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Morti bianche

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(1 Settembre 2011) Enzo Apicella

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(L'unico straniero è il capitalismo)

Le migrazioni di una classe di senza patria

(4 Gennaio 2016)

«Non volevamo partire, c’era brutto tempo. Ma ci hanno costretti con le armi. Siamo partiti in 460 a bordo di quattro gommoni, ma durante la traversata uno è affondato: sono morti tutti. Tra loro c’erano tre bambini». Questo è il racconto di un superstite il giorno 11 febbraio scorso, solo uno di una serie infinita di tragedie, che si sono intensificate negli ultimi anni a causa degli “effetti collaterali” delle guerre in Libia, in Siria e in molti altri paesi.

La dimensione di un esodo incontenibile

Secondo l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, dall’inizio del 2015 a fine maggio sono quasi 90.000 gli uomini che hanno attraversato il Mediterraneo: di questi circa 46.500 sono sbarcati in Italia e 42.000 in Grecia. Durante lo stesso periodo dello scorso anno avevano attraversato il Mediterraneo per raggiungere l’Europa meridionale in 49.000. In tutto il 2014 gli sbarchi in Italia, secondo i dati del Ministero dell’Interno, furono circa 170.000. In Grecia invece 50.000. È evidente che vi è stato uno spostamento ad est degli arrivi. L’UNHCR ha annunciato quindi un rafforzamento della propria presenza nelle isole greche nell’Egeo orientale, dove nelle ultime settimane una media di 600 uomini, per lo più rifugiati, sta arrivando ogni giorno via mare dalla Turchia.
Arrivi via mare in Grecia, Malta, Spagna (escluse le Canarie) e Italia

2010 2011 2012 2013 2014 Totale
Grecia 1.765 1.030 3.610 11.447 37.590 55.442
Italia 4.406 62.692 13.267 42.925 154.075 277.365
Malta 47 1.579 1.890 2.008 568 6.092
Spagna 3.436 5.103 3.631 3.039 3.000 18.209
Abbiamo raccolto qui due tabelle che danno la dimensione del fenomeno, con i dati forniti dal Ministero dell’Interno. Come si può notare negli ultimi 3 anni vi è una impennata del numero di arrivi via mare, sino ad arrivare a ben 154.075 in Italia nel 2014 contro i 62.692 del 2011, anno delle “Primavere Arabe”. I numeri eccezionali del 2014 riflettono la situazione di guerra in Nord Africa e Medio Oriente: i fronti siriano e libico e l’avanzata del fantomatico Stato Islamico stanno provocando un esodo senza precedenti verso l’Europa. La seconda tabella conferma come i primi quindici paesi da cui provengono gli immigrati con richiesta di asilo politico sono prevalentemente paesi in guerra.
Italia. 15 maggiori nazionalità dei migranti per anno
2010
2011 2012 2013 2014
Afghanis. 1.699 Tunisia 28.047 Tunisia 2.268 Siria 11.307 Siria 36.351
Tunisia 650 Nigeria 5.480 Somalia 2.179 Eritrea 9.834 Eritrea 33.872
Egitto 551 Corno d’Af. 4.157 Afghanis. 1.739 Somalia 3.267 Afr.Subsa. 20.549
Algeria 297 Africa cent. 3.987 Eritrea 1.612 Egitto 2.728 Mali 8.899
Iraq 207 Ghana 2.655 Pakistan 1.247 Nigeria 2.680 Nigeria 8.031
Iran 206 Mali 2.393 Egitto 1.223 Gambia 2.619 Gambia 6.787
Siria 191 Afghanist. 2.175 Banglad. 622 Pakistan 1.753 Palestina 5.044
Turchia 160 Egitto 1.989 Siria 582 Mali 1.674 Somalia 4.965
Cisgiord. 128 Pakistan 1.423 Nigeria 358 Senegal 1.314 Banglad. 4.362
Somalia 61 Banglad. 1.279 Gambia 348 Cisgiord. 1.075 Egitto 3.860
Pakistan 55 Costa d’Av. 1.232 Mali 224 Afghanis. 964 Senegal 3.594
Altri 201 Altri 7.875 Altri 865 Altri 3.710 Altri 17.761
Il motto delle classi dominanti “divide et impera” non viene meno e in questo scenario trova la sua massima espressione. Non basta la divisione tra proletari autoctoni e immigrati, ma questi vengono ulteriormente divisi in regolari, irregolari o clandestini, facenti parte dell’Unione europea o extra europea, tutti messi in competizione per la felicità del capitale. Nella attuale situazione, e senza organizzazioni sindacali classiste in grado di reagire a queste divisioni, il padronato riesce ad ottenere l’abbassamento medio dei salari, l’innalzamento delle ore di lavoro, la revoca di ogni diritto. Anche gli immigrati regolari, prevalentemente comunitari ma anche dal di fuori, servono a coprire settori del mercato del lavoro altrimenti scoperti e a costi bassissimi.


La politica europea: le operazioni Mare Nostrum e Triton

Il 14 ottobre 2013, dopo la morte di 366 immigrati vicino all’Isola dei Conigli, il governo di Enrico Letta annunciò ufficialmente l’inizio di un’operazione “militare e umanitaria”. L’operazione denominata Mare Nostrum, consisteva, in sostanza, in un potenziamento dei controlli già attivi, utilizzando personale e mezzi navali e aerei della Marina Militare e, in misura minore, dell’Aeronautica Militare, dei Carabinieri, della Guardia di Finanza e delle Capitanerie di Porto. Sulle navi era presente la polizia per l’identificazione dei migranti e personale medico per i controlli e gli interventi sanitari. A detta loro questa operazione aveva due obiettivi: «garantire la salvaguardia della vita in mare» e «assicurare alla giustizia coloro che lucrano sul traffico illegale di migranti».

Lo stanziamento destinato dall’Italia, dal 18 ottobre 2013 al 31 ottobre 2014, è stato di 9,3 milioni di euro al mese e vedeva impegnati 4 elicotteri, 3 velivoli, 7 pattugliatori, 2 corvette, 2 aeromobili a pilotaggio remoto e una nave anfibia.

Alla fine di agosto del 2014, Frontex, l’Agenzia per la gestione della “cooperazione internazionale” alle frontiere esterne degli Stati membri dell’Unione europea, aveva promesso di sostenere l’operazione italiana Mare Nostrum con un’operazione, definita all’inizio Frontex Plus, che avrebbe dovuto garantire anche la lotta alle “mafie” sulle coste africane e agli scafisti. Mare Nostrum e Frontex Plus hanno poi dato vita all’operazione europea Triton, che è partita il 1° novembre 2014, ed ha sostituito le altre missioni attive nel Mediterraneo, sia di Frontex sia quella nazionale di Mare Nostrum. Triton è stata finanziata dall’Unione europea con 2,9 milioni di euro al mese: circa due terzi in meno di quanti erano destinati a Mare Nostrum. Inoltre prevedeva il controllo delle acque internazionali solamente fino a 30 miglia dalle coste italiane: il suo scopo principale era il controllo della frontiera, non il soccorso. Prevedeva l’impiego solo di 1 elicottero, 2 velivoli, 2 pattugliatori d’altura.

In seguito all’ennesima tragedia del mare, è riecheggiato l’ipocrita piagnisteo dei borghesi “di sinistra”, Arci, Acli, Cgil, Libera, Legambiente, Gruppo Abele e Uil, che altro non hanno saputo fare che richiedere il ripristino di Mare Nostrum. “Il Manifesto”, che continua ad autodefinirsi “quotidiano comunista” (cosa che non è mai stato), il 12 febbraio in prima pagina titolava “Torni Mare Nostrum”.

Nel gioco delle parti interno allo schieramento borghese sul problema immigrazione trovano terreno fertile i nazional-populisti con la Lega in testa, i quali, per accaparrarsi consensi e voti, professano la difesa della Patria dall’invasione che minaccerebbe il lavoro, la sicurezza, la casa, etc., utilizzando argomenti che fanno presa sulla piccola e media borghesia e purtroppo anche su quella parte del proletariato che ha perso, o non vede ancora, la solidarietà di classe. La presunta “pericolosità” assicura la divisione tra migranti e autoctoni atta a scongiurare una alleanza proletaria contro lo Stato che difende gli interessi borghesi.

Come prevedibile ed inevitabile, il 19 aprile, a soli due mesi di distanza, la tragedia si ripete e in dimensioni ben peggiori, la più grave sciagura in mare dal secondo dopoguerra. I media borghesi si affannano a chi dà per prima la “diretta” della strage, 700 morti, dovuti al numero sconsiderato di immigrati a bordo del barcone naufragato.

La borghesia affianca alla vacua pietà cristiana, capeggiata dal Papa e dal neoeletto presidente della repubblica Mattarella, le sue rivendicazioni politiche in sede europea. Il premier Renzi il giorno stesso si affretta a chiedere la convocazione di un vertice straordinario dell’UE sul tema dell’immigrazione: «Chiediamo di non essere lasciati soli. Ma la nostra questione è di dignità dell’uomo oltre che di sicurezza delle nazioni, ed è quella di bloccare gli schiavisti in mare». Si appella poi all’unità nazionale, che non fa mai male.

La politica europea: la ripartizione delle quote

Anche altri capi europei chiedono una riunione di emergenza lanciando vani propositi su come contrastare “i trafficanti di esseri umani”.

È stato così varato un Piano della Commissione Europea che prevedeva la redistribuzione obbligatoria di 40 mila richiedenti asilo, arrivati dopo il 15 aprile e di quelli che sarebbero arrivati. Di questi l’Italia potrà “esportarne” 24 mila, mentre gli altri 16 mila saranno quelli transitati dalla Grecia. Le quote dei profughi da ripartire tra i paesi membri sarebbero da decidere in base a criteri che tengano conto della popolazione, del Pil, della disoccupazione e delle richieste di asilo già accordate.

Danimarca, Irlanda e Regno Unito si dicono subito contrari, forse per tirare sul prezzo dei 6 mila euro che gli Stati riceverebbero per accogliere ogni migrante.

Il piano prevede che possano rientrare in queste quote unicamente profughi di nazionalità siriana ed eritrea, quelle che hanno finora ottenuto il più alto tasso di accoglimento delle richieste di asilo, superiore al 75%. Dunque tutti i migranti di nazionalità differente dovranno rimanere in Italia e in Grecia così come quelli arrivati precedentemente al 15 aprile.

Ma queste due nazionalità rappresentano solo il 31% dei 41 mila sbarcati sulle coste italiane da gennaio ad aprile 2015. Questo meccanismo di emergenza rimarrà in vigore per i prossimi 2 anni: ciò significa che i 24 mila profughi e i 16 mila che, rispettivamente, Roma e Atene potranno trasferire in altri Paesi della UE saranno ridistribuiti nel corso di un paio di anni. Alla faccia dell’emergenza.

In ogni caso questo ben pianificato trasferimento di mandrie umane potrà avvenire soltanto quando entreranno in funzione i centri di smistamento “hotspot”: nuove strutture, dove gli stranieri dovranno essere portati subito dopo l’arrivo e rimanere fino al termine della procedura per l’identificazione, rilevamento delle impronte digitali, ecc. Queste operazioni verranno coadiuvate da squadre internazionali composte da funzionari di Frontex, Europol ed Easo. L’ipotesi è arrivare al massimo a 500 ospiti per centro di smistamento.

Sono previsti anche cambiamenti sulla missione di Frontex-Triton: pensata per agire sotto le coste europee, arriverà a coprire 138 miglia nautiche a sud della Sicilia, praticamente fino in prossimità delle coste libiche. Saranno così impiegati 3 aerei, 6 navi d’altura, 12 pattugliatori e 2 elicotteri. L’importo che la UE darà a Frontex e, in parte, a Poseidon, sull’Egeo, per i prossimi sei mesi, sarà di 26,25 milioni di euro, per un totale annuo di 38 per Frontex e 18 per Poseidon, mentre per il 2016 sono già previsti solo 45 milioni per entrambe le operazioni.

Il 25-26 giugno i 28 Stati membri della Unione Europea si riuniscono ma, come previsto, le conclusioni sono nebulose e vi è un ulteriore rimando a luglio.

Rai News 24 così commenta l’ambiguo accordo: «L’accordo c’è ma con molti chiaroscuri, fatto di compromessi letterari e problemi di consenso (...) Sembrerebbe che non vi siano sostanziali novità rispetto all’intesa precedente sul “collocamento” di 40 mila migranti all’interno della UE. Il testo non specifica la ripartizione tra i singoli Paesi ma rimanda a una successiva decisione da prendere a luglio, e introduce una esenzione totale per l’Ungheria (...) e una parziale per la Bulgaria».

Continua così il cinico mercanteggio borghese sulla pelle dei proletari.

La speculazione sull’accoglienza

Altro aspetto dell’immigrazione odierna è quello del giro di affari che ci ruota intorno. Secondo un articolo di “Avvenire” del 26 gennaio 2011: «Il giro d’affari mondiale della tratta di esseri umani è di circa 32 miliardi di dollari». Questo dato posizionerebbe il traffico di esseri umani dietro solo a quello delle armi e della droga. In Italia al giro contribuisce una serie di numerose sigle di strutture apposite delle quali qui riassumiamo il ruolo.

I Centri di Identificazione ed Espulsione (CIE), sono strutture detentive create nel 1998 dalla legge Turco-Napolitano, denominate originariamente Centri di Permanenza Temporanea (CPT), il cui scopo è di confinare gli stranieri destinati all’espulsione, in attesa dell’esecuzione del provvedimento. Si contano 11 CIE in Italia con 1.791 posti letto. Con 54.767 ingressi dal 2008 risulta una detenzione della durata media di 2-3 mesi.

All’interno dei CIE lo straniero subisce la privazione della libertà personale, pur senza aver violato alcuna legge penale. Secondo l’attuale legislazione l’immigrato irregolare in attesa di espulsione può essere trattenuto fino a 18 mesi. Anche se adesso, rispetto ad un recente passato, è formalmente prevista la possibilità di adottare misure di controllo alternative (come l’obbligo di consegna dei documenti, di firma o di dimora) i requisiti di “affidabilità sociale” che lo straniero deve possedere per poter accedere ad una delle misure non-detentive sono tali e tanti (possesso di documenti, di adeguate fonti di reddito, di una dimora fissa, ecc.) che la detenzione finisce per essere ancora la misura più ricorrente. I CIE, ex-CPT, hanno chiaramente assunto i tratti di centri chiusi sin dalla loro istituzione, tanto che la medesima legge Turco-Napolitano ed il suo regolamento attuativo, pur affermando che «la detenzione deve avvenire nel rispetto della dignità dello straniero» e che gli deve essere assicurata «la garanzia dei contatti, anche telefonici, con l’esterno», stabilivano l’assoluto divieto di allontanarsi da tali centri ed affidavano alla polizia la sorveglianza e sicurezza interna.

La situazione di gravissimo disagio vissuto dagli immigrati all’interno di queste, che sono a tutti gli effetti delle galere, ha dato origine a numerose rivolte, il cui unico esito è stato la chiusura di alcuni CIE (anche in risposta alle denunce di diverse associazioni) con il risultato di una diminuzione dei posti disponibili e quindi l’aggravio delle condizioni dei detenuti.

I Centri di Accoglienza per Richiedenti Asilo (CARA), istituiti nel 2002 con la denominazione di Centri di Identificazione (CDI), sono chiamati ad ospitare i richiedenti asilo presenti sul territorio nazionale in attesa dell’esito della concessione.

La storia dei CARA è legata a quella dei CDA, situati nei pressi delle frontiere meridionali d’Italia. Alle sue origini il sistema di detenzione per richiedenti asilo era stato concepito come una propaggine del sistema di accoglienza per gli immigrati sbarcati sulle coste meridionali, tanto che alcuni CDA avevano cominciato ad operare sin dal 2002 secondo un rigido regime detentivo. Tale prossimità tra CARA e CDA perdura tutt’oggi, anche perché, a causa del limitato numero di posti disponibili nei primi, i richiedenti asilo transitati da un CDA sono sovente ospitati presso altri CDA o, peggio, nei CIE, con un ulteriore peggioramento delle loro condizioni.

In base alle disposizioni varate nel 2002 e nel 2004, i CDI hanno assunto il carattere di centri aperti da cui gli stranieri possono uscire durante le ore diurne. Negli originari CDI l’allontanamento non autorizzato dal centro comportava la perdita del diritto alla protezione internazionale. La riforma del 2008 ha fatto assumere agli attuali CARA uno statuto più schiettamente “umanitario” sancendo il carattere aperto. Tuttavia all’interno dei CARA la vita resta infernale.

Sono presenti al loro interno gli uffici della UNHCR e di organizzazioni umanitarie, quali Save The Children a tutela dei minori. Questi organismi sono evidentemente impotenti, se non in minima misura, a risolvere le sofferenze prodotte dalla mondiale società del capitale, ma ben servono agli Stati per nascondere le loro responsabilità. Le condizioni di vita nei CARA sono quasi insostenibili, per la mancanza di igiene, di una reale assistenza sanitaria, di pasti decenti, di una effettiva possibilità di ricevere assistenza dall’UNHCR. Non rari sono i casi non solo di rivolte ma anche di atti di autolesionismo.

Il periodo di accoglienza nei CARA non dovrebbe eccedere i 35 giorni, oltre i quali il richiedente asilo dovrebbe ricevere un permesso di soggiorno della durata di tre mesi, rinnovabile fino alla definizione della richiesta. Di fatto, a causa dei ritardi delle Commissioni territoriali nella definizione delle domande, i tempi di permanenza superano in genere i sei mesi.

I CARA attualmente operativi sono 10, alcuni dei quali svolgono anche la funzione di Centri di Accoglienza. Dispongono di circa 4.000 posti letto e dal 2008 hanno ospitato 65.850 stranieri, quindi con permanenza media di 4 mesi.

I Centri di Accoglienza (CDA), alcuni dei quali sono definiti Centri di Primo Soccorso ed Accoglienza (CPSA), dovrebbero invece garantire un primo aiuto allo straniero rintracciato nei pressi della zona di frontiera, ospitandolo in attesa della determinazione della sua posizione giuridica. La legge si limita ad affermare che la permanenza in tali strutture deve durare “il tempo strettamente necessario”. Di solito non si superano le 48 ore ma non sono mancati casi in cui, in occasione delle ricorrenti “emergenze sbarchi”, la permanenza si è protratta per settimane.

La dichiarata finalità di accoglienza e primo soccorso non ha impedito che in realtà tali centri abbiano finito per essere gestiti con modalità del tutto analoghe a quelle dei CIE, e in assenza delle limitate garanzie giurisdizionali previste nel caso dei provvedimenti di trattenimento nei centri per stranieri in via di espulsione.

Attualmente le strutture attive con funzioni di CDA o CPSA sono 8, tutte situate nelle regioni meridionali, per un totale di 2.800 posti letto circa. Con 99.928 ingressi dal 2008 si ha una permanenza media di 10 giorni. Si tratta di strutture molto grandi che in alcuni casi svolgono al contempo la funzione di accoglienza per richiedenti asilo, e che possono giungere ad ospitare fino a 1.000 persone contemporaneamente, come nei casi dei centri di Bari, Foggia, Crotone e Lampedusa, tra le strutture per migranti più grandi in Europa.

Durante i periodi di crisi i CDA hanno sovente ecceduto i limiti di capienza. Così sono nati i Centri di Accoglienza Straordinaria (CAS). Questi, che sono strutture di emergenza per alloggiare i richiedenti asilo, sono completamente fuori controllo.

Nel 2011, l’anno in cui il numero degli sbarchi fu definito “eccezionale”, il governo di allora (alla presidenza del consiglio Silvio Berlusconi, agli Interni Roberto Maroni) decretava la cosiddetta “emergenza Nord Africa” e approntava un “sistema di accoglienza straordinario”, accanto a quello “ordinario”, dando mandato alle prefetture di identificare palestre, alberghi, palasport e luoghi di vario genere da adibire a strutture per gli arrivati via mare. In tutta la penisola si è sviluppato un sistema diffuso di centri, con cooperative, associazioni, soggetti vari già operanti nel terzo settore, oppure del tutto improvvisati, che hanno risposto all’appello, accogliendo migranti a fronte di una retta media di 45 euro al giorno.

L’emergenza è stata chiusa, per decreto, il 28 febbraio 2013 dal ministro dell’interno Anna Maria Cancellieri, durante il governo presieduto da Mario Monti. I migranti che ancora erano dentro le strutture sono stati allontanati con una buonuscita di 500 euro.

Sono passati tre anni dall’inizio dell’ “emergenza Nord Africa” e oggi siamo al punto di partenza. Per i molteplici nuovi sbarcati è stato approntato un sistema del tutto analogo a quello del 2011. Anche in questo caso, oltre alla cosiddetta accoglienza ordinaria, è stato chiesto alle prefetture di identificare luoghi temporanei per i migranti: di nuovo alberghi, palestre, palazzetti dello sport e altre strutture palesemente inadeguate. Centri di accoglienza straordinaria sono stati aperti sia per gli adulti sia per i minori non accompagnati, i quali ultimi nell’ultimo periodo sono arrivati in numero molto più alto del solito (11.507 dal gennaio all’ottobre 2014, secondo i dati di Save the Children).

Gli immigrati vi sono costretti a vivere in desolanti e precari alloggi se non nei container, infestati da scarafaggi, con servizi igienici in comune per uomini e donne, lavandini otturati, rubinetti e vetri rotti; bambini insieme agli adulti; difficile a volte trovare persino una bacinella e il sapone per il bucato. Segregati a chilometri dalle città, senza mezzi di trasporto. Giovani rifugiati che alla fine del lungo periodo passato nei CARA ne escono senza che neanche abbiano potuto imparare l’italiano. Importante che vadano a infoltire l’enorme esercito di riserva proletario, in continuo aumento.

Il Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati (SPRAR) costituisce una rete di centri di “seconda accoglienza” finalizzato alla “integrazione sociale ed economica” di soggetti già titolari di una forma di protezione internazionale (rifugiati, titolari di protezione sussidiaria o umanitaria).

Lo SPRAR, che si propone gli obiettivi di offrire misure di assistenza e di protezione e di favorire i “percorsi di integrazione” verso “una ritrovata autonomia”, cioè, un lavoro salariato, è costituito sulla rete degli enti locali. Il Ministero dell’Interno emana ogni tre anni un bando per l’assegnazione dei posti. Gli enti locali interessati, congiuntamente ad “organizzazioni” del terzo settore presenti localmente, partecipano a tale bando presentando propri progetti. Questi prevedono l’accoglienza di singoli o famiglie in appartamenti o in centri collettivi e lo svolgimento di una serie di attività per favorire la loro integrazione. I servizi offerti sono assistenza sanitaria e sociale, inserimento scolastico dei minori, mediazione linguistica e interculturale, orientamento e informazione legale, servizi per l’alloggio, per l’inserimento lavorativo e per la formazione.

Come nel caso dei CARA, tali progetti divengono la gallina dalle uova d’oro per le Cooperative sorte per la loro gestione.

Lo SPRAR è evidentemente molto richiesto dagli immigrati. Chi ha il “privilegio” di entrarci? «Pura questione di fortuna», dice Ivan Mei, di un’associazione romana, «per la disponibilità di posti o persino per l’umore del funzionario di turno, la prefettura può inviare una persona in un Centro Straordinario, in un CARA, oppure in un centro SPRAR». Quello che gli immigrati ambiscono è poter entrare nel mercato del lavoro, seppure come salariati a basso costo, demansionati rispetto alle competenze personali e senza la millantata “formazione” quale, ad esempio, la conoscenza della lingua italiana che il progetto prevederebbe.

Meno di un terzo dei pretendenti riesce ad entrarci: dei 61.238 migranti attualmente in accoglienza, più della metà, 32.335, sono in centri temporanei, 10.206 nei CARA e 18.697 in strutture afferenti allo SPRAR.

Nel 2011, secondo i dati del Servizio Centrale, sono stati complessivamente accolti 7.598 stranieri nella rete dei 209 SPRAR in 128 enti locali, con 3979 posti. Il 18% di questi era costituito da rifugiati; il 38% da titolari di protezione sussidiaria, il 16% da titolari di protezione umanitaria, il 28% da richiedenti una forma di protezione internazionale.

L’inazione, l’incertezza del futuro, la mancanza di spiegazioni dominano in buona parte del sistema d’accoglienza: arrivati in Italia gli immigrati sono portati nei centri dove la sospensione temporale è la peggiore tortura per l’immigrato.

Ma l’attesa gratifica chi specula: più tempo, più soldi. Attualmente per ogni richiedente asilo lo Stato versa in media 35 euro al giorno agli enti gestori dei centri, con cui questi dovrebbero assicurare vitto, alloggio, vestiti, qualche corso di italiano e una somma di 2,5 euro (che spesso i migranti neanche vedono) fornita per le piccole spese.

Durante gli scontri di Tor Sapienza i residenti inferociti erano convinti che lo Stato versasse i 35 euro direttamente ai migranti. Daniela Di Capua, direttrice di un programma di assistenza precisa: «Una bufala mostruosa e pericolosa, perché alimenta il razzismo». Si, una bufala, che fa comodo all’italico Stato borghese per dividere i proletari. «In un momento come questo di recessione e crisi, lo straniero “indolente e parassita” diventa il facile capro espiatorio di tutte le frustrazioni».

I 35 euro per le strutture con grande capienza e pochi servizi, come i CARA e buona parte dei CAS, sono un vero affare: il centro di Mineo, ad esempio, che ha ufficialmente 2.000 posti ma che arriva a ospitare anche 4.000 migranti, frutta a chi lo gestisce tra i 70.000 e i 140.000 euro al giorno. Il contratto di assegnazione, recentemente confermato (nonostante le svelate brutali speculazioni al suo interno), prevede una spesa di 97,9 milioni di euro per tre anni corrisposta all’ente gestore, un consorzio di aziende e cooperative che vanta forti legami con la politica siciliana, tanto a “destra” quanto a “sinistra”.

Grandi aziende, consorzi di vario genere, piccoli e medi imprenditori si sono gettati nel settore dell’accoglienza traendone profitti considerevoli. La “gestione straordinaria” dell’emergenza si è rivelata un grosso affare. Colossi, come la Domus Caritatis, legata all’Arciconfraternita del Santissimo Sacramento e Trifone e vicina a Comunione e Liberazione, o la Cascina, azienda specializzata in servizi di catering in ospedali e mense in mezza Italia (incriminata in questi ultimi giorni), hanno ottenuto appalti importanti nella gestione di diversi centri.

Quali sono le cifre che ruotano intorno all’accoglienza? «Tra i 700 e gli 800 milioni all’anno», afferma il prefetto Morcone. Di questi, una porzione minima arriva dall’Unione europea, che ha destinato all’Italia per il periodo 2014-2020 poco più di 320 milioni, circa 45 milioni l’anno. Il resto lo mette il governo.

Visti i numeri è facile capire perché, come sostiene Buzzi (protagonista della inchiesta “Mafia Capitale”) gli immigrati fruttano più del traffico della droga e anche perché il sistema dell’emergenza sia stato tenuto in piedi per tutto questo tempo nonostante la sua palese inadeguatezza e la consapevolezza che l’immigrazione non è una casualità imprevista ma un fenomeno che investe strutturalmente l’Italia da almeno vent’anni. L’emergenza in sé, parlare di emergenza, alimentare l’emergenza è sempre utile al capitale. Inoltre la recente inchiesta aperta a Roma dimostra come il business dell’accoglienza sia diventato strumento di spartizione di potere, creazione di clientele e gestione di influenze politiche.

«Non sarà anche per questo che lo SPRAR è rimasto fino ad oggi la Cenerentola del sistema?», si chiede ipocritamente la borghesia italiana; e continua sostenendo che sono soprattutto i centri con più capienza (come i CARA e i CAS) che garantiscono i profitti più alti, per le economie di scala e per gli scarsi controlli a cui sono sottoposti. Gli SPRAR sono invece in generale strutture più piccole. Invece «lo SPRAR riceve esattamente la stessa cifra dei CAS e dei CARA, 35 euro per ospite».

Perché allora, si chiede retoricamente la borghesia nostrana, non si smantellano questi ultimi a vantaggio di quello che tutti, anche in Europa, ritengono un sistema più efficiente? Perché si perpetua il circolo dell’emergenza e dei Cara, che non solo non produce risultati positivi, ma è anche occasione di malaffare e di profitti!

Morcone lo dice: «I CARA e i CAS sono aperti dalle prefetture per lo più in aree demaniali dismesse o in edifici privati lontani dai centri abitati; gli SPRAR rispondono alla logica opposta: devono essere integrati nel territorio, avere con il quartiere circostante una relazione, garantire un percorso di scambio e d’inclusione». E ancora: «Gli enti locali devono capire che per loro gli SPRAR sono un’opportunità, sia perché sul medio periodo gli immigrati si rivelano una risorsa sia perché garantiscono occupazione nel territorio (...) La gran parte dei posti di lavoro in Calabria e in Sicilia in questi ultimi anni è stata creata grazie all’accoglienza dei migranti».

E ancora Morcone: «I sindaci e i governatori di molte regioni si oppongono alla creazione dei posti SPRAR. E così i grandi e più che ragionevoli piani del Viminale rischiano di rimanere lettera morta e la gestione dell’immigrazione finisce per essere occasione di business per imprenditori e faccendieri con pochi scrupoli. Con buona pace degli immigrati che potrebbero essere una risorsa per un paese che invecchia».

La “dialettica” tra gli interessi borghesi finisce per tenere in piedi i tanto additati CARA & Co da un lato, e dall’altra far crescere i progetti SPRAR che consentono anche agli enti locali di mettere le mani in pasta, accrescere le sfere di influenza politica di sindaci e governatori regionali, e la forza delle “mafie” locali, in veste di nuove cooperative.

Ecco, dunque, come guadagna il Capitale sulla pelle dei proletari immigrati nella prima fase, seguita, come vedremo, dal totale abbandono dell’immigrato ai capricci del mercato del lavoro salariato.

(Continua al prossimo numero)

Partito Comunista Internazionale

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