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La primavera americana

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    Eccedenza di capitale e mercato imperialistico

    (10 Maggio 2005)

    Si tratta del secondo articolo sul tema “imperialismo tra passato e presente”, già diffuso anche tramite questo sito web nel gennaio scorso. Oggetto del presente contributo è una riflessione il più possibile attualizzata del “contrassegno” leniniano dell’esportazione di capitale. Data la centralità della questione, si è ritenuto opportuno limitare ad essa l’intero contenuto dell’intervento.

    ECCEDENZA DI CAPITALE E MERCATO IMPERIALISTICO

    A) L’esportazione di capitale: il fenomeno e le cause nell’osservazione e nella riflessione di Marx e di Lenin.

    Lenin individua il terzo “contrassegno” dell’imperialismo nell’esportazione di capitale che caratterizza “il più recente capitalismo”, quello monopolistico, mentre l’esportazione di merci aveva prevalenza economica nel “vecchio capitalismo”, cioè quello di concorrenza.(1)

    Già Marx aveva affrontato il problema delle cause economiche dell’esportazione di capitale dai paesi capitalisticamente più evoluti verso altri paesi capitalisti meno progrediti o verso le colonie e le semicolonie (paesi formalmente indipendenti e capitalisticamente arretrati), cause che connetteva alla caduta tendenziale del saggio di profitto, alla conseguente riduzione degli investimenti e alla stagnazione tendenziale nei paesi ad alto grado di intensità del capitale. Egli, come noto, da un lato poneva il commercio estero (esportazione di merci) e, più in generale lo sviluppo delle economie esterne (trasporti, tecnica commerciale, credito, infrastrutture economiche e sociali, etc.), fra le cause contrastanti quella tendenza nella metropoli, dall’altro individuava la causa economica della penetrazione del capitale industriale nei paesi capitalisticamente meno progrediti (l’esportazione puramente finanziaria era agli inizi) nella maggiore profittabilità degli investimenti dovuta e alla diversa composizione organica del capitale nei paesi interessati e al meccanismo degli scambi sulla base di prezzi non equivalenti. È proprio la difficoltà di valorizzazione del capitale e l’ “eccesso di capitale” di cui parlava Marx (2), il punto dal quale parte Lenin nel descrivere la causa del fenomeno nell’imperialismo: “La necessità dell’esportazione del capitale è creata dal fatto che in alcuni paesi il capitalismo è diventato «più maturo» e al capitale […] non rimane più campo per un investimento «redditizio».(3)

    L’esportazione di capitale, se “ha assunto dimensioni gigantesche soltanto all’inizio del XX secolo”, (4) si è sviluppata nelle tre direzioni accennate sia nella fase del capitalismo concorrenziale, che in quella del capitalismo monopolistico.

    Gli investimenti si sono quindi diretti non solo verso altri paesi capitalistici, dove, per la legge dello sviluppo diseguale del capitalismo, permanevano disparità e con esse la possibilità di realizzare profitti differenziali, ma anche verso paesi dove, come scrive Lenin, “il profitto ordinariamente è assai alto poiché colà vi sono pochi capitali, il terreno vi è relativamente a buon mercato, i salari bassi, e le materie prime a poco prezzo”.(5) L’esportazione di capitale verso le colonie e i paesi capitalisticamente più arretrati acquista pertanto particolare rilevanza nella fase imperialistica in cui, scrive l’economista marxista A. Pesenti, “la logica del capitale è subito diversa: si tratta non tanto di fornire delle migliori opportunità di investimento in relazione a saggi di profitto diversi, cioè più elevati all’estero che all’interno, che già presuppongono una produzione di tipo capitalistico, ma di ovviare alla legge della caduta tendenziale del saggio di profitto nel proprio paese, accaparrandosi in esclusiva maggiore o minore materie prime e mercati, esercitando così una forma di sfruttamento che può andare dalla rapina vera e propria alla imposizione più o meno brutale di prezzi non equivalenti e all’acquisto forzato di proprie merci”.(6)

    Tuttavia la direzione della esportazione dei capitali si è rivelata in passato, e continua ad essere, varia e mutevole. Molteplici sono gli elementi che, sotto questo profilo, la influenzano sia in relazione ai movimenti del capitale finanziario delle aree imperialistiche che in relazione alle aree ed ai paesi di destinazione: forza delle classi lavoratrici, regimi politici, situazione dei mercati delle merci e dei capitali, libertà di movimento dei capitali, “ economie esterne” e quant’altro. A seconda della diffusione dei rapporti capitalistici e delle caratteristiche storiche e geopolitiche delle aree destinatarie dei flussi, il fenomeno ha portato e può ancora portare, in queste ultime, all’estensione del sistema capitalistico (con connesso sviluppo della proprietà capitalistica, del mercato, del lavoro salariato, del sistema creditizio e finanziario, di una normazione a tutela dei rapporti capitalistici) ovvero all’impedimento (o distorsione) di uno sviluppo capitalistico autonomo (ponendo in tal modo completamente l’economia del paese subalterno al servizio di quella del paese dominante) ovvero a situazioni in vario grado intermedie.(7)

    Anche per questa ragione Lenin mette in guardia dal dare peso esclusivo o anche eccessivo all’aspetto, naturalmente esistente, dello “sfruttamento dei paesi coloniali e sottosviluppati”: questa visione, a suo giudizio, si presta ad offrire una sponda a quelle posizioni (quella kautskiana in primis) di sostanziale acquiescenza all’imperialismo, le quali, come abbiamo visto, rifiutano di vedere nell’imperialismo una “fase del capitalismo”, definiscono il medesimo come la politica “preferita” del capitale finanziario e come la tendenza dei paesi industriali ad annettere i paesi agricoli.(8) L’erroneità dell’idea diffusa di una teoria dell’imperialismo riferentesi esclusivamente agli investimenti nei paesi capitalisticamente arretrati è stata sottolineata, tempo fa, da un’autorevole corrente di pensiero marxista.(9)

    B) Investimenti diretti esteri, “investimenti” di portafoglio e “joint ventures”.

    L’esportazione di capitale si è verificata storicamente in varie forme.

    E’ stata molto diffusa in passato (e lo è ancor oggi) l’erogazione di capitale da prestito da parte di soggetti privati o pubblici, con il vincolo per il destinatario di utilizzare questi prestiti per acquisti di beni strumentali nel paese mutuante. La circostanza era ben nota a Lenin.(10) L’esportazione di capitale di sovente è anche avvenuta mediante apporto diretto di beni strumentali, attraverso il trasporto di intere imprese o parti di esse, con concessione di brevetti, con apporto diretto di capitale monetario nella costituzione di imprese o nell’intervento in imprese già esistenti. Le esportazioni di capitale hanno rappresentato ieri e possono rappresentare oggi investimenti di lungo periodo o a breve termine. È quest’ultimo il tipo di “investimento” in rapido aumento negli ultimi decenni, sul quale torneremo in seguito.

    Secondo le definizioni economiche (e ancor più giuridiche) oggi in uso, gli investimenti di capitali all’estero possono distinguersi in investimenti diretti e “investimenti” di portafoglio. L’investimento è diretto quando è fatto per acquisire una “voce effettiva” (o “interesse durevole”) in un’impresa (direct investment enterprise) che opera in un paese diverso da quello in cui risiede l’investitore. Gli investimenti diretti assumono la forma di acquisizione di partecipazioni azionarie o di altro tipo al capitale sociale dell’impresa estera (equity) oppure quella di prestiti intersocietari.(11) Secondo l’FMI si possono includere nel novero degli investimenti diretti le partecipazioni azionarie di almeno il 10% in società estere. Gli investimenti diretti possono portare al controllo o al possesso integrale della società estera da parte dell’impresa del paese esportatore di capitali.(12) E’ notoriamente molto diffuso e sovente l’unico modo per poter esportare capitali anche il sistema delle joint ventures, espressione che designa un contratto (con i grandi paesi spesso frutto di lunghi e complessi negoziati) con il quale le imprese dei paesi esportatori di capitali si impegnano a collaborare con una o più imprese dei paesi destinatari dell’investimento per la realizzazione di un investimento o di un’opera allo scopo di conseguire un profitto da ripartire proporzionalmente e di congiungere “know how” complementari.(13) Le iniziative oggetto di joint ventures possono essere di natura industriale, commerciale o finanziaria.

    Il valore (e il volume) degli investimenti diretti esteri (i.d.e.) è impressionante. Limitando lo sguardo alla Cina, gli investimenti diretti esteri in questo paese sono stati pari nel 2004 a 64 mld. di dollari (4 mld. la quota Usa), investimenti che, cumulandosi con quelli degli anni precedenti, portano l’entità complessiva degli i.d.e. in Cina a 564 mld. di dollari. Il totale degli investimenti operati senza il transito da paesi terzi è di 48 mld. di dollari dagli Usa, 47 mld. dal Giappone, 40 mld. da Taiwan, 26 mld. dalla Corea meridionale, 10 mld. dalla Germania. Tuttavia, gli investimenti di questi e di altri paesi delle aree imperialistiche sono molto maggiori se si considera il transito dei capitali transnazionali da Hong Kong per 242 mld. di dollari, o da paesi terzi (paradisi fiscali o stanze di compensazione finanziaria): 7 mld. di dollari sono affluiti dalle isole Cayman, 25 mld. da Singapore, 6 mld. da Samoa occidentale, 37 mld dalle Isole Vergini.(14) Torneremo in seguito sulla questione cinese, su quella indiana e su quella di altre aree importanti dell’Asia e dell’America latina.

    Gli “investimenti” di portafoglio o finanziari (placements) rappresentano gli acquisti di titoli azionari, di obbligazioni o di altri strumenti finanziari che non presuppongono controllo alcuno della gestione dell’impresa partecipata.(15) Gli investimenti di portafoglio hanno acquisito negli ultimi decenni un’importanza particolare, assumendo assai spesso il carattere di operazioni speculative a breve termine. É stato scritto i recente: “Non è un mistero per nessuno che i flussi finanziari internazionali siano oggi un multiplo (e per giunta elevato) dei flussi commerciali. Basti pensare che già nel 1998 il movimento giornaliero di capitali a livello mondiale si aggirava intorno ai 2.000 mld. di dollari: ora, solo 1/50 o addirittura 1/100 di questa cifra […] si riferiva a scambi di merci. Non meno impressionante è la progressione di queste cifre […].”(16) Si tratta della manifestazione macroscopica di quell’eccedenza di capitale di cui abbiamo parlato all’inizio.(17)

    Tutela e valorizzazione del capitale finanziario monopolistico trasnazionale: le istituzioni economico-finanziarie imperialistiche (FMI, Banca Mondiale, WTO).

    La gestione redditizia diretta ed indiretta di quella gigantesca massa di capitale e delle sue varie modalità di impiego nell’ormai mercato unico mondiale imperialistico è il compito fondamentale, negli ultimi decenni, delle istituzioni economico-finanziarie dell’imperialismo sia di quelle più importanti (FMI, BM, WTO) che della miriade di quelle meno conosciute, operanti in campo economico-sociale, politico e culturale nel tentativo di costituire, nei vari paesi ed aree, blocchi sociali favorevoli al capitale finanziario.

    C) L’FMI da Bretton Woods alla crisi degli anni Settanta.

    Nel luglio del 1944 a Bretton Woods, nome di una borgata del New Hampshire negli Usa, nell’ambito della conferenza monetaria e finanziaria delle Nazioni unite, cui parteciparono 44 stati (l’Urss non vi partecipò), furono create le due istituzioni, dette appunto di Bretton Woods, vale a dire l’FMI e la Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo (Birs), nome originario di quello che è poi diventato il gruppo della Banca Mondiale.

    Nella conferenza la posizione del declinante imperialismo inglese fu sconfitta dall’ormai dominante imperialismo Usa. Da tempo erano mutati i rapporti di forza reciproci e le vedute opposte, espresse dalle delegazioni inglese e americana, rispettivamente capeggiate da Keynes e White, rappresentavano la traduzione, sul piano delle idee, degli interessi contrastanti delle parti e dello scontro in atto.(18) Gli inglesi sostenevano la necessità di creare una moneta internazionale (il bancor) emessa da una banca mondiale di nuova istituzione. I paesi con bilancia di pagamento in avanzo sarebbero risultati titolari di depositi presso questa banca mondiale; i paesi in disavanzo verso il resto del mondo sarebbero risultati debitori. Poiché si presumeva che, a parte squilibri transitori, ogni paese dovesse tenere la propria bilancia dei pagamenti in equilibrio, a lungo andare nessun paese sarebbe risultato né debitore né creditore della Banca mondiale. In caso di disavanzo il paese interessato avrebbe ottenuto un credito dalla Banca mondiale e non era quindi più obbligato a tenere costose riserve in valuta estera per far fronte ai disavanzi. Vi era inoltre il vantaggio politico che il prestito al paese in disavanzo sarebbe stato concesso dall’insieme dei paesi in avanzo e non da un paese specifico. Quest’ipotesi fu osteggiata dagli Usa che fecero prevalere la loro linea. Intanto, si stabilì che i pagamenti internazionali nel mondo occidentale sarebbero avvenuti in una qualsiasi valuta internazionale, a scelta dei contraenti: data la situazione storica nel momento era inevitabile che il dollaro divenisse la moneta usata nei pagamenti internazionali, essendo l’unica valuta convertibile in oro (vigeva ancora il rapporto, fissato nel 1934, di 35 dollari per oncia d’oro), essendo gli Usa l’unico mercato in grado di soddisfare le esigenze della ricostruzione e la potenza militare egemone in occidente. Gli accordi di Bretton Woods avevano previsto un sistema di cambi fissi tra le valute; ogni paese, una volta dichiarata la parità (cioè il rapporto di cambio) della propria valuta con il dollaro (e quindi con l’oro), si impegnava a difendere tale parità e ad assicurare la convertibilità della propria valuta (cioè la possibilità legale di convertire una disponibilità monetaria a vista denominata in dollari nella propria moneta e viceversa). A Bretton Woods, in realtà, fu stabilito che il dollaro fosse convertibile in oro solo a richiesta delle banche centrali, mentre per le monete dei paesi aderenti era prevista la convertibilità in dollari. In sostanza gli accordi di Bretton Woods stabilirono il signoraggio del dollaro, consentirono agli Usa di aprire alle loro merci il maggior numero di mercati, prevenendo ogni velleità protezionistica dell’Europa devastata dalla guerra, e permisero ai singoli paesi aderenti di controllare il movimento dei capitali, imponendo divieti o limitazioni, soprattutto agli “investimenti” di portafoglio, al fine di impedire ondate speculative che avrebbero messo a rischio la stabilità dei cambi. Non era infatti prevista nel sistema di Bretton Woods la costituzione di un mercato finanziario internazionale strettamente integrato. Da ciò derivava il fatto che ogni paese, non potendo compensare nella bilancia dei pagamenti squilibri di movimenti di merci con movimenti di capitale, era costretto a mantenere in equilibrio separatamente i movimenti di merci e di capitali (l’esatto opposto di quello che avviene oggi nella bilancia dei pagamenti Usa). È proprio la mancata previsione di un mercato finanziario unico, l’evento che consentiva a ogni paese di tenere i tassi di interesse interni ad un livello adeguato alla propria situazione, senza doverli commisurare a quelli del mercato internazionale. Il sistema di Bretton Woods apriva in occidente, nel contesto della supremazia economico-militare Usa, la fase della ricostruzione capitalistica. L’insieme delle regole sottoscritte (convertibilità delle valute, limitazione dei movimenti di capitale, sistema dei cambi fissi) favoriva una riproduzione che si realizzava con un incremento notevole della accumulazione reale. Questa fase, che durò circa un trentennio, costituì la base materiale delle politiche riformistiche attuate in gran parte d’Europa (sviluppo dei sistemi di sicurezza sociale, crescita dell’occupazione e dei salari reali, crescita del tasso di democrazia politica), e la base della riscoperta (e larga applicazione) di teorie economiche e sociali, quali il keynesismo, in precedenza su larga scala neglette. Si affermarono ideologie politiche favorevoli al miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro delle masse lavoratrici occidentali (alcuni hanno parlato di compromesso socialdemocratico)(19) e all’elevamento dei paesi arretrati del mondo (terzomondismo), mentre la cultura, nelle sue varie e complesse manifestazioni, stimolò e fu a sua volta sollecitata da questo nuovo clima della società. Grande influenza esercitò su tutto questo l’Urss, che, con la sua stessa esistenza, con le sue conquiste sociali e la sua forza politico-militare, chiamò in quegli anni i paesi imperialisti ad un’ardua sfida.

    L’FMI venne istituito per vigilare sulla applicazione delle regole di Bretton Woods. Altra importante funzione che venne ad esso assegnata fu quella di concedere finanziamenti a breve termine agli stati membri con deficit temporanei nelle proprie bilance dei pagamenti. All’origine i fondi dell’FMI furono quasi esclusivamente utilizzati da paesi europei. Il sistema di Bretton Woods resse fino al 1971. Ma già negli anni Sessanta gli Usa avevano dovuto difendere il dollaro per evitare che la riduzione della sua domanda (in favore di marco tedesco e yen giapponese), ne imponesse la svalutazione. Tuttavia, fu sempre più difficile impedire che il prezzo dell’oro salisse oltre il livello di 35 dollari l’oncia. Il processo di indebolimento della valuta americana culminò, appunto nell’agosto 1971, nella sospensione della convertibilità del dollaro in oro. Nel dicembre successivo il dollaro fu svalutato dell’8%. Entro poco tempo si passò da un sistema di cambi fissi ad uno di cambi flessibili (o fluttuanti).(20)

    D) L’FMI e la crisi capitalistica: il neocolonialismo del capitale finanziario.

    La riduzione dei ritmi di crescita delle economie occidentali, verificatasi a ricostruzione postbellica avvenuta (e con manifestazioni evidenti e relativamente stabili negli anni Settanta del secolo scorso), e l’eccesso di disponibilità di dollari (conseguenza dell’accennata diminuzione della loro domanda), fecero sorgere l’impellente necessità di assicurare a quel “capitale privo di investimenti”, di cui parlava Grossmann, gli appropriati “canali di deflusso”.(21) Il sistema dei cambi flessibili fu la risposta capitalistica (o meglio, una delle risposte) che diede a quella massa di capitale monetario, al momento inoperoso, uno sbocco nelle transazioni finanziarie internazionali, con una quota crescente destinata – si ribadisce – all’attività speculativa su valute, titoli, strumenti ”derivati” e quant’altro. È in quegli anni che si ridefinisce il ruolo dell’FMI, un’istituzione che riflette, nella sua stessa struttura, il potere di comando della “triade” imperialistica (Usa, UE e Giappone) e, al suo interno, la dominanza dell’imperialismo Usa. Il potere di voto nell’FMI è attribuito in proporzione alle partecipazioni finanziarie, il che si traduce, per gli Usa, nella titolarità del 17,87% dei voti, i quali costituiscono una quota di blocco dal momento che le decisioni più importanti si prendono a maggioranza ultraqualificata dell’85%. Gli stati della zona euro, che pur dispongono nell’insieme del 22,66% dei voti, non hanno mai messo in discussione il predominio Usa. La stragrande maggioranza dei paesi membri ha quindi un ruolo secondario, se non irrilevante, all’interno dell’FMI, il quale si è venuto sempre più caratterizzando, negli ultimi trent’anni, come strumento dell’“imperialismo collettivo” di una triade piena di contraddizioni al suo interno, ma concorde nelle finalità di sfruttamento e dominio di gran parte del mondo (e, in particolare, dei paesi capitalisticamente arretrati).(22)

    Quella che un tempo si chiamava la spirale del sottosviluppo, possiamo leggerla oggi come una accentuazione della polarizzazione tra aree imperialistiche dominanti ed aree ad economia sottosviluppata (non dimentichiamo che già nel 1997 il rapporto tra il reddito del 20% più ricco e quello del 20% più povero era passato da 1/30 del 1960 a 1/74). Anche se la Cina in misura maggiore (prima ancora il Brasile) e l’India in misura minore non presentano più alcune caratteristiche proprie delle economie sottosviluppate, ed hanno avviato, in grado diverso, da molti anni una cospicua, drammatica e contraddittoria accumulazione capitalistica, è ancor oggi agevole individuare in moltissime aree i tradizionali caratteri del sottosviluppo, che sommariamente si possono indicare in:
    - limitazione dell’attività produttiva in forma capitalistica moderna a pochi settori industriali (industria di sfruttamento delle materie prime e industrie genericamente a basso contenuto tecnologico);
    - prevalenza in agricoltura (comprendendo in questa dizione anche le industrie, se esistenti, di trasformazione dei prodotti agricoli) delle monoculture;
    - assenza o scarsezza di un tessuto produttivo intermedio;
    - scarso sviluppo delle economie esterne;
    - scarsa diffusione di conoscenze tecnologiche ed economico-finanziarie avanzate;
    - scarso livello dei sistemi di sicurezza sociale.

    I settori più evoluti delle economie di questi paesi vedono quasi sempre la presenza, sia pure in vario grado, del capitale straniero. Questo stato di cose cronicizza la necessità, per i paesi sottosviluppati, di essere tributari delle aree imperialiste sia per l’importazione di tecnologie avanzate, mezzi di produzione e prodotti ad alto contenuto innovativo, che per l’esportazione dei propri prodotti base. In gran parte di questi paesi mancano i presupposti per una forte accumulazione autoctona e la produttività del lavoro rimane mediamente bassa, mentre il plusvalore generato in modo capitalistico è, come detto, appropriato in larga misura dal capitale monopolistico straniero e trasferito nella metropoli in quantità maggiore o minore. Il plusprodotto non capitalistico è, a sua volta, trasferito in varia misura nella metropoli imperialista attraverso il sistema dei prezzi non equivalenti, che altera a sfavore dei paesi sottosviluppati i rapporti di scambio, oppure è appropriato in loco da ceti parassitari precapitalitici o da ceti di capitalismo mercantile per essere consumato improduttivamente o essere trasferito in conti bancari all’estero. Fuori dai settori sopra indicati, uno sviluppo industriale autoctono è normalmente ostacolato o impedito dall’imperialismo. A prescindere dall’ambito dei paesi sottosviluppati, abbiamo anzi assistito negli anni Novanta del secolo scorso alla sistematica distruzione, dove le condizioni economiche e politiche lo hanno permesso, dell’industria diffusa di molti dei paesi ex socialisti, le cui economie sono state ricondotte, in tutto o in parte e più o meno velocemente, ad una riproduzione subalterna o, addirittura, asservita.(23)

    Ma l’evento qualitativamente nuovo degli ultimi decenni del secolo scorso è stato il macroscopico indebitamento, in molti casi provocato, dei paesi del terzo mondo e dell’est europeo e il ruolo preponderante assunto nel processo dal sistema finanziario occidentale. E da questo momento che l’FMI si concentra sul finanziamento dei deficit della bilancia dei pagamenti di questi paesi e sulla gestione del debito da essi contratto con la metropoli imperialista con l’obiettivo di assicurare, attraverso i programmi di aggiustamento strutturale, la remunerazione del capitale da prestito, la relativa sicurezza del suo rimborso e, più in generale, la ristrutturazione dell’economia dei paesi indebitati in modo da orientarla a questi scopi e, finalità non secondaria, da renderla accogliente in tutti i suoi possibili aspetti strutturali e normativi (oltre che politici) all’insieme dei possibili interventi del capitale finanziario transnazionale. E’ questo il volto odierno - anche se non il solo - del neocolonialismo, ovvero dell’odierna “politica coloniale del capitale finanziario”.(24) Pertanto, sotto la copertura ideologica del “liberismo”, vengono imposte unilateralmente ai paesi economicamente deboli o indeboliti politiche di “aggiustamento” funzionali alla valorizzazione del capitale eccedentario che affluisce dalla metropoli imperialista e che si dirige ad investimenti diretti, oppure ad impieghi a breve termine di carattere speculativo.

    E) Le politiche antinflazionistiche dell’FMI e lo sfacelo sociale nei paesi “sovvenuti”.

    Elemento centrale nei programmi dell’FMI è l’assunzione di politiche antinflazionistiche nelle aree subalterne. L’inflazione, questo è il timore principale del Fondo, potrebbe provocare il deprezzamento delle valute di questi paesi e con esso la svalorizzazione degli impieghi effettuati in valuta locale dal capitale monopolistico transnazionale,(25) senza contare che un’inflazione elevata sarebbe ovviamente elemento di turbativa per il complesso degli investimenti effettuati. Lotta all’inflazione significa per l’FMI contrastare i “fattori inflattivi” nei paesi deboli, individuati quasi sempre, anche in assenza di significativi deficit pubblici e debiti interni o esterni, nella spesa pubblica sociale (previdenza, sanità, scuola), di cui si chiede la forte riduzione o addirittura l’eliminazione; in ogni forma di indicizzazione di salari, stipendi e pensioni ed in ogni forma di contrattazione collettiva, di cui si chiede senz’altro l’eliminazione; nel deficit delle bilance dei pagamenti, che produce deprezzamento delle valute e diminuzione delle riserve. Contraendo invece la domanda interna (soprattutto per consumi) e la spesa pubblica sociale si produce – è la convinzione dell’FMI – una riduzione dell’import, un riequilibrio della bilancia dei pagamenti (se squilibrio c’era) e un rafforzamento della valuta nazionale.

    Si favorisce quindi un’economia indirizzata all’esportazione, anziché all’ampliamento ed al rafforzamento del mercato interno. L’export dei paesi deboli è sostenuto dall’FMI perché produce avanzi nella bilancia commerciale e fa affluire nel paese valuta pregiata necessaria anche all’estinzione dei debiti; è ovvio che la competitività del paese esportatore, dovendosi escludere, salvo sparute eccezioni, una superiorità tecnologica anche settoriale di questi paesi, deve poggiare su una minore entità dei costi, in particolare della forza lavoro, il cui valore tende ad ulteriormente decrescere, almeno nel breve periodo.

    Ma lotta all’inflazione significa, sostiene l’FMI, politica monetaria restrittiva, fatta cioè di alti tassi di interesse, i quali sono uno strumento di buona remunerazione dei capitali da prestito impiegati. Al ceto dei “rentiers”, che è poi l’altra faccia del ceto capitalista degli investitori diretti, Lenin dedica attenzione nel “saggio popolare”.(26) Alti tassi d’interesse mettono in ginocchio le imprese locali indebitate (che tendono a chiudere, cessando ogni forma di concorrenza) e accrescono il disavanzo pubblico (se esistente), premessa per ulteriori “giri di vite” in danno prioritariamente dei ceti popolari.

    Elemento fondamentale delle politiche dell’FMI, e quasi premessa di tutto quanto finora detto, è la completa liberalizzazione dei movimenti di capitale, che entra in tutti i piani di aggiustamento strutturale. Le politiche di “offerta”, a cui i paesi subalterni sono indotti per attirare i capitali esterni (fiscalità di vantaggio nella tassazione di utili e dividendi, controllo sociale effettivo su operai e ceti popolari, legislazione limitativa degli scioperi, salari bassi e sistema della sicurezza sociale ai minimi termini), devono sempre e comunque garantire il disinvestimento e l’eventuale trasferimento dei capitali e dei profitti senza particolari controlli, anche se questo può essere causa di gravi squilibri nel paese subalterno (crollo della valuta locale, crollo dei corsi azionari, e quant’altro).(27) L’FMI pone normalmente le proprie condizioni all’atto della deliberazione e dell’erogazione del prestito ai paesi in crisi finanziaria o comunque in vario modo indebitati. Di alcune di queste condizioni, abbiamo già parlato. E’ opportuno completarne sinteticamente il quadro:
    - accesso del capitale monopolistico transnazionale al sistema bancario ed assicurativo locale;
    - privatizzazione dei settori dell’economia di proprietà pubblica o controllati dalla sfera pubblica;
    - soppressione di ogni sovvenzione, liberalizzazione dei prezzi di tutte le merci, incluse quelle di prima necessità;
    - eliminazione o riduzione dei dazi doganali, anche se posti a tutela di settori economici particolarmente deboli;
    - riforme fiscali che privilegiano l’estensione dell’imponibile ai settori più poveri dei paesi in crisi;
    - un quadro giuridico che consenta il dispiegarsi del capitalismo nei settori prescelti (la cd. certezza dei contratti).

    A questo punto, contando sulla debolezza e sullo sfacelo sociale provocato presso i ceti popolari (e non solo) da queste politiche, è aperta la strada agli investimenti diretti esteri (attraverso acquisizioni, fusioni, costituzioni di società, etc.) e agli investimenti di portafoglio.

    F) La Banca Mondiale

    È la seconda istituzione nata dagli accordi di Bretton Woods.(28) Valgono per essa le stesse considerazioni sulla la “pesatura” dei voti e sul “consenso di Washington” espresse per l’FMI. Anche questa istituzione, quindi, è posta sotto la tutela del Dipartimento del tesoro Usa (il suo presidente è tradizionalmente statunitense).

    In base agli accordi di Bretton Woods la Banca mondiale (BM) aveva un compito complementare a quello dell’FMI, cioè quello di promuovere la ristrutturazione delle economie capitalistiche nel dopoguerra attraverso prestiti destinati al finanziamento di progetti di sviluppo. All’origine anche i fondi della BM furono quasi esclusivamente utilizzati da paesi europei. Questa situazione fu stravolta dalla decisione americana, nel 1948, di istituire il piano Marshall che si sostituì per l’Europa alla BM, lasciando a quest’ultima come campo d’azione essenzialmente il terzo mondo.(29) Con il vessillo ideologico della “riduzione della povertà”, la BM ha sempre agito come soggetto incaricato di favorire e sostenere la penetrazione delle multinazionali nel terzo mondo attraverso il finanziamento di progetti che aprissero i mercati ai fornitori occidentali di attrezzature, impianti e macchinari nei campi d’azione della BM. Uno di questi è il settore agricolo, dove la BM ha contribuito a spezzare le economie di sussistenza, favorendo la penetrazione delle multinazionali del settore: è nota la sua attività di distruzione sistematica delle “terre comuni” in Africa.(30) Altro settore è quello dello sfruttamento delle foreste: qui ha finanziato progetti all’export andati a detrimento dell’ambiente dei paesi interessati. Altri ancora sono il settore minerario e quello delle infrastrutture. Nel 2004 la BM ha speso 20 mld. di dollari suddivisi in 245 progetti. Una parte significativa dei mezzi finanziari della Banca è destinata ai programmi settoriali di aggiustamento, complemento e supporto delle strategie dell’FMI (e quindi in ultima analisi degli Usa). Si tratta di finanziamenti ai settori da incentivare secondo i piani dell’FMI quali quelli, come accennato, orientati all’export.

    Il finanziamento di opere spesso inutili e costose serve inoltre a favorire, attraverso le erogazioni, la formazione nei paesi subalterni di un blocco sociale favorevole al capitale finanziario, cioè all’imperialismo, costituito dai gruppi dominanti locali (borghesia “compradora”, ceti precapitalistici) e dai ceti popolari che i primi riescono ad influenzare. Veicoli importanti di costruzione del consenso intorno alla BM (e ai suoi progetti) sono le ong laiche e religiose (naturalmente non tutte), le quali, esercitando un ruolo di mediazione tra BM e popolazione locale, entrano a pieno titolo nel blocco sociale dell’imperialismo.

    È di questi giorni la nomina a presidente della Banca mondiale di Paul Wolfowitz, già vicesegretario del ministero della guerra Usa (Pentagono), ideologo della guerra preventiva, copromotore ed ardente sostenitore della criminale aggressione statunitense all’Iraq. La nomina è avvenuta con l’avallo dell’Ue, convinta a fare questo passo, dopo i contrasti precedenti e successivi alla guerra in Iraq, non tanto dalla grottesca esposizione del “programma di lotta alla povertà” fatta dal Wolfowitz (“…il presidente Bush crede nella riduzione della povertà e nel fatto che bisogna lavorare in modo multilaterale”)(31), quanto dalle solide promesse Usa di appoggiare la nomina dell’ex commissario Ue Pascal Lamy a direttore generale del WTO, carica in scadenza nel 2005.(32) Appaiono pertinenti le considerazioni fatte da R. Di Leo(33) sul compito attuale della BM e sul significato della nomina di Wolfowitz: “La realtà è prosaica e odora di soldi. Servono soldi da erogare in modo mirato per farsi clientes nei paesi poveri, privi di istituzioni politiche. Serve un organismo come la Banca mondiale. La distribuzione dei fondi […] sarà delimitata dalla strategia del nuovo boss. Il suo compito sarà la promozione di legami di dipendenza economici e politici nei paesi prioritari per la geopolitica di Washington”. Come dimenticare poi che i soldi della Banca mondiale (e di molte altre istituzioni imperialiste) si sono rivelati preziosi in quelle operazioni di “cambio” dei regimi politici e di “esportazione della democrazia” organizzata “con l’aiuto di anonime organizzazioni non governative, ben fornite di bandiere e di gadget”?(34)

    G) L’Organizzazione Mondiale del Commercio (World Trade Organization – WTO)

    L’accordo sul commercio internazionale non fu raggiunto a Bretton Woods ma a Ginevra, nel 1947.(35) Lo scopo dichiarato dell’OMC è quello di assicurare la completa liberalizzazione degli scambi commerciali internazionali. La sua copertura ideologica è il liberoscambismo: il libero scambio favorirebbe infatti l’espansione del commercio e questa, a sua volta, favorirebbe la crescita. La storia, in generale, non dimostra affatto che vi sia correlazione tra libero scambio ed espansione commerciale. È semmai vero il contrario, e cioè che vi sia correlazione tra fasi di sviluppo (causa) ed espansione commerciale (effetto). I comportamenti protezionistici, di cui è piena la storia dei commerci internazionali, si sviluppano in maniera particolare nelle fasi di stagnazione o di crisi del ciclo economico. Osservando il contenuto dei negoziati multilaterali tra paesi, successivi all’accordo Gatt del 1947(chiamati rounds), e soprattutto i negoziati che vanno dal Tokjo round (1973-79) in poi, non può seriamente mettersi in dubbio che la finalità reale dell’OMC sia stata e continui ad essere quella di “scardinare tutte le resistenze doganali, tariffarie, protezionistiche che impediscano alle merci e ai capitali di utilizzare il mondo come unico mercato”.(36) L’OMC è un’istituzione al servizio degli interessi economico-politici delle aree dell’”imperialismo collettivo”, ed in particolare di quello Usa. La dimostrazione semplice di questo si ha nella prassi sistematica dei due pesi e due misure: piena libertà di penetrazione di merci e capitali esportati dalle aree imperialistiche verso i paesi subalterni; limitazioni, in vario modo e grado, dei flussi inversi (il flusso commerciale è significativo mentre il flusso dei capitali verso la metropoli, se si escludono i rientri per utili e/o disinvestimenti di capitali occidentali, è davvero poca cosa).

    Possono valere, al riguardo, le seguenti sommarie osservazioni:
    - per decenni la produzione tessile, in larga misura propria dell’industria tecnologicamente povera delle aree subalterne, è stata esclusa dalle regole dell’OMC grazie al cd. “accordo multifibre”. E’ proprio la cessazione degli effetti di questo accordo per la Cina, che ha liberato dal 1° gennaio 2005 l’export di questo paese da vincoli e contingentamenti, il fattore scatenante della forsennata campagna protezionistica promossa in Usa e in Ue (il libero scambio va bene, ma solo per gli altri!);
    - sono numerose le produzioni agricole delle aree Usa e Ue protette in forma massiccia e indiretta attraverso sussidi e sovvenzioni agli esportatori nazionali, oppure attraverso l’imposizione alle merci provenienti dalle aree arretrate di vincoli tariffari e non tariffari, quali il rispetto di normative sanitarie, amministrative, etc.;
    - gli Usa proteggono da sempre, in nome della “sicurezza”, il settore dell’alta tecnologia che si sviluppa in ambito soprattutto militare (ma con ampie ricadute in ambito civile) e che gode, per ricerca avanzata e sperimentazioni, di massicci finanziamenti. L’industria di produzione degli armamenti Usa, peraltro, beneficia fin dall’accordo di Ginevra del 1947 della “national security exception”, una clausola in base alla quale pratiche protezionistiche e sussidi all’export sono pienamente leciti;(37)
    - molte conoscenze e scoperte scientifiche che sarebbero utilizzabili, per esempio, nella lotta contro patologie diffuse del nostro tempo sono protette, a fini commerciali, in nome della tutela della “proprietà intellettuale” (brevetti) o della difesa dalla “pirateria” commerciale, fenomeno esistente ma dilatato a dismisura dall’occidente. In realtà, qui e altrove, si proteggono i sovrapprofitti del capitale finanziario.(38)

    È opportuno fermarsi qui. Come accennato prima, i temi relativi alle “questioni” cinese, indiana e latinoamericana, ai significativi segnali di rottura del mercato unico mondiale imperialistico, allo scontro per la ripartizione del mondo tra paesi ed aree valutarie (che caratterizzano l’ulteriore “contrassegno” leniniano) potranno formare oggetto di ulteriore intervento.

    Tuttavia, dato l’incalzare degli eventi, è bene fare un cenno fin da ora alla questione cinese intesa come questione economico-commerciale, valutaria e politico-militare. Essa è di estrema importanza e di stringente attualità, oltre che per la ragione commerciale indicata sopra, per la vicenda ampiamente discussa in questi giorni dello sganciamento della sua valuta (yuan) dal dollaro e dei riflessi planetari di un evento del genere in ordine alla ridefinizione dei rapporti economici, finanziari e valutari tra paesi ed aree imperialistiche. L’approfondimento degli squilibri e della instabilità dell’economica Usa e la perdurante stagnazione di Ue e Giappone, sembrano convogliare, in queste settimane, l’ostilità anticinese della triade imperialistica verso l’obiettivo dell’apprezzamento dello yuan. Non sono estranee a questo moto sia le richieste di Usa, G7, FMI (mai effettuate a gran voce e all’unisono come ora) che gli atteggiamenti minacciosi e preoccupanti assunti negli ultimi tempi soprattutto da Usa e Giappone. Ne sono testimonianza la dichiarazione congiunta nippo-statunitense sul rilievo”strategico” della sicurezza (leggasi indipendenza) di Taiwan, il sostegno Usa al Giappone per l’assegnazione di un seggio permanente nel consiglio di sicurezza dell’Onu, l’intimazione statunitense all’Ue di non far luogo all’applicazione della revoca dell’embargo delle armi alla Cina, l’occupazione giapponese di un arcipelago disabitato (Senkaku) rivendicato dalla Cina, dove sono stati localizzati giacimenti di idrocarburi. A tutto questo la Cina ha risposto, tra le altre cose, con il varo della “legge antisecessione”, che per la prima volta formalmente legalizza l’”uso di mezzi non pacifici” contro Taiwan, qualora le autorità dell’isola optassero “con qualsiasi mezzo” per l’indipendenza.

    NOTE

    (1) V.I. Lenin, L’imperialismo fase suprema del capitalismo, Roma, Editori Riuniti, 1973, p.615.
    (2) K. Marx, Il capitale, Roma, Editori Riuniti, 1965, Vol. III, pp. 288 e sgg., p. 303 e sgg., p. 309 e sgg., p. 395 e sgg..
    (3) Lenin, op. cit., p.617 (il corsivo è mio). Scrive ancora Lenin: “Sul limitare del secolo XX troviamo la formazione di nuovi tipi di monopolio; in primo luogo i sindacati monopolistici dei capitalisti in tutti i paesi a capitalismo progredito, in secondo luogo la posizione monopolistica dei pochi paesi più ricchi, nei quali l’accumulazione del capitale ha raggiunto dimensioni gigantesche. Si determinò nei paesi più progrediti un‘enorme «eccedenza di capitale»”(il corsivo è mio). Lenin, ibidem, p. 616. In un altro passo Lenin sembra voler sottolineare il concetto: “I capitalisti si spartiscono il mondo non per loro particolare malvagità, bensì perché il grado raggiunto dalla concentrazione li costringe a battere questa via”. Lenin, ibidem, p. 627.
    (4) Ivi, p. 617.
    (5) Ivi, p. 616.
    (6) A Pesenti, Manuale di economia politica, Editori Riuniti, Roma, 1984, p.776. Il corsivo nel testo è mio.
    (7) E’ opportuno inoltre rammentare che l’esportazione di capitale crea, secondo alcuni, una tendenza al miglioramento del saggio di profitto nel paese esportatore, in quanto in esso si riduce la quantità di capitale, cfr. M. Dobb, Economia politica e capitalismo, Torino, Einaudi, 1950, p. 224, in A. Pesenti, op. cit., p. 778.
    (8) Lenin, Quaderni sull’imperialismo, in Opere, vol. XXIX, Roma, Editori Riuniti, 1970, p. 417. In Opere, vol. XXIII, p. 105, Lenin scrive in polemica con Kautsky: “Kautsky si rifiuta di vedere nell’imperialismo una ‘fase del capitalismo’ e definisce l’imperialismo come la politica ‘preferita’ del capitale finanziario, come la tendenza dei paesi industriali ad annettere i paesi agricoli. Questa definizione è teoricamente del tutto falsa. La particolarità dell’imperialismo è proprio il dominio non del capitale industriale, ma di quello finanziario, è proprio la tendenza all’annessione non soltanto dei paesi agricoli, ma di qualsiasi paese”.
    (9) Magdoff, L’era dell’imperialismo, in Monthly Review, ed. it., maggio 1968.
    (10) “La cosa più frequente nella concessione di crediti è quella di mettere come condizione che una parte del denaro prestato debba venire impiegato nell’acquisto di prodotti nel paese che concede il prestito […]. L’esportazione di capitale all’estero diventa un mezzo per favorire anche l’esportazione delle merci “. Lenin, L’imperialismo cit., p. 619. Il capitale finanziario, scrive ancora Lenin, “scarnifica doppiamente la povera creatura, una volta mediante i profitti dei prestiti, e una seconda volta mediante i profitti degli stessi prestiti, quando questi vengono impiegati nell’acquisto di prodotti”, op. cit., p. 662.
    (11) Manuale bilancia dei pagamenti dell’FMI su Enciclopedia della Finanza, Garzanti, 1998, p. 325.
    (12) In tal modo si avranno rispettivamente le “associates” (società consociate in cui l’investitore possiede fino al 49%) le “subsidiares” (di cui possiede il 50% o più) e le “branches” (filiali possedute al 100%).
    (13) Si tratta del modo tradizionale per importare tecnologie e saperi economico-finanziari da parte dei paesi deboli.
    (14) Dati forniti dal ministero del commercio Usa e riportati su Il sole-24ore del 22.3.2005. I maggiori investitori Usa in Cina sono, in ordine, Motorola, General Motors, Dell Computer, Hewlett-Packard, Kodak, IBM, Lucent, Microsoft, Dupont , ed altre. Secondo il giornale confindustriale, i rendimenti degli investimenti Usa in Cina arrivano al 14% contro l’8% medio complessivo.
    (15) Una ulteriore definizione della distinzione tra investimenti diretti e di portafoglio è quella fornita dal “departement des questiones economiques” dell’Onu, in A. Pesenti, op. cit., p.627: “si intende per investimenti diretti, o investimenti di impresa, gli investimenti effettuati in impresa […] controllata dall’impresa del paese esportatore di capitale. Gli investimenti in titoli posseduti da capitalisti che non esercitano controlli sulla gestione sono indicati con la dizione di investimenti di portafoglio o finanziari (placements)”.
    (16) V. Giacché, Imperialismo e capitale finanziario, in “L’Ernesto”, n. 3 maggio-giugno 2004, p. 76.
    (17) Appare più che pertinente la spiegazione (riportata da Giacché nell’articolo citato) che venne data al fenomeno dal marxista H. Grossmann nel 1929: “I paesi più importanti hanno raggiunto un alto livello dell’accumulazione, in cui la valorizzazione del capitale accumulato incontra sempre maggiori difficoltà […]. Il capitale privo di investimento si procura così una serie di canali di deflusso, sia all’estero con l’esportazione di capitale, sia all’interno con la speculazione di borsa, canali appropriati ad assicurarne la valorizzazione”.
    (18) Non è forse inutile rammentare la riflessione di Lenin a proposito della spartizione del mondo (e il signoraggio trentennale del dollaro è stata una forma non territoriale di spartizione): “La spartizione [del mondo] si compie ‘proporzionalmente al capitale’, ‘in proporzione alla forza’, poiché in regime di produzione mercantile non è possibile alcun altro sistema di spartizione. Ma la forza muta per il mutare dello sviluppo economico e politico”, L’imperialismo cit., p. 627.
    (19) S. Amin, La gestione capitalistica della crisi, Milano, Ed. Punto Rosso, 1995, p. 77 e sgg..
    (20) Su tutto l’argomento cfr. A. Graziani, Lo sviluppo dell’economia italiana dalla ricostruzione alla moneta europea, Bollati Boringhieri, 1998, p. 115 e sgg..
    (21) Cfr. più sopra nota n.17.
    (22) In tema di “imperialismo collettivo” contro le “periferie” del mondo cfr. S. Amin, Geopolitica dell’impero, Asterios/Punto Rosso, 2004, p. 29 e sgg., e p. 50 e sgg.. Sempre S. Amin, il virus liberale, ed. cit., 2004.
    (23) Basti pensare a quanto è avvenuto nella Russia eltsiniana e nei paesi dell’est Europa, in particolare nell’ex DDR.
    (24) Lenin, L’imperialismo cit., p. 633.
    (25) L’esigenza di stabilità delle valute locali, caposaldo dei programmi di aggiustamento strutturale, porta sovente i paesi arretrati ad “agganciarsi”, con sistemi di parità, al dollaro e addirittura ad adottarlo come moneta nazionale (Ecuador e, fino a qualche anno fa, Argentina). In questo caso l’offerta di moneta e l’intera politica economica sono delegati agli Usa.
    (26) “L’imperialismo”, scrive Lenin,”è l’immensa accumulazione in pochi paesi di capitale liquido […]. Da ciò segue, inevitabilmente, l’aumentare della classe o meglio del ceto dei rentiers, cioè di persone che vivono del ‘taglio di cedole’ [...]. L’esportazione di capitale, uno degli essenziali fondamenti economici dell’imperialismo, […] dà un’impronta di parassitismo a tutto il paese, che vive dello sfruttamento del lavoro di pochi paesi e colonie d’oltreoceano”, L’imperialismo cit, p. 648.
    (27) Ne abbiamo avuto un esempio rilevante nella crisi asiatica del 1997. Essa era partita da una crisi di sovrapproduzione di merci favorita da un deficit di assorbimento di alcuni prodotti leader sui mercati di sbocco e da un ecessivo apprezzamento delle valute locali, legate al dollaro, che rendevano le merci scarsamente competitive. I fallimenti a catena che ne conseguirono determinarono da un lato la fuga dei capitali esteri con crollo delle quotazioni di borsa e, dall’altro, il blocco del credito interno, che estese la crisi a tutto il sistema industriale.
    (28) Il gruppo della Banca mondiale comprende la Birs (Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo), l’Ais (associazione internazionale per lo sviluppo), la Sfi (la società finanziaria internazionale), e l’Amgi (agenzia multilaterale di garanzia degli investimenti).
    (29) La storia della BM era quindi inizialmente legata alla ideologia dello sviluppo e al recupero delle ”periferie” del mondo attraverso l’industrializzazione nazionale.
    (30) La distruzione delle economie di sussistenza determinata dalla penetrazione rapida dei rapporti capitalistici nelle aree subalterne è uno dei fattori principali dell’ondata migratoria dall’Africa e dall’Asia verso i paesi occidentali. Il fenomeno non era sfuggito a Lenin: “Una delle particolarità dell’imperialismo[…] è la diminuzione dell’emigrazione dai paesi imperialisti e l’aumento dell’immigrazione in essi di individui provenienti dai paesi più arretrati”. L’imperialismo cit., p. 653.
    (31) Il sole-24ore del 31.3.2005.
    (32) Nella giostra delle nomine ci sarà forse lo spazio per una mancia al governo italiano con l’inserimento di E. Bonino nel commissariato Onu per i rifugiati, ibidem.
    (33) Il Manifesto del 2.4.2005.
    (34) Ibidem.
    (35) A Ginevra, nel 1947, 23 paesi raggiunsero un’intesa in materia i tariffe doganali e commerci. Il trattato di Ginevra fu chiamato “General Agreement on Tariffs and Trade” (Gatt). Nel 1995 fu istituito il WTO, in sigla italiana OMC. Il trattato istitutivo di tale organismo è costituito da 38 articoli.
    (36) U. Calamita, L’OMC, il chiavistello del liberismo economico, relazione tenuta al “corso di formazione dei comunisti”, Firenze 2001.
    (37) Cfr. al riguardo l’articolo di V. Giacchè, L’economia della guerra infinita, su “L’Ernesto”, gennaio-febbraio 2005, p. 13 e sgg..
    (38) Non abbiamo, per ora, fatto cenno agli scontri commerciali tra le aree imperialistiche che pur sono all’ordine del giorno: basti ricordare, ad esempio, i contenziosi Usa/Ue sulle sovvenzioni all’aeronautica civile e sui sussidi all’export agricolo, per non parlare dei dazi doganali sull’acciaio imposti dagli Usa. Se ne parlerà nel prosieguo.


    Firenze, 16 aprile 2005

    Raffaele Picarelli
    Laboratorio politico sindacale - Empoli

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