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Il museo-mercato e i nuovi manager

(26 Agosto 2015)

Alcuni giorni fa sono uscite le nomine dei 20 super-direttori dei più prestigiosi musei italiani a seguito di un bando internazionale lanciato a gennaio dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo (Mibac). Dalle oltre mille candidature, sono stati selezionati 13 italiani, 7 stranieri equamente suddivisi tra uomini e donne.

Le nomine hanno alzato una polemica di mezza estate impreziosita dalle ciarle dei vari Vittorio Sgarbi, Philippe D’Averio, Renata Polverini, leghisti e pentastellati vari tutti insieme a inveire contro l’umiliazione delle competenze italiche.
Prendiamo lo spunto da questo vespaio non per rivendicare la legittimità o meno di questi nominati dagli stipendi d’oro (145.000€ annuali più premio di risultato da 40.000 euro per i direttori con mansioni dirigenziali generali), ma per capire l’indirizzo generale del Governo riguardo la cultura e la sua progressiva messa svendita sul mercato.
Nell’ultimo anno il Ministro Franceschini ha seguito il faro della compenetrazione tra pubblico e privato incentivando il micro-mecenatismo (Decreto Cultura del 2014). Una innovazione introdotta da Franceschini riguarda i proventi riscossi dai biglietti: mentre prima venivano centralizzati nelle casse del Ministero Economia e Finanze, ora sono incassati direttamente dal museo che li vende. Un cambiamento nell’ottica della “responsabilizzazione” secondo il Ministro: non è irrilevante avere o meno visitatori, ognuno si arrangi come può per attrarre “clienti” . Musei di questo tipo necessitano di direttori che siano manager rampanti, in grado di raccogliere finanziamenti per dare lustro e visibilità alla propria struttura.
Il bando per i direttori museali in questione sancisce che 20 musei sugli oltre 5000 del patrimonio museale, siano l’eccellenza. I super-direttori che li guidano hanno poteri speciali che coprono tutte le attività: gestione, progetto culturale, attività di ricerca, importo dei biglietti, promozione di campagne per la raccolta fondi.
Il fatto che sette di essi provengano da altri paesi ha lo scopo di accreditarsi agli occhi dei finanziatori esteri come banche, enti, aziende. Non è una querelle tra chi vuole aprirsi al pubblico internazionale e campanilisti, ma se la cultura sia un patrimonio pubblico oppure una impresa da far fruttare. Chiaramente ci sono musei ad alto potenziale di profitto e musei meno “redditizi”: ogni anno abbiamo un flusso di 37 milioni di visitatori, ma l’85% di essi entra in soli 65 musei, questi sono molto ambiti dagli sponsor, d’altro canto, strutture dall’alto valore culturale che hanno scarsa fortuna di pubblico, saranno sempre più penalizzate e ignorate dai privati.
Nel Manifesto per la Cultura lanciato dal Sole24Ore, legge: “La complementarietà pubblico/privato, che implica una forte apertura all’intervento dei privati nella gestione del patrimonio pubblico, deve divenire cultura diffusa e non presentarsi sono in episodi isolatiè.[…] Si è osservato in questi anni che laddove il pubblico si ritira anche il privato diminuisce in incisività, mentre politiche pubbliche assennate hanno un forte potere motivazionale e spingono anche i privati a partecipare alla gestione della cosa pubblica”.
Il modello è quello proposto dal presidente della fondazione Palazzo Strozzi di Firenze, Lorenzo Bini Smaghi. La fondazione ha un ricavo proprio di 9 milioni di Euro l’anno a fronte degli 11,9 milioni di euro di contributi pubblici e dei 17,4 milioni di euro di contributi privati e sponsorizzazioni (L’impatto della fondazione sull’economia di Firenze 2010-2014). I privati coinvolti sono sia autoctoni come Ferragamo, Findomestic, Fingen, Carifi che stranieri come Bank of America, Brevan Howard, Boston Consulting, Saatchi and Saatchi. I finanziamenti che arrivano da Comune e Provincia di Firenze sono il fattore di “incoraggiamento” per i privati perché rappresentano la garanzia assicurativa.
Dunque il privato deve avere un ruolo strutturale a fianco del pubblico e non limitarsi a sponsor e mecenatismo. Tuttavia il privato non si imbarca in missioni per la salvaguardia di ciò che è abbandonato dallo Stato, interviene solo laddove ci sia una base economica forte garantita dal Pubblico. Lo Stato ci mette i soldi soprattutto per le attività di conservazione e tutela (ovvero quelle che rappresentano solo le uscite) e anche pochi, visto che le casse dei Beni Culturali ammontano ad 1 miliardo e mezzo ovvero lo 0,20% del bilancio dello Stato. Il privato coglie “l’opportunità imprenditoriale” del macro settore dell’industria culturale: erogazione dei servizi, comunicazione ma anche bookshop, ristoranti e bar. Se le cose vanno bene, il privato elargisce ed incassa, altrimenti ringrazia e saluta!
Per tutelare veramente il patrimonio culturale serve un vero piano di finanziamenti pubblici che raggiunga tutte le strutture, dalle più quotate alle piccole realtà, costrette a gestirsi con risorse scarse, volontariato e oblio mediatico. Affidarsi ai privati significa decidere che la cultura da salvare è quella che si vende bene, tutto il resto può essere progressivamente sacrificato. Privatizzare i Beni culturali significa inoltre approfondire ancor di più il precariato e il volontariato già dilagante nei musei italiani.
Tra gli alfieri dell’internazionalità del mercato dell’arte e gli sciovinisti che blandiscono banche e padroni nostrani, stiamo dalla parte dell’internazionalismo della cultura in mano al pubblico, gestita da chi ci lavora, forte delle proprie competenze e libera dalla questua del fundrasing.

Gemma Giusti - marxismo.net

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