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Piazza della Loggia

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(29 Maggio 2012) Enzo Apicella
Piazza della Loggia: nessun colpevole. Lo Stato assolve sè stesso

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"12 dicembre 1969, ostinatamente la nostra memoria...".

(13 Dicembre 2015)

Ostinatamente attaccati all’idea di mantenere vivo il ricordo dei passaggi fondamentali nella recente storia d’Italia non è possibile dimenticare la strage di Piazza della Fontana avvenuta a Milano il 12 dicembre 1969.
Ci si trovava nel pieno di quello che fu definito “Autunno caldo”.

Gli studenti avevano preso a contestare le vecchie strutture educative con agitazioni culminate in occupazioni a catena delle Università fin dagli ultimi mesi del 1967.

Gli operai si erano rivoltati come mai prima contro un tipo di sviluppo economico che, mentre vedeva l’intensificarsi continuo dei ritmi della produttività, stava creando sperequazioni mai risolte, con un indiscriminato saccheggio delle risorse umane e materiali del paese, con un’incessante degradazione dell’ambiente civile, in un clima di crescente parassitismo e corruzione.

Il movimento contestativo del 1968, iniziato in tutto il mondo dagli studenti si saldò, in Italia, senza soluzioni di continuità a quello dei lavoratori in lotta per il rinnovo dei contratti di lavoro nel 1969, dando origine al “caso italiano”, originale e irripetibile anche nel contesto internazionale pure messo in grande movimento dalla contestazione della guerra nel Vietnam in USA, dalla repressione sovietica della “Prima vera di Praga”, dal corso della “Rivoluzione culturale” in Cina e dal Maggio francese.

In Italia gli scioperi e le manifestazioni di massa si moltiplicarono e assunsero un’estrema durezza.

Mentre da un lato gli operai davano vita a forme di lotta dal basso (comitati di base e consigli di fabbrica) dall’altro, prendeva corpo un processo di riunificazione sindacale, che in prospettiva doveva ricomporre le scissioni le quali avevano dato vita a CISL e UIL, staccatesi tra la fine degli anni’40 e l’inizio di quelli ’50 dalla CGIL.

Forza trainante della riunificazione erano i metalmeccanici, categoria in grande espansione fin dal tempo del “miracolo economico” assieme a quelle dei chimici e degli edili. Fu costituita l’FLM.

Importante fu in quel 1969 la tendenza affermatasi sia nella CISL, sia nelle ACLI di orientamento cattolico, a porre fine all’appoggio alla DC (“fine del collateralismo”).

Nonostante venissero attaccati, ma senza effetti decisivi, dai gruppi dell’appena formata sinistra extraparlamentare, i sindacati assunsero nel corso delle grandi lotte del 1969 un ruolo nuovo.

I sindacati, recependo la spinta della base dei lavoratori, risultarono in grado di farsi carico non soltanto delle tradizionali rivendicazioni normative e salariali, bensì di tutti i problemi connessi alla condizione umana, civile e di lavoro: si teorizzò un “Sindacato soggetto politico”.

In questo fatto s rifletteva la crisi dei partiti politici e la delusione verso i governi di centrosinistra.

Se in certi momenti lo “spontaneismo” operaio parve scavalcare gli stessi sindacati, in ultima analisi questi ressero bene e allargarono la loro influenza sul proletariato.

Importante fu poi la tendenza sindacale, in parallelo a quella verso la riunificazione, all’autonomia dai partiti (in effetti, soltanto questo fatto poteva assicurare le basi per la riunificazione).

Fu sancita l’incompatibilità fra cariche sindacali e cariche politico – istituzionali.

Condotta con grande asprezza, la lotta fra operai e imprenditori nel 1968 – 69 portò a notevoli conquiste sia sul piano salariale che delle condizioni generali di lavoro.

Nel 1970 i salari italiani erano uniformati alle medie europee; in maggio fu approvato lo Statuto dei lavoratori, attraverso il quale si rinnovò in senso democratico il regime di fabbrica garantendo dai licenziamenti arbitrari, tutelando la presenza sindacale e le libertà politiche nei luoghi di lavoro.

Il movimento contestativo giovanile e soprattutto la lotta operaia ebbero importanti conseguenze politiche.

Gli imprenditori avvertirono che il loro vecchio potere nelle fabbriche veniva messo in crisi e si allarmarono per la forza del movimento operaio.

Al lato opposto il PCI si trovò investito non soltanto dalle critiche dei gruppi parlamentari (il 25 novembre 1969 fu radiato il gruppo del “Manifesto”) ma anche e soprattutto dalla realtà della lotta di massa, che dotandosi di strumenti diretti sfuggiva in parte al controllo tradizionale degli organismi di partito e sindacali.

Il PCI reagì con notevole prontezza: da un lato finì per incanalare le spinte spontanee e riuscendo parzialmente anche a dirigerle combattendo però ogni aspetto di lotta extraistituzionale, dall’altro si sforzò di dare alle rivendicazioni dei lavoratori un carattere di “conquista democratica”, respingendo ogni spinta emersa, nei momenti più acuti di conflitto, verso il sabotaggio della produzione in termini di danni alle macchine, di assenteismo e di “rifiuto del lavoro”.

Chi subì un duro contraccolpo prima dall’esito sfavorevole delle elezioni del 1968 e poi dalla crisi sociale del 1968 – 69 fu il partito Socialista Unificato sorto nel 1966 dalla fusione tra il Partito Socialista e quello Socialdemocratico.

Socialisti e Socialdemocratici erano più che mai divisi.

Gli uni intendevano accentuare il programma riformistico; gli altri che sentivano nel clima di tensione sociale il richiamo a destra, si opponevano.

Entrambi gli schieramenti miravano al controllo del partito, al punto che, nel luglio 1969, si verificò la scissione e ciascuno dei due tronconi prese ad agire come in precedenza alla riunificazione.

Si è visto come la lotta sociale si fosse nel 1969 inasprita raggiungendo livelli di estrema acutezza.

Il governo Rumor era completamente impreparato ad affrontare una simile situazione.
Le agitazioni furono affrontate in alcuni casi con una repressione violenta, come a Battipaglia, dove nell’aprile 1969, in scontri tra la polizia e i dimostranti che protestavano contro la disoccupazione, vi furono due morti e oltre duecento feriti.

In questo clima i neofascisti del MSI e in genere le destre (compresa quella presente nella DC) chiedevano un “governo forte”, attaccavano tutto il corso politico degli ultimi anni, agitavano il “pericolo rosso”.

Fece così la sua comparsa il terrorismo neofascista, con complicità in tutti gli ambienti moderati.

Squadre paramilitari col pretesto di opporsi ai gruppi della sinistra extraparlamentare ma con l’obiettivo preciso di bloccare il movimento di lotta degli operai, presero ad agire sistematicamente.

Il 1969 fu costellato da attentati dinamitardi volti a suscitare turbamento, sfiducia nel regime politico, desiderio di un “governo forte” di destra.

Nell’autunno la situazione divenne sempre più tesa.

Il 12 dicembre 1969 i neofascisti, intenzionati a determinare nel Paese una situazione di panico tale da portare alla formazione di un governo autoritario puntarono alla strage, appoggiati dai servizi segreti dei colonnelli greci con la complicità degli stessi servizi segreti italiani, con il sostegno di uomini politici conservatori ansiosi di mettere fine al “disordine sociale”.

Una bomba ad alto potenziale collocata all’interno della Banca dell’Agricoltura di Milano, in Piazza Fontana, provocò la morte di sedici persone e il ferimento di altre novanta.

Anche a Roma, nello stesso giorno, vi furono attentati e feriti.

Il disegno era chiaro: mettere in atto una “strategia della tensione” basata sugli effetti dell’azione terroristica e finalizzata a un colpo di stato dominato dalla Destra.

La strage di Piazza della Fontana di cui furono subito proclamati responsabili gli anarchici ma di cui risultò poi inequivocabilmente la responsabilità neofascista simboleggiava così tutti i contrasti di una società italiana presa nella morsa di drammatiche contraddizioni: l’incapacità delle forze riformiste e la nostalgia dei conservatori per soluzioni autoritarie.

La strage del dicembre 1969 aprì un drammatico periodo della storia italiana, segnato dal permanere del terrorismo di destra, dalle contraddizioni della sinistra, dalle resistenze delle forze economiche e politiche dominanti a rinnovare la linea della propria strategia conservatrice.

Le stragi continuarono dopo Piazza Fontana, in parallelo con l’esplosione del terrorismo “da sinistra” che in questo caso non si analizza per evidenti ragioni di economia del discorso.

Vi furono le stragi di Piazza della Loggia, il 28 maggio 1974, con otto morti e cento feriti; quella sul treno Italicus, il 4 agosto 1974, con dodici morti e quarantotto feriti; quella della stazione di Bologna il 2 agosto 1980, con ottantacinque morti e duecento feriti e, infine, quella sul treno rapido Roma – Milano, a San Benedetto Val di Sambro presso Bologna, il 23 dicembre 1984, con 15r morti e 130 feriti.

Il fatto che di nessuna di esse siano mai scoperti i mandanti ha sempre fatto pensare che gli stragisti abbiano avuto fortissime coperture all’interno degli organi statali e in particolare dei servizi segreti.

E’ difficile dire se lo stragismo abbia avuto matrice solo nell’estrema destra: è probabile si sia trattato di un fenomeno complesso, per l’intervento di forze diverse che avevano obiettivi diversi, dai servizi segreti stranieri alla criminalità organizzata.

Franco Astengo

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