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L’Italia e la trappola libica

(29 Marzo 2016)

Ci è stato segnalato questo contributo analitico di Michele Basso, apparso giorni fa sul sito Rotta Comunista: lo pubblichiamo volentieri.

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Roberta Pinotti

L’imperialismo italiano è sempre stato piuttosto debole, ma questo non ha influito sulla sua aggressività. Fin dal raggiungimento dell’unità, pur gravitando nell’area inglese o in quella germanica, e infine in quella statunitense, l’Italia è sempre entrata in guerra aggredendo l’avversario, anche se spesso ne è uscita con le ossa rotte. E’ certo che, in molti casi, ha subito forti sollecitazioni esterne, ma è vero pure che a queste non ha mai opposto seria resistenza.
Oggi si prepara una nuova disastrosa avventura libica. Con la complicità della cortigiana di sempre, l’ONU, i paesi aggressori del 2011, Francia, Inghilterra, USA, Italia, Qatar, Arabia Saudita … pretendono di mettere insieme i cocci da loro prodotti, e dividersi il paese in zone d’influenza, anche se alla foglia di fico sbandierata, la richiesta ufficiale di un governo libico unitario, ormai più nessuno dà importanza.
Renzi, per la platea, gioca a fare il ritroso, a fingersi contrario all’intervento, ma agli USA tali messinscene non piacciono, e lo inchiodano citando vecchie e nuove sconsiderate dichiarazioni della Pinotti, che proponeva l’invio di 5000 uomini. E’ stata la ministra, a febbraio, in un'intervista al Messaggero, a fare ancora una volta quella cifra:

«Se in Afghanistan abbiamo mandato fino a cinquemila soldati, in un Paese come la Libia che ci riguarda molto più da vicino e in cui il rischio di deterioramento è molto più preoccupante per noi, la nostra missione può essere significativa e impegnativa, anche numericamente».

Da buon disinformatore seriale, Renzi attacca i sindacati per lo sciopero contro la guerra:

«Credo che i cittadini si meritino altro del vedere piccole sigle sindacali che scioperano contro la guerra che non c'è. Questo pone il grande tema della rappresentanza sindacale che auspico sindacati e Confindustria possano risolvere perché o lo facciamo noi o lo fanno loro. Meno male" che lo sciopero "lo hanno fatto in pochi. Chi fa sciopero per la guerra in Libia prende in giro i cittadini perché la guerra in Libia non la facciamo. Ed è giusto che chi rappresenta il Governo lo dica con molta chiarezza" (Repubblica.it 16-3 2016).

E finge di ignorare le notizie, ufficiali e ufficiose, sulla preparazione della spedizione, a partire da Sigonella. Forse è convinto di parlare ad idioti, o almeno a disinformati, ma più probabilmente confida nell’omertosa complicità dei mezzi di informazione.
Il risultato che vuole ottenere Renzi non riguarda solo l’opposizione alla guerra. Cerca anche di colpire quei sindacati che rifiutano la collaborazione di classe, sicuro di avere l’appoggio della Triplice. Non solo CGIL, CISL, UIL non conducono lotte efficaci contro i padroni, ma svolgono anche opera di repressione. Si pensi alla grave decisione della FIOM – a parole un sindacato combattivo, con un dirigente che grida forte...nei talk show - di punire i delegati FIOM delle fabbriche Fiat-FCA di Melfi e di Termoli, per aver organizzato lo sciopero contro i sabati comandati, con altri organismi sindacali di base.
I vertici sindacali ufficiali sono molto attivi nel delegittimare e isolare i salariati e i delegati più combattivi. I lavoratori non devono attendere disposizioni da questi dirigenti conniventi con la controparte padronale, ma devono, in prima persona, riprendere l'iniziativa, auto-organizzarsi dal basso e darsi un coordinamento nazionale di lotta che raccolga tutti coloro che sono disposti a scontrarsi con l’avversario. CGIL, CISL, UIL insieme hanno milioni di iscritti, anche se ne stanno perdendo molti. Se svolgessero effettivamente il compito al quale li avevano chiamati i lavoratori, non sarebbero possibili vergognosi abusi come il caporalato, lo sfruttamento pazzesco nella raccolta di pomodori, i ritmi di lavoro insopportabili, la carenza di misure di salvaguardia della salute, la diffusione su vasta scala dei voucher. Il governo ha potuto far passare il jobs act senza che i sonni dei dirigenti sindacali fossero turbati. Infine la chicca: Landini ha lodato Marchionne per avere salvato la Fiat. Sulla pelle di chi ci lavora, aggiungiamo noi.
Ma torniamo alla questione della guerra.
Obama, falso amico per antonomasia, propone per l’Italia la guida della spedizione e ciò significa solo che, se nominalmente alla testa ci sia un ufficiale italiano, questi dovrà comunque risponderne direttamente a Washington. Gli USA interverranno, mandando in prima fila gli altri. Quando l’Europa è in guerra, gli Stati Uniti ci guadagnano sempre: con affari giganteschi nel corso delle guerre mondiali, ma anche nelle guerre “minori”, come l’avventura etiopica di Mussolini, al quale non fecero mancare il rifornimento di camion, nonostante le sanzioni. Ma le sanzioni sono un limite per gli altri, gli Stati Uniti sono superiori.
Pur avendo avuto un peso decisivo nella guerra del 2011, il governo americano scarica le colpe sui vassalli, Sarkozy, Cameron, e in parte sulla Clinton. Ammette che il Pentagono abbia preparato i piani per l’intervento in Libia, ma precisando che il suo sostegno all'intervento Nato nel 2011 fu "un errore", dovuto in parte alla sua errata convinzione che Francia e Gran Bretagna avrebbero sostenuto un peso maggiore dell'operazione ( 1). Non nomina Napolitano e Berlusconi, che hanno seguito alla lettera le indicazioni di oltre oceano, anche se il secondo ora, tramite la sua stampa, si descrive come un ostaggio trascinato in guerra per i capelli (o per il parrucchino).
Washington ha interesse a soffiare sulle guerre, se c’è una tregua in Siria, si sviluppano operazioni belliche in Libano e in Libia, oltre che nel disgraziatissimo Yemen, di cui non si occupa nessuno. Riyadh compra armi a non finire, e così Ankara, con i miliardi che le darà l’Europa, ufficialmente per aiutare i profughi. Israele rappresenta un passivo, perché gli USA devono finanziarlo, ma non c’è problema perché paga il contribuente americano, e le industrie degli armamenti ci guadagnano lo stesso.
Lenin c’insegna che, per giudicare un conflitto, occorre andare oltre le apparenze politiche e diplomatiche e cercare la sostanza reale della guerra che, in questo caso, è la spartizione della Libia in zone d’influenza, la divisione del bottino in gas e petrolio, in accordo con signori della guerra locali. E’ il capitale finanziario che detta legge, Renzi, Cameron, Hollande e persino Obama obbediscono.
Troppo presto abbiamo dichiarato, a voce o con gli scritti, che la fase coloniale del capitalismo era tramontata; chi la faceva terminare con la guerra di Suez del 1956, chi con la caduta dell’impero portoghese. Non abbiamo tenuto conto che un sistema economico–sociale al tramonto, imperialistico e quindi r e a z i o n a r i o, riscopre tutte le peggiori forme di sopraffazione del passato. Abbiamo visto rinascere tutto ciò che gli illuministi hanno condannato, dalla tortura alle carceri segrete, dai tribunali religiosi alla subordinazione della donna e alle lapidazioni. Gli omicidi mirati tramite droni di Obama e Netanyahu rinnovano le lettres de cachet di Luigi XIV, infischiandosene dell’Habeas Corpus e di ogni garanzia democratica. Il colonialismo esiste, anche se il linguaggio politicamente corretto, versione edulcorata di quello orwelliano, ne ha eliminato le espressioni più sgradevoli.
Ritorna l’alternativa burro o cannoni, anche se oggi se ne parla in termini di sistemi d’arma, missili e F35. Sappiamo che questi ultimi sono bare volanti, che non sarebbero in grado di affrontare l’aviazione russa e cinese, ma ce le impongono lo stesso. Per un imperialismo di serie C, armi di serie C. A pagarle saranno i lavoratori, i pensionati, le vedove – magari con decurtata pensione di reversibilità – i malati, con i tagli alla spesa sanitaria, gli studenti, i contadini, la piccola borghesia...
La questione libica insolubile - finché c’è il capitalismo - è probabile che trascini l’imperialismo italiano, se non se ne tira fuori in tempo, a fondo definitivamente. La guerra di Libia sarà un disastro annunciato, per le classi povere, ma sicuramente anche per la borghesia italiana. L’importante è capire se l’Italia diventerà uno stato fallito, alla maniera somala, o sarà teatro di una ripresa della consapevolezza rivoluzionaria.
A capire, ci può aiutare un’osservazione di Luigi Cortesi che, nel suo “Le origini del PCI”, nota come una piccola guerra, quella di Libia del 1911, avesse favorito una ripresa del marxismo anche tra i riformisti, Turati scriveva, riferendosi ovviamente a Marx, in “Colui che confinammo in soffitta”:

Ogni giorno che cade, ogni fatto economico che si volge, ogni nuovo atteggiarsi della società che si muta realizza, minuto per minuto, una scheggia di quel pensiero.

Però, continua Cortesi, la grande guerra ebbe l’effetto opposto e integrò definitivamente il riformismo nella politica nazionale. Se riflettiamo sugli sviluppi politici e sociali di allora, possiamo trarne indicazioni per l’oggi. Se la guerra procede, dobbiamo attenderci manifestazioni di sciovinismo anche a livello popolare, la persecuzione degli oppositori e degli internazionalisti, almeno finché la stanchezza generale non avrà provocato un rifiuto e una protesta di massa. Solo allora il lavoro degli antimilitaristi e dei comunisti, che non deve mai interrompersi, potrà avere affetti decisivi.
Determinante, al tempo della I guerra mondiale e subito dopo, fu il ritardo con cui avvenne la formazione del partito rivoluzionario. Anche oggi manca; non basta avere un programma corretto, è necessario avere pure un’influenza sicura su gran parte del proletariato, almeno a livello nazionale, perché solo a quel livello si può parlare di lotta di classe in senso proprio.
La parola d’ordine, per i comunisti, resta sempre: il nemico principale è in casa nostra, ma in casa nostra c’è coabitazione. Ci sono, anzitutto le basi americane. Gli israeliani si addestrano in Sardegna, e ora scorazzano per gli aeroporti italiani anche gli aerei sauditi:

“I finanzieri della Dogana e i gli agenti della Polizia non credevano ai loro occhi, ieri mattina, lunedì 14 marzo 2016, all’aeroporto civile Marconi di Bologna. Nessuno li aveva avvertiti, eppure era tutto vero. Strano, stranissimo, quasi impossibile, ma vero: quelli che erano atterrati senza alcuna scorta e senza assistenza della aviazione militare italiana, erano due caccia dell’air force dell’Arabia Saudita. “Ma che ci fanno qui in Italia, a Bologna, nel nostro aeroporto civile?” hanno chiesto dall’Ufficio della dogana alla Torre di controllo. “Non vi impacciate, siamo stati avvertiti dal centro. Sappiamo tutto noi…”. Insomma: fatevi gli affari vostri. Fosse finita qui. Ma no! Eludendo qualsiasi protocollo aeroportuale, qualsiasi norma di sicurezza, i due caccia hanno fatto rifornimento in maniera autonoma. Cioè: non è stato il personale dell’aeroporto a caricare il carburante nei serbatoi dei due potenti velivoli, ma gli stessi piloti. Senza la presenza ne dei vigili del fuoco, ne di addetti dell’aeroporto, come previsto dalle regole” .(2)

Per questo, la lotta contro il nemico in casa assume un carattere internazionale. L’Italia fa parte di uno schieramento che va ben oltre la NATO, in cui gli USA devono agire per impedire l’esplosione di interessi divergenti, che potrebbero diventare fronti di guerre, dirette o per procura. Chi interpretasse la parola d’ordine di Karl Liebknecht in senso restrittivo, dirigendo la propria lotta solo contro l’imperialismo italiano, si inibirebbe la comprensione della situazione internazionale.
La guerra in Libia partirà con molti svantaggi. Un governo fantoccio nazionale, ammesso che si riesca a formarlo realmente e non sulla carta in Tunisia, avrebbe una credibilità internazionale inferiore a quella dei Quisling di Kabul. Le menzogne sulle guerre per introdurre la democrazia, o sulle armi di distruzione di massa, hanno perduto ogni credibilità.
Perciò, la spedizione può occupare solo alcune zone strategiche – per l’intero territorio sarebbero necessari centinaia di migliaia di uomini, la Libia è quasi tre volte l’Afghanistan e quasi sei volte l’Italia – e non si può contare all’infinito sulla paura, sul cinismo e sull’indifferenza delle popolazioni europee e americane. Se ci sarà resistenza, con soldati morti, non basteranno più le meste cerimonie di un presidente decrepito che, con un gesto sacrale, pone le mani sulle bare dei soldati. La cosiddetta opinione pubblica è insensibile alle stragi degli avversari, ma attentissima alla morte dei propri compatrioti, e neppure gli USA potrebbero in questa situazione affrontare uno stillicidio di caduti.
Ci sono, quindi, possibilità di una ripresa della lotta antimilitarista e della lotta di classe tout court?
Oggi, la borghesia è divisa, soprattutto in Italia ma può permettersi libertà di movimento solo perché i lavoratori sono ancora più frammentati. Il peggioramento continuo del tenore di vita può portare a cambiamenti radicali, soprattutto se si combatte la politica salviniana, perfettamente complementare a quella governativa, tendente a spostare il malcontento verso gli immigrati. Per scongiurare questo pericolo, non serve puntare su generiche idealità di accoglienza e di diritto internazionale, ma elaborare una serie di rivendicazioni comuni a proletari autoctoni ed immigrati, a partire dalla riduzione dell’orario di lavoro, la formazione di un corpo di ispettori del lavoro che denuncino le innumerevoli violazioni delle più elementari norme di sicurezza e la piaga del lavoro nero. Misure che tendano a combattere le discriminazioni e ad evitare le guerre tra poveri. Possono sembrare rivendicazioni estranee alla lotta contro la guerra, in realtà hanno un valore unificante per operai e disoccupati, e l’unità dei lavoratori, italiani e immigrati, dei disoccupati, dei pensionati, è la condizione prima per un’efficace opposizione al militarismo e all’imperialismo.

Michele Basso, 24/03/2016

Note
1) Obama: un errore sostenere l'intervento Nato in Libia nel 2011. In un lungo colloquio con "The Atlantic", il presidente americano lancia stoccate a Londra e Parigi: "Pensavo avrebbero sostenuto un peso maggiore nell'operazione", dice. E critica anche l'Arabia Saudita, che tenta di trascinare gli Stati Uniti in pesanti conflitti settari che poco hanno a che fare con gli interessi americani”. (Rai news)
2)Marco Gregoretti, Che ci facevano lunedì 14 marzo due caccia sauditi, magari armati di missili, all’aeroporto civile di Bologna? Pubblicato il 15 marzo 2016 in Misteri, Storie

Michele Basso

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