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La Gelmini ha ragione

La Gelmini ha ragione

(26 Novembre 2010) Enzo Apicella
Manifestazioni studentesche contro la "riforma" Gelmini in tutte le città.

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CONTRO LA SCUOLA DEI PADRONI, CONTRO IL GOVERNO RENZI: UNA PRIMA RIFLESSIONE SUL MOVIMENTO DI MASSA DI QUESTE SETTIMANE

(16 Maggio 2015)

In queste settimane si è sviluppato, in modo imprevisto, e con caratteristiche inaspettate, un vero e proprio movimento di massa contro il DDL BUONA SCUOLA.
Quel movimento che avevamo auspicato nell’autunno scorso (una volta presentato il documento “la buona scuola”), quel movimento che abbiamo invocato a febbraio-marzo (alla presentazione del DDL), si è improvvisamente innescato nella fase finale dell’anno scolastico, nelle settimane immediatamente precedenti all’approvazione stessa del DDL.

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Un movimento di massa, innanzitutto. I dati reali di partecipazione dello sciopero del 5 maggio sono dati MAI VISTI IN NESSUNO SCIOPERO DELLA SCUOLA. Neanche dal famoso movimento dei comitati di base a metà degli anni ottanta (tra parentesi, quello dei comitati di base, organismi democratici di ogni scuola composto da insegnanti di diversi sindacati e anche da non iscritti; non dell’organizzazione sindacale di base “COBAS scuola”, che nacque da quell’esperienza di massa raccogliendo solo una parte della sua avanguardia). L’adesione il 5 maggio è stata intorno al 90% tra gli ATA, sopra 80% nell’infanzia e nelle primarie, sopra il 70% nelle superiori. Ma non solo. E’ stata fortissima la partecipazione alle assemblee, il coinvolgimento di ampi settori di lavoratori e lavoratrici nella preparazione dello sciopero: in moltissimi istituti si sono approvati documenti e prese di posizione (quasi tutte chiedendo il ritiro DDL); si sono fatte assemblee e incontri con genitori (elementari in particolare); sono comparsi nei giorni precedenti striscioni e manifesti all’ingresso degli istituti; sono stati preparati volantini “di scuola”, autoprodotti, per spiegare le ragioni dello sciopero. Ed ancora di più. Nei giorni successivi è stata massiccia l’adesione al boicottaggio Invalsi. Nelle scuole primarie, il 6 e 7 maggio (i giorni immediatamente successivi allo sciopero generale della scuola), l’INVALSI è stato svolto nelle seconde e nelle quinte delle elementari: oltre il 10% delle classi sono state coinvolte dallo sciopero. In molti plessi sono state organizzate casse di resistenza informali, per restituire parzialmente quanto perso dai colleghi/e coinvolti nello sciopero in quanto somministratori INVALSI. In diversi istituti, su sollecitazione della lotta in corso, molti o tutti i bambini sono stati tenuti a casa (anche in scuole campione). Una dinamica ripetuta e allargatasi il 12 maggio, nelle scuole superiori, con il coinvolgimento di associazioni e collettivi studenteschi. Circa un quarto degli studenti non ha partecipato ad Invalsi (per assenza studenti o per sciopero docenti). Un numero probabilmente simile lo ha boicottato, consegnando risposte inutilizzabili.
E’ un dato enorme. Nessuna protesta contro questo sistema di valutazione aveva ottenuto un tale successo: ha trasformato in senso comune la critica alla standardizzazione ed alla valutazione, quando sino a qualche settimana prima la maggior parte delle organizzazioni sindacali la difendeva a spada tratta. La FLC CGIL, ad esempio, non ha voluto sostenere formalmente questa lotta: pur essendo critica su alcuni aspetti dell’Invalsi, la maggioranza dell’organizzazione, ed in particolare la direzione del comparto scuola, è infatti favorevole alla valutazione ed anche alla valorizzazione (cioè ad un monetizzazione della valutazione, differenziando gli stipendi dei docenti). Pochi mesi fa ha infatti presentato e fatto approvare dal Direttivo nazionale FLC un linea generale sulla contrattazione, in cui per la prima volta si proponevano strumenti di valutazione e di premio della didattica, non individuali ma collettivi (“ai team migliori”: una proposta che non limita, ma anzi peggiora la dinamica competitiva di questo strumento, differenziando le classi e non solo i docenti). Temendo appunto che una lotta diretta contro Invalsi incentivasse un senso comune contro valutazione e valorizzazione, la FLC si è sempre rifiutata di partecipare a queste forme di lotta. Eppure il grande coinvolgimento di queste settimane nella lotta contro il DDL, ha costretto larghe parti della FLC e dello stesso apparato a sostenere questa lotta, ed in alcune occasioni anche a organizzarla.

Al momento, questo movimento è costituito sostanzialmente di lavoratori e lavoratrici della scuola. La partecipazione studentesca è ancora sostanzialmente limitata e, considerando il periodo dell’anno, probabilmente non avrà la possibilità di crescere prima dell’interruzione estiva. A innescare il movimento sono state diverse componenti. Da una parte il mega-piano di assunzioni dei precari, ventilato dalla scorsa estate, è precipitato concretamente con numeri più contenuti (100mila invece che 150mila) e con una chiara definizione dei suoi confini (GAE e dintorni), rendendo quindi sempre più evidenti l’esistenza di un’ampia fascia di esclusi (2/300mila persone nel complesso, di cui almeno la metà con un orario significativo di lavoro). Dall’altra parte, l’immagine della buona scuola si è focalizzata sull’autonomia competitiva tra istituti (fondi privati, POF, ecc) e soprattutto sul fortissimo accentramento di poteri nei dirigenti (elaborazione del piano scolastico, chiamata diretta dei docenti, gestione della valorizzazione stipendiale). Due elementi che hanno permesso di catalizzare il malcontento in una diffusa rivolta di massa contro l’impianto del DDL. Temendo la reazione di un universo scolastico imprevedibile, Renzi aveva condotto due diverse azioni di esplorazione del terreno. Nel corso dell’estate scorsa, aveva fatto avanzare da sottosegretari e portaborse alcune ipotesi di aumento sostanziale dell’orario di lavoro degli insegnanti a parità di salario. Dopo assemblee, presidi e proteste in piena estate, la proposta è stata velocemente sconfessata. In autunno ha avanzato una dichiarazione di intenti, il piano scuola, riservandosi di concretizzare più avanti le sue specifiche proposte di “riforma”. Nella consultazione farsa organizzata dal MIUR, attraverso questionari on line e assemblee territoriali con platee selezionate, è stato sorprendentemente abbattuto l’elemento su cui si era concentrata la comunicazione del governo e l’attenzione dei media (gli scatti di merito al posto dell’anzianità: cioè la differenziazione strutturale degli stipendi). In primavera, dopo una lunga e accidentata elaborazione nelle segrete stanze del governo, la “punta di lancia” propagandista della” riforma” è stata quindi sostituita con il preside-allenatore-mamager-sceriffo-sindaco. Il capo della scuola. Lì ha innescato la reazione di massa del corpo docenti, che i propri dirigenti li conoscono bene, ma che soprattutto hanno compreso le conseguenze di questa controriforma nella vita concreta delle scuole.

Questa rivolta di massa contro l’impianto del DDL è stata colta dalle burocrazie sindacali, rilanciata e fatta esplodere con lo sciopero del 5 maggio. CGIL CISL UIL SNALS e GILDA, i sindacati maggioritari della scuola, hanno avuto enormi responsabilità nell’accompagnare per tutto il corso dell’anno il percorso della buona scuola. Nell’autunno infatti hanno tracciato una valutazione articolata del primo “Piano Scuola” presentato dal governo Renzi. Ad esempio la FLC CGIL, pur nel quadro di “un’idea di scuola diversa dalla nostra”, pur in assenza “di scelte strategiche per il diritto allo studio” e di qualunque “attenzione per gli ATA”, pur in presenza di scelte “inaccettabili” (regolazione per legge di orario e retribuzione; sostituzione degli scatti di anzianità e blocco del contratto), ha riscontrato punti positivi nel progetto avanzato, addirittura convergenti con proposte della stessa FLC: superamento lavoro precario, istituzione di un organico funzionale, estensione del tempo pieno, ecc. Conseguentemente a questa analisi, questi sindacati non hanno indetto nessuno sciopero e nessuna protesta sino a primavera, limitandosi ad assemblee, petizioni e dichiarazioni alla stampa.
Il governo Renzi, replicando l’atteggiamento e l’esperienza maturata con il Job Act, davanti a questa titubanza ha radicalizzato arrogantemente l’impianto autoritario della riforma. Ha rinunciato a concentrarsi sulla differenziazione stipendiale, per focalizzarsi sulla gerarchizzazione della scuola (il manager e la diversificazione fra istituti). Nel mese di marzo e di aprile sono rapidamente cresciute le prese di posizione, la partecipazione alle assemblee cittadine, la rabbia e la richiesta di una risposta di lotta. Una crescita che è stata annunciata e ripresa dai comitati, dalle strutture auto-organizzate, dai sindacati di base e dalla sinistra CGIL (come quelli degli autoconvocati a Roma, del comitato 3 ottobre a Milano, del manifesto dei 500 e dell’assemblea contro la buona scuola a Torino, del coordinamento nella riviera toscana, ecc). Queste forze hanno lavorato per l’esplosione della protesta, indicendo per prime lo sciopero del 24 aprile. Le burocrazie sindacali della scuola hanno però colto l’innesco di questo movimento. Invece che soffocarlo, hanno deciso di rilanciarlo, dandogli una forza di massa attraverso la convergenza sulla data del 5 maggio, in una data inizialmente prevista solo dai Cobas scuola.
Uno sciopero ed un movimento che quindi, ad oggi, è diretto dalle burocrazie sindacali, nel quadro di una fortissima partecipazione e quindi di una fortissima pressione dal basso, unitaria e radicale. Tant’è che oramai tutte le organizzazioni, almeno a parole, hanno dovuto assumere nei fatti sia la protesta contro la valorizzazione (Invalsi), sia la parola d’ordine del ritiro del DDL. E quindi, nonostante propensioni e volontà a cercare accordi, hanno dovuto rifiutare il terreno degli emendamenti del governo, chiedere un cambio di impianto ed un decreto sui precari.

Questo movimento è un movimento politico contro il governo. Questo movimento infatti si è costruito su un terreno direttamente politico. Contro Renzi e contro il PD di Renzi. Queste sono le parole d’ordine, i cartelloni, gli striscioni diffusi nelle scuole. Un movimento di massa che si è posto immediatamente e naturalmente su un terreno di contrapposizione al governo. Perché questo movimento si è costruito contro uno degli elementi cardine del programma del governo. Perché la lotta è contro un progetto di scuola esemplificativo del nuovo profilo radicalmente liberale del PD renziano (competizione, fondi privati, centralità logica d’impresa). Perché il conflitto si è personificato sulla figura di Renzi, per sua stessa volontà: lui si è voluto identificare con la buona scuola e presentarla sempre in prima persona (tanto che il nome pubblico del disegno di legge non è come al solito “DDL Giannini”, dal suo primo presentatore formale, ma Buona scuola di Renzi). Renzi è il suo governo, è il PD ed è la buonascuola. Non a caso uno degli slogan più diffusi nella rete, nei social, nei passa parola è “Sono un insegnante, non voto più PD”: una terreno di scontro direttamente e chiaramente politico di questo movimento.

Questo movimento ha una prospettiva incerta. I tempi dell’approvazione parlamentare sono oramai stretti. Ancor di più, la prossima fine dell’anno scolastico incombe come una chiusura forzata dell’onda mobilitativa. In un contesto in cui la direzione del movimento, nonostante le pressioni dal basso, è ancora saldamente nelle mani delle organizzazioni sindacali maggioritarie. Cioè delle burocrazie sindacali che stanno subendo radicalità e determinazione di questo movimento (ritiro del DDL), oltre che alcuni degli stessi terreni di lotta (Invalsi e blocco scrutini). Quello che è uno degli elementi di forza del movimento, la sua unità, dimensione e compattezza, è pregiudicato dal rischio della divisione per la capitolazione anche improvvisa delle sue componenti più moderati e burocratiche (CISL scuola, GILDA e SNALS), come successo anche recentemente con la Gelmini. Capitolazioni a cui poi facilmente si accoda anche la FLC, in nome dell’unità sindacale e della difesa del suo programma di maggioranza sulla scuola (non così distante dall’impianto renziano, come appunto indica la piattaforma contrattuale indicativa che abbiamo ricordato prima).
In questo quadro, faticano anche ad emergere terreni concreti di lotta. Dopo l’Invalsi, si sta diffondendo il boicottaggio dei libri di testo (entro il mese è necessario adottare i libri del prossimo anno scolastico: in molti collegi docenti si stanno approvando documenti in cui questo atto non viene compiuto). Una forma di lotta poco visibile e comprensibile all’esterno del mondo della scuola, i cui effetti concreti non sono evidenti in tempi brevi (colpisce le case editrici, ma nella prospettiva di vendita il prossimo autunno), ma che ha il pregio di mantenere viva nel corpo docente la mobilitazione.

Il vero terreno di lotta che rimane, prima della tagliola estiva, è il blocco degli scrutini. Una forma di lotta che ha oggi dimensioni mitiche. Perché nel corpo docente rimane diffusa la memoria degli anni ottanta (dei comitati di base e della loro lotta), quando con questo strumento avevano alla fine ottenuto una vera vittoria: l’aumento contrattuale più significativo della storia della categoria, il tetto dei 25 alunni per classe, l’assunzione di 30mila precari. Grazie a questa dimensione mitica, grazie all’inesistenza di altri terreni immediati di conflitto, è diventata oggi orizzonte e parola d’ordine diffusa della mobilitazione. Tanto che tutte le organizzazioni sindacali la stanno riprendendo, persino quelle che l’hanno sempre combattuta, dalla FLC CGIL alla UIL.
Come terreno concreto di lotta, il blocco degli scrutini, è molto più problematico. Innanzitutto sul piano delle norme. Nel 2010, in occasione di una lotta indetta da Cobas, Unicobas e Gilda, la Commissione di garanzia sul diritto di sciopero ha infatti dichiarato illegittimo il blocco degli scrutini sulla base della Legge 12 giugno 1990, n. 146, che fu imposta proprio sull’onda dell’esperienza dei comitati di base nel corso degli anni ottanta (articolo 1, “l’esigenza di assicurare la continuità dei servizi degli asili nido, delle scuole materne e delle scuole elementari, nonché lo svolgimento degli scrutini finali e degli esami, e l’istruzione universitaria, con particolare riferimento agli esami conclusivi dei cicli di istruzione”). La Commissione si è basata anche sul contratto nazionale di lavoro della scuola, siglato il 26 maggio 1999, “gli scioperi proclamati e concomitanti con le giornate nelle quali è prevista l’effettuazione degli scrutini finali non devono differirne la conclusione nei soli casi in cui il compimento dell’attività valutativa sia propedeutico allo svolgimento degli esami conclusivi dei cicli di istruzione. Negli altri casi, i predetti scioperi non devono comunque comportare un differimento delle operazioni di scrutinio superiore a 5 giorni rispetto alla scadenza programmata della conclusione”.
Ora, come ha dimostrato la vicenda dei trasporti in diverse realtà e occasioni (Genova, Firenze, Milano, ecc), le norme antisciopero non comportano l’impossibilità di condurre una lotta determinata e prolungata. Soprattutto se un vasto fronte sindacale (a quel punto, anche non totalmente compatto), la sostenesse. Ma il blocco dei trasporti si concentra comunque su un numero ristretto di giorni, con una fermata concentrata ed improvvisa di tutti i lavoratori e tutte le lavoratrici, con un impatto esterno immediato e molto significativo (il blocco di bus, tram, metro, ecc).
Il blocco degli scrutini funziona invece in modo diverso: coinvolge i lavoratori e le lavoratrici separatamente ed in tempi diversi (collegio di classe per collegio di classe), su un periodo di diverse settimane, risultando visibile sono nel tempo. Nella stessa esperienza degli anni ottanta, il blocco non fu lanciato a fine anno scolastico, non fu immediatamente visibile, ottenne un effetto solo nel tempo.
La proposta del blocco degli scrutini, per sostenere una piattaforma di lotta centrata sull’aumento immediato e per tutti dello stipendio (lanciata da una scuola romana), fu avanzata sin dall’autunno 1987. Il blocco iniziò poi concretamente a febbraio, nel primo quadrimestre, scuola per scuola, a macchia d’olio. Ad anno scolastico aperto, e quindi senza immediate conseguenze su alunni e famiglie. Fu rilanciato a marzo dall’assemblea nazionale dei comitati di base. Esplose a maggio sulla stampa e nel dibattito politico, con le reazioni del ministero (commissari ad acta), le denuncie, le liste degli scioperanti fatte dai presidi, i carabinieri nelle scuole e l’apertura di procedimenti penali. Tocco a giugno 1987 un primo apice ed un primo successo, con il decreto sui 25 alunni per classe. Poi arrivo l’estate. Nel settembre 1988 la repressione giudiziaria fu sconfitta nei Tribunali (17.9.1987: “Il blocco degli scrutini non è reato, ma una legittima protesta sindacale: la preoccupazione creata può essere rilevante, ma da un punto di vista giuridico questa agitazione non deve essere catalogata come un'interruzione di pubblico servizio. Per questo va archiviata l'inchiesta contro i docenti dei comitati di base romani. A sostenerlo è il sostituto procuratore della Repubblica di Roma Giorgio Santacroce che ha anche chiesto la contemporanea archiviazione degli esposti contro le schedature degli scioperanti presentati dagli insegnanti dei comitati di base sulla legittimità del blocco”). Nel corso dell’anno scolastico successivo la lotta fu replicata con un andamento simile. Appello di lotta in autunno, blocco a febbraio, scioperi e cortei nazionali in primavera (si intrecciava con il rinnovo contrattuale della categoria). Con la minaccia di un nuovo blocco alla fine dell’anno scolastico, fu chiuso l’accordo nei primi di giugno 1988 con l’aumento di oltre 500mila lire al mese. La lotta cioè durò sostanzialmente due anni, il blocco iniziò a febbraio 1987 e fu condotto in ondate diverse, a lungo tempo. Le possibilità concrete di condurre vincere la lotta sul terreno del blocco degli scrutini sono quindi incerte. Il blocco degli scrutini non è uno sciopero prolungato come nei trasporti. Ma questa parola d’ordine raccoglie comunque due elementi importanti. Primo, ha una profonda radice nella categoria, raccogliendo consenso e unità. Due: porta avanti la lotta contro il DDL con una contrapposizione radicale con il governo. Quindi dischiudendo per sua stessa natura una lotta di lunga durata, se il governo non cede.
Per queste ragioni, questa parola d’ordine deve esser oggi ripresa e rilanciata nel movimento. Facendo nel contempo crescere la consapevolezza e l’autorganizzazione del movimento. Come abbiamo indicato nel documento conclusivo del CC del PCL dello scorso dicembre, “per lo sviluppo della lotta di classe, l’elemento determinante non è mai la vittoria del singolo conflitto, ma come questo è condotto”. L’elemento decisivo dello sviluppo di questo movimento di massa non sarà la vittoria sul DDL, ma la capacità di svincolarsi dalle direzioni burocratiche dei sindacati (e dalle loro capitolazioni e divisioni), facendo crescere la capacità di organizzare democraticamente la lotta. Per questo è importante costruire in ogni territorio assemblee RSU o di delegati/e, presentare il profilo radicale e di lunga durata della lotta (compreso il blocco degli scrutini), costruire un’assemblea nazionale e rappresentava di delegati e delegate delle scuola: per decidere lo sviluppo della lotta, per definire democraticamente una piattaforma di lotta, per non ridurre questa lotta ad un inutile ed episodico sfogatoio.

Il movimento della scuola in corso è una lotta politica contro il governo, in una dimensione di massa e non di avanguardia. Un movimento in difesa della scuola pubblica, contro una scuola di classe, contro un’impostazione liberale e padronale della formazione. Per questo il PCL non è solo al suo fianco: è parte del movimento di lotta, avanzando all’insieme dei lavoratori, delle lavoratrici, delle componenti e delle organizzazioni di questo movimento le sue analisi, le sue proposte, il suo contributo.

Partito Comunista dei Lavoratori

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