.
Era convinzione di Giolitti che le aspirazioni nazionali avrebbero potuto essere soddisfatte agendo abilmente sul piano diplomatico, senza ricorrere alla guerra.
Egli era stato deluso circa la qualità dell’esercito e il morale della popolazione civile, e conosceva bene l’insufficienza dei suoi stessi stanziamenti per le forze armate e l’inettitudine dei generali dello stato maggiore.
Sfortuna volle che i suoi solidi argomenti non fossero tenuti nella dovuta considerazione, in quanto si era formata l’opinione generale che mascherassero la sua volontà di tornare al potere.
Giolitti disponeva della maggioranza in Parlamento e non aspettava che il momento favorevole per rovesciare Salandra; ma non ebbe il coraggio di insistere troppo apertamente nella sua difesa della neutralità, poiché questo tipo di posizione rischiava di indebolire il negoziato con l’Austria, nel caso di un suo ritorno al potere.
Salandra si aspettava una considerevole opposizione il giorno in cui sarebbe stato costretto a rendere pubblici gli impegni che aveva sottoscritto a nome del suo Paese.
La sua successiva confessione che la maggior parte degli italiani erano contro l’intervento era basata sui rapporti dei Prefetti.
Mussolini considerò addirittura un motivo d’orgoglio che il popolo fosse stato trascinato in guerra da una piccola minoranza e ne trasse personalmente la conclusione fatale che una minoranza dinamica avrebbe sempre prevalso sulle masse inerti e disimpegnate.
Fu questa una lezione di estrema importanza della quale Mussolini poté far tesoro gratuitamente, e non è senza significato che molti storici abbiano potuto parlare del maggio 1915 come di una prova generale del colpo di stato fascista dell’ottobre 1922.
Furono quelle poi definite “le radiose giornate di maggio”: il contributo offerto in quei giorni da D’Annunzio con i suoi infiammati discorsi di Genova e di Roma e da De Ambris e Corridoni con le agitazioni suscitate in quel centro nevralgico che era Milano risultavano decisive per il colpo pensato dalla minoranza interventista.
Per la propaganda il governo fece ricorso ai fondi segreti, e la polizia aveva da lungo tempo imparato sotto Giolitti l’arte di organizzare “manifestazioni popolari spontanee”.
Come poi osservò Salandra, queste manifestazioni erano guidati in massima parte da studenti universitari che, poi, nell’immediato dopoguerra tornati dal fronte come ufficiali avrebbero formato il nucleo più importante degli Arditi e delle squadre d’azione fasciste.
D’Annunzio, tornato dalla Francia dove si era nascosto per sfuggire ai creditori, fu informato preventivamente del Trattato di Londra e adeguatamente retribuito per la sua opera di propaganda e concluse i suoi discorsi di Genova (4 Maggio, allo scoglio di Quarto) e di Roma (12 e 13 Maggio) con questa proclamazione:
“O compagni, questa guerra che sembra opera di distruzione e di abominazione, è la più feconda matrice di bellezza e di virtù apparsa sulla terra”.
Tale fu la carica emotiva di quel maggio 1915 che alcuni guardarono poi a esso come a un momento di rigenerazione, il momento nel quale l’Italia aveva deciso di combattere per la giustizia e di vincere per la democrazia.
Un abbaglio colossale.
Il 20 maggio la Camera concesse al Governo i pieni poteri con una maggioranza di 407 voti contro 74 (Giolitti era già rientrato in Piemonte).
Il Partito Socialista votò contro, diventando l’unico partito europeo di estrema sinistra fuori dalla Russia a non dare il suo appoggio al conflitto.
Il 24 Maggio l’Italia dichiarò guerra all’Austria.
Una nazione lacerata nel suo tessuto morale si apprestava a sostenere uno scontro che sarebbe durato più di 3 anni lasciando sul terreno 650.000 morti e un milione di feriti.
I fanti, che presto si sarebbero trovati a morire nelle trincee, non avrebbero certo potuto non sentire tutta la brutalità e tutto il cinismo di chi li aveva trascinati alla guerra attraverso una simile mistificante retorica.
Una lezione della storia, da non dimenticare mai.

Per compilare questo lavoro sono stati consultati i seguenti testi: Massimo L. Salvadori “Storia dell’età contemporanea” Loescher editore, Torino 1976; Denis Mack Smith “Storia d’Italia” F.lli Laterza editori, Roma – Bari 1997; Christoper Duggan “La forza del destino: Storia d’Italia dal 1796 a oggi” F.lli Laterza Editori, Roma – Bari 2008.

Franco Astengo

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