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Scusa, India!

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(15 Marzo 2013) Enzo Apicella

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(Il nuovo ordine mondiale è guerra)

In un mondo arabo corso dagli imperialismi lievita la guerra generale

La crisi di febbraio - La Libia - Lo Stato Islamico - La Russia - Gli Stati Uniti - L’Europa - La Cina - L’Egitto - La Turchia - Lo Yemen - Quelli dietro le quinte

(16 Settembre 2015)

La crisi di febbraio

L’arrivo via mare di disperati da ogni dove si è recentemente ingigantito perché in Libia le formazioni armate del cosiddetto Stato Islamico hanno preso il controllo di alcuni centri della costa e da lì è iniziato un precipitoso esodo.

Mentre le emozioni della vilissima piccola borghesia italica oscillavano fra gli sbar­chi in massa e le mediatizzate brutalità dello Stato Islamico, o una combinazione delle due cose, nei piani alti del capitalismo italiano la preoccupazione era ben altra: gli investimenti italiani in Libia.

Dopo quasi due anni di totale disattenzione per gli scontri nel paese, con affrettate dichiarazioni il ministro degli esteri Gentiloni chiedeva il via libera dall’Onu per sbarcare truppe italiane in Libia “contro lo Stato Islamico” e fermare il “terrorismo” alle porte di casa, lasciando intendere che il governo era in massima allerta e pronto all’intervento militare. Gentiloni nascondeva la preoccupazione di perdere il controllo degli investimenti italiani nel settore petrolifero e la relativa importazione: se lo S.I. si impossessasse dei pozzi e dei tecnici dell’Eni l’Italia non sarebbe in grado di gestire da sola una crisi di tale entità.

È facile quantificare la cosa: il rapporto economico stilato dall’Eni per il quarto trimestre 2014 riporta una perdita netta di 2,34 miliardi di euro, che sconta l’adeguamento del valore delle scorte di greggio e derivati ai valori correnti (-0,86 miliardi) e le svalutazioni di attività finanziarie e altri oneri per circa 1,94 miliardi.

Il giorno seguente il primo ministro Renzi ha dovuto raffreddare le emozioni guerresche della borghesia: simili decisioni non si prendono a Roma, nonostante la minaccia dello S.I. di acconsentire un esodo di decine di migliaia di uomini, fra i quali vari loro militi che presto pianterebbero la bandiera nera sul Colosseo e su San Pietro.

La campagna di ostentate provocazioni dello S.I. va vista in una strategia generale dei grandi Stati imperiali che lo finanziano.

Vedi quella dal pilota giordano bruciato vivo, a cui ovviamente il reuccio di Giordania ha risposto bombardando le basi dello S.I. Se queste erano note e controllate da tempo perché non lo ha fatto prima? C’è dietro sicuramente un mercanteggio con gli Usa. Nel mondo arabo le proteste si sono limitate solo all’Egitto. Il giorno seguente l’Arabia Saudita annuncia che non parteciperà più ai bombardamenti contro lo S.I. per evitare la stessa fine ai suoi piloti.

Passa una settimana e lo S.I. si vanta di aver decapitato 21 egiziani di religione cristiana copta, lavoratori che nonostante le minacce sono stati costretti ad emigrare in Libia e con le loro rimesse mantenere le famiglie. Entra in azione l’aviazione egiziana e le forze speciali di terra per bombardare alcune basi dello S.I. in Libia ed occuparne altre. Navi egiziane pattugliano per impedire il rifornimento via mare di materiale bellico; ma non sappiamo quali sono i porti di armamento e rifornimento di quei convogli né come sia stata presa e concordata tale decisione. La Turchia e il Qatar hanno protestato contro l’azione egiziana.


La Libia

In Libia è fallito il tentativo di dividerne pacificamente il territorio in tre zone: Cirenaica, Tripolitania e Fezzan, riunendo gli interessi delle principali tribù locali ciascuna desiderosa di accaparrarsi una fetta della rendita petrolifera.

Le elezioni del 2012 consegnavano la Libia a un governo unico, ma il susseguirsi di violenze fra le varie fazioni ne impedivano il funzionamento al punto che nel giugno del 2014 si indicevano nuove elezioni e un nuovo parlamento si riunì a Tobruk e non più a Tripoli. Nel novembre dello stes­so anno la Corte Suprema libica dichiarava illegittimo il nuovo governo e ripristinava il precedente governo di Tripoli.

La contrapposizione è fra il governo di Tripoli, formato da partiti fra i quali prevale il Partito della Giustizia e della Costituzione, ala politica della Fratellanza Musulmana, e il parlamento di Tobruk, condizionato dal generale Haftar, che presenta lo scontro come tra il radicalismo islamico di Tripoli e le forze democratiche e laiche di Tobruk. Con questa operazione Haftar ha incassato il sostegno della coalizione anti S.I., e maggiormente di Italia, Gran Bretagna e Francia, che non possono permettersi di perdere il controllo della Cirenaica.

Ha incassato anche il prezioso sostegno economico e militare dell’Egitto di Al Sissi, dell’Arabia Saudita, e di gran parte delle monarchie del Golfo, in lotta aperta contro la Fratellanza Musulmana, che considerano una minaccia per la sopravvivenza dei loro governi e delle loro dinastie e contro i governi di fatto assoluti delle petromonarchie dove tutte le cariche economiche e politiche sono assegnate ai membri delle folte famiglie claniche dinastiche.

Gli equilibri delle forze in Libia sono tali da non permettere ad alcuna delle parti in gioco il predominio e il controllo del territorio, perpetuando quindi una totale instabilità. Tobruk chiede insistentemente l’intervento aereo della coalizione anti S.I. per estendere il territorio che controlla, ma non ha ancora ottenuto nulla di significativo. La comparsa di autoproclamatesi milizie dello S.I., con i consueti tragici rituali, e solo successivamente “prese in carico” da meno di due decine di esponenti della originaria struttura irachena, ha aumentato la confusione ed avvalorato le affermazioni, e le richieste, del generale Haftar circa una commistione tra il governo di Tripoli e lo S.I.

In questa situazione è interessante osservare la posizione e le manovre dell’Italia.

Nonostante la situazione, la produzione petrolifera libica è paradossalmente aumentata negli ultimi mesi assestandosi attorno ai 400.000 barili al giorno (la metà del potenziale attuale, ben inferiore ai livelli pre-crisi) localizzata soprattutto nell’area soggetta all’autorità di Tripoli. A beneficiarne principalmente è l’ENI che mantiene il controllo degli impianti di produzione e trasporto, non dovendo così sottostare alla mediazione del governo.

L’ENI e gli altri investitori italiani avrebbero auspicato una qualche forma di sostegno a Tripoli da parte del governo italiano, il quale invece ha fatto la scelta opposta: a causa delle descritte tensioni è stato richiamato l’ambasciatore a Tripoli e chiu­sa l’ambasciata, passando a sostenere il governo della Cirenaica. La diplomazia italiana, come storicamente esperta, dovrà quindi impegnarsi a fondo nel doppio gioco per difendere gli investimenti in Libia.

Al momento attuale non si intravvede alcuna soluzione alla crisi e si prospetta un lungo stallo. Non sarà facile stabilizzare la divisione del paese nelle tre zone, tanto meno riportarlo sotto un unico governo. Si accorderanno gli imperialismi su di un nuovo piccolo Gheddafi, capace di unificare i libici, ed amico, di fatto, dell’Occidente?

Gli attentati contro i turisti nei musei o sulle spiagge in Tunisia inseriscono anche questo paese nel conflitto, che è anche economico. Per la Tunisia, piccolo paese con scarse risorse, quella del turismo è molto importante. È con uno Stato relativamente laico, modernista e aperto all’occidente. V’è una radicata tradizione di organizzazioni e lotte sindacali. Il governo di Tunisi ha reagito con la dichiarazione dello stato di emergenza e la soppressione di molti diritti civili, per ora solo di 30 giorni; probabilmente, oltre ai “terroristi”, spariranno anche vari oppositori del regime ed organizzatori sindacali.


Lo Stato Islamico

Al Daesh, o Stato Islamico, si oppone una coalizione di ben 32 Stati, che tutti si attendono qualcosa, comunque vada.

Si autoproclama Stato e della sua struttura ha la forza repressiva militare, risorse economiche non indifferenti, “lecite” o meno, e la sovrastruttura ideologica e religiosa che infiamma, dicono, i suoi militi; controlla un vasto territorio con circa 6 milioni di abitanti. Appare una versione potenziata del passato regime dei talebani in Afghanistan.

È provato che è stato creato, organizzato, finanziato e armato da molteplici forze del mondo sunnita. Le azioni militari che ha compiuto dimostrano la discreta qualità delle sue formazioni, che non si improvvisano né sorgono per la sommatoria di gruppi diversi; dimostra una accurata preparazione, sicuramente gestita da quadri militari di professione forniti da qualche Stato dietro le quinte, insieme a parte dell’armamento.

Si dichiara in opposizione al degrado del mondo occidentale capitalista, che a­vreb­be corrotto i valori di un islam “tradizionalista”. Ma del capitalismo denunciano solo l’esteriorità mentre ben ne accettano la sostanza, dalla proprietà privata, alla divisione in classi sociali, alla rendita ecc. ecc.

Con il loro Califfato affermano voler tornare ad una presunta età dell’oro di quando il Profeta, con l’ideologia religiosa e le armi, riuscì, con una certa fatica, a riunire tutte le bellicose tribù arabe in continua lotta per il controllo delle oasi, dei pascoli e dei pozzi. Dai vari gruppi salafiti ortodossi che si ispirano a quelle origini sono nati i gruppi moderni più radicali come i Fratelli Musulmani, che accompagnano alla predicazione la corruzione delle masse popolari con opere sociali e aiuto economico, e come le milizie jihadiste vicine ad Al Qaeda, per lo più indipendenti tra loro.

Tra queste l’attuale gruppo diretto da Al Baghdadi, individuo liberato da un carcere americano in Iraq “per distrazione ed errore di valutazione” come affermano i vertici militari americani, ovvero pedina della CIA, forse poi “sfuggita” al suo controllo.

Nell’area siro-irachena, dopo i bombardamenti aerei della coalizione, varie formazioni armate di iracheni, curdi, sciiti, stanno riconquistando alcune posizioni chia­ve tenute dallo S.I. La situazione è in continua evoluzione, come prova la caduta e riconquista della città di Kobane.


La Russia

La perdurante crisi economica, iniziata fin dal 1973 e non ancora conclusa, di recessione in recessione, con deboli ed insufficienti riprese, ha azzoppato le economie grandi e piccole, prima il colosso russo, poi quello americano. La Russia si è oggi praticamente riportata ai confini del 1792, alla fine del regno di Caterina II, prima della completa spartizione della Polonia avvenuta nel 1795: dell’ex-Urss non ha la potenza economica e militare.

La Russia mentitamente socialista è stata la prima grande vittima della crisi capitalistica dopo la Seconda Guerra mondiale; l’economia a capitalismo di Stato dell’Urss non ha retto alla crisi ed è crollata miseramente. Con questa è crollata anche la sua difesa territoriale di Stato unitario, disposta ad ovest con gli Stati cuscinetto europei fino alla “cortina di ferro”, che ora appartengono a vario titolo ad alleanze di segno opposto, e a sud-ovest da varie alleanze con paesi mediorientali che però non costituivano una permanente e sicura difesa. La fallimentare ed onerosa avventura in Afghanistan, nell’improbabile tentativo di giungere all’oceano Indiano attraverso l’alleato Pakistan, ha segnato l’inizio della fine di quella grande potenza militare imperialista.

La Confederazione degli Stati Indipendenti (CSI), sorta nel 1992 come libera associazione di una dozzina di soggetti dell’ex-Urss e zona di libero scambio, è più simbolica che altro e con poteri sovranazionali, economici e di alleanza militare ancora tutti da mettere alla prova. Alcuni Stati si sono già ritirati, altri non hanno ratificato gli accordi ed infine l’Ucraina nel 2014, dopo l’occupazione russa della Crimea, si è ritirata definitivamente; da come si stanno svolgendo le operazioni militari nel Donetz è difficile prevedere una ricomposizione pacifica dei contrasti.

La grande dipendenza russa dalle oscillazioni del prezzo di petrolio e gas la rendono particolarmente vulnerabile, soprattutto ora che il prezzo è sceso già da alcuni mesi della metà. Il bilancio dello Stato russo, impostato su 100$ al barile, è saltato e gravi sono le difficoltà nel rinnovo dei consistenti prestiti internazionali e sugli investimenti diretti esteri, garantiti dal valore dei depositi accertati di idrocarburi.

Il prezzo del petrolio è sceso per la caduta della domanda, nella crisi economica che frena la macchina produttiva a livello mondiale, che la crescente richiesta cinese non basta a compensare. Ma possiamo ben immaginare che sia mantenuto basso anche dalla speculazione come arma americana contro la Russia, ora che è costretta ad affrontare l’offensiva militare in Ucraina.

Il “dumping”, cioè la vendita sotto il costo reale, è stato sempre usato nel capitalismo per battere la concorrenza: accadde agli inizi delle ferrovie americane e per l’acciaio negli anni ‘70 e ‘80 del secolo scorso. Si provoca il fallimento del produttore concorrente, o il crollo economico di uno Stato, come sta avvenendo per il Venezuela. L’Arabia Saudita, primo produttore Opec, stabile e fedele alleata degli Usa, ha fatto sapere che non intende ridurre l’estrazione del greggio per compensare il crollo del prezzo, apparendo una combinata mossa anti-russa. Le enormi riserve saudite e la potenza militare americana possono gestire anche sui tempi lunghi un dumping di quelle proporzioni. Il prezzo del petrolio è sicuramente un’arma strategica.

La Russia quindi, dopo l’annessione della Crimea, al momento non è nelle condizioni di portare estesi attacchi e si dovrà fermare alla formazione di una entità filo russa autonoma in Ucraina. È invece impegnata a sostenere i suoi alleati mediorientali e di quella parte che resta del vecchio regime siriano.


Gli Stati Uniti

Gli Usa, meglio sarebbe dire il capitale americano, si dichiarano primi nella coalizione contro lo Stato Islamico.

Se gli Usa sono ancora la prima potenza finanziaria, industriale e militare del mondo, da poco sono stati superati dalla Cina nel volume del commercio estero. L’economia americana, dicono, sarebbe appena uscita dalla recessione con un incremento a gennaio dello 0,2% sul mese precedente ma nessuno può dire se sarà vera ripresa o solo un sobbalzo.

Lo sfaldamento dell’ex-Urss e la fine del “condominio russo-americano”, con cui i due paesi si erano divisi le aree di influenza e controllo del pianeta, ha aperto agli Usa un consistente ampliamento del suo sistema economico e militare, che è penetrato soprattutto nell’area asiatico-caucasica, potendo così chiudere di molto l’accerchiamento della Russia da sud-ovest, dopo che già i paesi del cosiddetto “impero esterno”, dall’Estonia alla Bulgaria, sono divenuti a vario titolo membri dell’Unione Europea.

In questo movimento verso levante gli Usa sono giunti a ridosso dei confini della Cina, economia imperialista emergente.

È semplice rispondere alla domanda di che cosa gli Usa vogliono: difendere ed ampliare la sfera di influenza della loro economia ed aumentare il flusso di capitali stranieri nelle loro assetate e voraci casse. Per questo occorre mantenere l’egemonia mondiale a tutti i costi, e per questo hanno impiantato una fitta rete di circa 900 basi militari, ufficiali, nei punti chiave del pianeta.

Le casse dello Stato e delle banche americane sono le più indebitate del pianeta e necessitano sempre di maggiori prestiti e finanziamenti per potersi sostenere. Come ebbe a ribadire il 41° presidente americano George H.W. Bush senior nella conferenza internazionale a Rio sulla “difesa dell’ambiente” nel 1992: “the American way of life is not negotiable”.


L’Europa

L’Europa è unita solo nelle sue affermazioni di principio e nelle sue esteriorità mentre nei fatti è un’unione esclusivamente commerciale e finanziaria.

L’Europa dei quadri statistici non mostra le profonde differenze e le avversità, dove ciascun Stato cerca di superare l’attuale duratura crisi con una propria soluzione. Ogni paese mantiene la propria politica economica, ognuno per sé nella concorrenza dei capitali nazionali fra loro, in un contesto di globalizzazione economica e finanziaria di un maturo imperialismo. La concentrazione finanziaria e industriale è ancora indietro rispetto agli altri imperialismi.

In questa situazione poco si conosce di eventuali piani strategici e militari comuni e nemmeno se c’è un piano unico autonomo e non condizionato, se non imposto, dall’America tramite la Nato. È una contraddizione che prima o poi dovrà emergere se l’Unione Europea vorrà essere un soggetto indipendente e attivo nella sua politica estera, per difendersi dalla ex-Urss, la quale ha più bisogno dell’Europa di quanto l’Europa della Russia.

Se con difficoltà si approntano politiche economiche unitarie, possiamo ben immaginare le difficoltà in campo militare. Al momento parrebbe che ognuno si muova come vuole limitandosi ad informare gli altri a cose fatte.

Parigi ha concordato o semplicemente “informato” gli altri Stati europei di inviare nel mar Rosso una sua squadra navale, con tanto di portaerei e sottomarino nucleare, per bombardare lo S.I. da migliore e sicura posizione? Forse far decollare gli aerei dalle basi in Giordania, più vicine, è diventato pericoloso perché gli avversari potrebbero essersi dotati di sistemi per abbatterli, come è stato per il tornado giordano. Non è una curiosità da poco.

L’Italia è stata lasciata da sola nell’emergenza profughi e nell’operazione Mare Nostrum. Mettere in difficoltà un socio in affari non è “corretto”.

Sicuramente l’Italia vuol tornare in Libia con un ruolo egemonico, ma altrettanto sicuramente la Total e la B.P. vogliono difendere le loro quote petrolifere. Parigi e Londra hanno sempre usato Roma per i loro scopi. Per una operazione italiana in Libia c’è prima molto da discutere e chiarire, Berlino acconsentendo.

L’unità europea sta ora affrontando questo sdoppiamento tra i rapporti comunitari e nazionali sulla crisi libica, mentre deve risolvere quella economica greca: due importanti verifiche nello stesso momento in cui la Germania pare essere più interessata a quella greca che a quella libica, vista la sua forte esposizione finanziaria sulla Grecia.

L’Inghilterra, fuori dall’area dell’euro, sembra stare alla finestra e osservare con attenzione.

Il riaprirsi delle tensioni nella sponda sud del Mediterraneo può deviare l’attenzione dall’area slavo-balcanica, dove al momento i conti sono regolati al suo interno, dopo lo smembramento della ex-Iugoslavia, e sembra che per ora si voglia tenerlo così circoscritto.


La Cina

La sorniona Cina è vicina, anzi molto vicina, in continua ricerca di petrolio e mercati per le sue merci e i suoi capitali; rimasto fedele alla linea pragmatica di Deng Xiaoping, il veloce sviluppo capitalista cinese del dopo Mao fa affari con tutti.

I suoi indici di crescita, anche se da prendersi con estrema cautela, parlano ancora di un’economia in espansione, sebbene a minore velocità.

Con Gheddafi la Cina aveva stipulato accordi in campo petrolifero, in cambio di opere infrastrutturali, che ovviamente sono saltati in aria. Non era un contratto quantitativamente significativo per la sete cinese di petrolio, ma era un inizio, mal visto dai concorrenti europei. È fuori luogo affermare che gli imperialismi abbiano abbattuto il regime libico per chiudere alla Cina il sud del Mediterraneo e il suo petrolio, ma certamente quei suoi piani si sono per il momento arenati. La Cina è ben presente invece nel Sud Sudan dove, dopo la lunga e sanguinosa devastazione di quel povero paese, ricco però di petrolio, fa affari con entrambi gli Stati sorti dalla divisione dell’originario Sudan. Il piccolo Sud Sudan detiene il 75% delle risorse petrolifere, ma per la sua esportazione è costretto ad usare l’oleodotto che passa a nord nella Repubblica del Sudan pagando ingenti pedaggi. La situazione non si è mai stabilizzata definitivamente al punto che le truppe dei due paesi si contendono in sanguinosi combattimenti il controllo dei pozzi.

La Cina ha un forte controllo non solo economico ma anche gestionale della situazione perché ha costruito tutte le infrastrutture esistenti nel paese, ora diviso in due, tra cui l’oleodotto di 1.500 Km che unisce la vasta area petrolifera con Port Sudan sul Mar Rosso. Detiene anche la quota di maggioranza nel consorzio internazionale per l’estrazione di 4 degli 11 più importanti giacimenti sudanesi come pure il controllo del consorzio per la raffinazione. Dallo scorso autunno ha ottenuto dall’Onu l’autorizzazione di inviare suoi 750 caschi blu nell’area come forza di interposizione e controllo della regione.

Ha quindi un’ottima fonte di petrolio a disposizione e non sembra voler essere coinvolta nella faccenda del terrorismo islamico, salvo la fornitura di materiale bellico a chi è in grado di pagare

Ma il suo attuale primo interesse imperiale è nel Mare Cinese Orientale. Qui è in atto un’annosa disputa tra Cina, Giappone e Taiwan per il controllo del piccolo gruppo delle isole Senkaku, vicine e a nord di Taiwan, per finalità estrattive e strategiche. In quella strategica via d’acqua che collega dal Mar Cinese Orientale e Meridionale i porti di primaria importanza Hong Kong, Shanghai, Tientsin, Dalian, Shenzhen, da quelli della Corea del Sud allo stretto di Malacca, transitano 15 milioni di container all’anno e il 50% di tutto il petrolio mondiale: averne il controllo è di fondamentale importanza per i paesi della regione.

Qui potrebbe innescarsi un prossimo conflitto su vasta scala. Ormai la Cina sarebbe in grado di sostenere crisi in teatri lontani, ma al momento non intende impiegarvi energie. Da tener conto che da pochi anni è sotto il tiro da gigantesche basi americane poste su opposti fronti: dalle ex repubbliche sovietiche del Kirghizistan e dell’Uzbechistan, in Afghanistan e in Pakistan e dalle numerose basi nella Corea del Sud e in Giappone.


L’Egitto

L’Egitto del generale Al Sissi che cosa rappresenta, da chi è stato sostenuto?

Abbiamo scritto molto sulle cosiddette “primavere arabe” e in particolare sull’Egitto, il paese più capitalisticamente avanzato del nord Africa, con un forte proletariato che si è espresso anche recentemente in dure lotte nelle aree industriali. Abbiamo anche descritto la funzione economica della classe militare e dei suoi vertici che gestiscono la maggior parte delle imprese.

L’Egitto è anche in una posizione strategica cruciale sia come cerniera tra il Nord Africa e il Vicino e Medio Oriente, sia per i grandi traffici sul Canale di Suez. È passato dalla influenza dell’ex-Urss a quella degli Usa e, definitivamente tramontato il sogno di una grande nazione panaraba, si trova nella difficile situazione di laboratorio dove provare a conciliare i contrasti tra il morigerato rigore musulmano e lo sfrenato consumismo capitalista.

La rivolta egiziana del 2011, da altri definita rivoluzione mentre noi diciamo che la borghesia al potere, espressa anche nei vertici militari, è rimasta al suo posto cambiando solo facciata, depose il presidente Mubarak, anch’egli proveniente dall’esercito. Le elezioni del 2012 proclamarono nuovo presidente Morsi, un dirigente dei Fratelli Musulmani, la setta religiosa più diffusa e duramente repressa con centinaia di impiccagioni dal regime egiziano di Mubarak anche nel suo ultimo periodo di esistenza. Le attese erano molte sia fra i proletari che chiedevano migliori condizioni di lavoro e di vita, sia nella borghesia che voleva riprendere i suoi affari, sia fra quanti, principalmente sunniti, pensavano di instaurare uno Stato improntato ai dettami religiosi musulmani.

Ma la situazione in Egitto precipita velocemente sul piano economico con la chiusura di molte fabbriche e l’occupazione di altre, ma anche scontri contro il governo per le ripercussioni del suo integralismo sul piano economico e sociale. Il generale Al Sissi attua un colpo di stato militare. Iniziano gli arresti in massa dei Fratelli Musulmani con feroci repressioni di alcune migliaia di “oppositori”; 600 morti con 2.000 feriti solo negli scontri di piazza Rabi’a al Adawiyya nell’agosto 2013. La repressione è continuata sia contro i lavoratori sia contro i sostenitori del deposto Morsi e tutti gli altri oppositori politici, con il beneplacito di tutte le potenze straniere che si contendono il controllo dell’Egitto. Al Sissi ha così dimostrato alle centrali imperialiste di essere capace di contrastare con determinazione la lotta di classe.

Ha infine attuato azioni militari egiziane contro le postazioni dello S.I. in Libia, evitando forse un congiungimento di quelle formazioni con i gruppi armati dei Fratelli Musulmani che operano nella zona di Tripoli, il cui governo non ha alcun riconoscimento internazionale.

Con questa manovra l’Egitto si propone come ago della bilancia, uno Stato a capo degli arabi “moderati” e una potenza regionale in grado di gestire crisi di un certo livello. Questo anche per continuare a ricevere aiuti e assistenza alla sua economia, in grave crisi economica per la caduta produttiva industriale, per la nuova dipendenza nel settore energetico, perché da esportatore è diventato importatore, e per la consistente caduta degli introiti dal turismo.


La Turchia

Sulla Turchia abbiamo ampiamente scritto sul n.360 di questo giornale. La Turchia è anche lei uno Stato-ponte, cerniera tra il mondo occidentale e quello mediorientale, e cerca di assumere il ruolo di prima potenza nell’area. Forte di questa posizione strategica sta giocando su più tavoli. Ha corteggiato con insistenza per anni l’Unione Europea, con il suo volto modernista di stile europeo, per poter avere la sua produzione industriale accesso a quel mercato. La politica del presidente Erdogan sembra andare nella direzione opposta, sospendendo le trattative per l’ingresso nella U.E. Erdogan cerca così di controllare i forti contrasti tra classi e gruppi sociali ed economici opposti. Alla lunga queste contraddizioni, in un paese che si affaccia al moderno capitalismo, sono destinate ad esplodere.

In questo contesto la scelta di Erdogan se fare della Turchia l’ultimo mal visto pa­e­se della UE o il primo del Vicino Oriente, è a favore della seconda. Per l’egemonia regionale si allea con chi può essergli utile ma soprattutto contro ciò che rimane del regime siriano di Assad: ultimamente è il sostenitore più palese dello S.I. e attraverso le sue frontiere transitano uomini e rifornimenti di ogni genere in cambio del petrolio proveniente dai pozzi controllati dallo S.I.

Le trattative con i curdi, sempre sullo scambio di petrolio, sono più complesse: si contrasta la richiesta dei curdi di un loro Stato entro i confini della Turchia.

La Turchia, appena ristabilita la situazione dopo la caduta del regime di Gheddafi, aveva ottenuto la gestione dell’aeroporto di Tripoli, ora sotto il controllo di Alba Libica, ed è l’unico Stato ad aver riconosciuto il governo locale di Tripoli ed aver nominato un suo rappresentante per gli affari con Tripoli. Certamente da quella posizione diplomatica Ankara intende ottenere agevolazioni per le sue importazioni di petrolio.


Lo Yemen

Anche in Yemen si sta perpetuando una sporca guerra del capitale che la grancassa mediatica della disinformazione borghese preferisce non pubblicizzare. A combatterla sono le armate dell’Arabia Saudita appoggiate da una coalizione di paesi del Golfo Persico: Emirati, Bahrein, Kuwait, Qatar, Giordania ed Egitto; il pretesto sarebbe la minaccia dei jihadisti di Al Qaeda nella penisola araba (Aqpa) e gli houthi, i “ribelli” zaiditi (una corrente dell’islam sciita) originari del nord dello Yemen.

Le armate della coalizione che bombardano quotidianamente le città e i villaggi yemeniti colpendo indiscriminatamente e a farne le spese sono per la maggiore i diseredati: secondo le Nazioni Unite al 26 marzo scorso 1.849 sono i morti fra gli yemeniti, 7.394 i feriti, oltre mezzo milione costretti ad abbandonare le loro case.

A partire dal 2013, gli houthi si sono scontrati a varie riprese con altre milizie, con potenti gruppi tribali e con i combattenti di Al Qaeda. Nella loro avanzata hanno stretto un’alleanza di circostanza con il loro vecchio nemico, l’ex presidente Ali Abdullah Saleh. Fra i motivi di questo conflitto vi sono le proteste popolari ispirate alle primavere arabe, suscitate dall’estrema povertà e dalla scarsità di risorse idriche. Nel settembre del 2014 gli houthi avanzano sulla capitale Sanaa e a marzo 2015 attaccano Aden. L’Arabia Saudita, che già in passato ha combattuto gli houthi, guida un’operazione dei paesi arabi militare per fermarne l’avanzata.

L’Iran fornirebbe armi agli houthi. Teheran ha proposto all’Onu un piano di pace per lo Yemen, che prevede: un cessate il fuoco immediato, un programma di assistenza umanitaria, la ripresa del dialogo tra le fazioni in lotta e la formazione di un governo di unità nazionale.

Nel paese agisce anche il gruppo di Aqpa considerato il pericoloso ramo di Al Qaeda, che combatte sia contro gli houthi sia contro il governo. Aqpa si è formato nel gennaio del 2009 dalla fusione dei rami yemenita e saudita di Al Qaeda. A metà aprile, approfittando del caos nel paese, Aqpa ha rafforzato il suo controllo sulla città di Mukalla, nel sudest del paese.

Infine abbiamo la presenza dello S.I. giunto nello Yemen il mese scorso. Finora si sono distinti per alcuni attentati suicidi contro due moschee sciite a Sanaa, che hanno provocato 137 morti.


Quelli dietro le quinte

Il ricchissimo Qatar è uno dei principali fornitori di armi allo S.I. e senza dubbio dietro di lui altri emirati lo sostengono.

L’Iran sciita, dopo i primi segni di un riavvicinamento agli Usa in ambito del nucleare, per ora solo negli accordi presidenziali perché né il Congresso americano né il parlamento iraniano al momento li hanno ratificati, sostiene i gruppi sciiti nell’area siriana e non sembra voler scoprire le sue strategie nell’area.

Israele ha taciuto evitando di farsi coinvolgere, tenendo conto dei suoi problemi con l’Iran e quelli derivati dal controllo di quel grande campo di concentramento che è la Striscia di Gaza.

Il 2 luglio in un ben combinato piano, formazioni armate riferentisi allo S.I. hanno attaccato alcuni posti di frontiera sul Sinai settentrionale a breve distanza dalla Striscia di Gaza, con aspri combattimenti, ovviamente diversamente quantificati in ordine di perdite umane dai due fronti. Come risposta il premier israeliano Netanyahu ha ammonito che “il nemico è alle porte”. La preoccupazione sia di Israele sia dell’Egitto è che lo S.I. riesca ad entrare nella Striscia col pretesto di “liberare” i palestinesi.

Non ci stupiremo se di fronte a una simile eventualità sorgesse un’anomala manovra combinata tra Egitto ed Israele contro quei disperati, perché il capitalismo in qualunque forma di governo si presenta è sempre pronto a temporanee alleanze per combattere il proletariato, il loro comune nemico, anche se non ancora in fase di attacco.

Certo i centri dell’imperialismo si attendono e caldeggiano una ennesima frattura nel mondo arabo, del quale una parte finanzia i fondamentalisti ed una, maggioritaria, gli si oppone.

Le formazioni di Boko Haran dalle loro basi nel nord della Nigeria hanno annunciato di voler andare in aiuto delle formazioni fondamentaliste in Libia.

Mentre perdura in un apparente stallo da oltre due anni la guerra in Siria-Iraq-Kurdistan, mentre in Ucraina la situazione è a un livello di guerra guerreggiata ancora a fatica definibile regionale di basso livello, mentre il resto dell’area danubiano balcanica ha secolari contrasti e l’attuale stabilità non è a prova di fuoco, la crisi attuale in Libia sposta in avanti non solo in senso quantitativo ma qualitativo la stabilità e il controllo del traffici nel Mediterraneo.

In Usa il presidente Obama è stretto tra la pressione delle lobby degli armamenti e il difficile invio di nuove truppe in Medio Oriente, dopo che ha faticato non poco a mantenere la promessa nella prima campagna elettorale di far rientrare dall’area tutte le truppe americane. Troppa carne al fuoco per interventi separati e localizzati anche per una grande potenza.

Come si divideranno stavolta gli imperialismi le aree di intervento sui molteplici fronti aperti, Ucraina compresa? Per prevedere le mosse del capitale nel suo complesso planetario occorre non farsi influenzare dai singoli fatti contingenti o dalla cronaca degli inviati di guerra.

Partito Comunista Internazionale

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