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L'angoscia dell'anguria

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(24 Luglio 2013) Enzo Apicella

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Socialismo o catastrofe

(2 Maggio 2016)

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Amadeo Bordiga

Una notizia estremamente importante è stata pressoché ignorata dai media: “Negli anni Ottanta si stimava in 600mila il numero degli scienziati dediti alla ricerca militare sui due milioni e più del totale, nei venti anni successivi la percentuale, almeno in Occidente, ha superato il 50 per cento, percentuale che è sicuramente aumentata nel terzo millennio.” (1) Questo ha un significato ben preciso. Sappiamo che un sistema economico –sociale, finché è giovane, presenta fattori di rinnovamento sociale; così il feudalesimo ripopolò e rimise a cultura vaste aree che il sistema schiavistico aveva ridotto a latifondi disabitati. In seguito i feudali, che inizialmente avevano il compito di difendere i contadini e il clero, che percepiva la decima col compito di manutenzione delle strade e di assistenza sociale, si erano trasformati in pericolosi parassiti, che pesavano sulla società come macigni e rallentavano la sua evoluzione.
Il Manifesto di Marx ed Engels riconosce l’enorme progresso portato dalla borghesia con la formazione del mercato mondiale, senza nascondere lo sfruttamento bestiale della forza lavoro e la devastazione delle economie indigene. Oggi il capitalismo è solo regressivo, devastatore, portatore di una crisi economica permanente. Il fatto che la maggioranza assoluta degli scienziati, cioè il settore tecnologicamente più avanzato della società, sia utilizzato per produrre armi sempre più letali, è un segno inequivocabile dell’irreversibilità del processo reazionario. Il capitalismo è ormai un pericolo per la stessa sopravvivenza dell’umanità, ed è un sogno inane sperare un ritorno al periodo liberale pre - imperialista, quando elezioni e parlamento contavano ancora qualcosa, le grandi banche e le grandi imprese, pur cominciando a svilupparsi, non erano ancora in grado di condizionare ogni aspetto della vita politica, sociale, scientifica, artistica, religiosa.
Marx scrisse: “A un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne sono soltanto l'espressione giuridica) dentro i quali tali forze per l'innanzi s'erano mosse. Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene. E allora subentra un'epoca di rivoluzione sociale. Con il cambiamento della base economica si sconvolge più o meno rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura.” (2) La rivoluzione non è una scelta di una classe o di un partito, matura nella società, ed è causata dalla necessità di non perdere tutti i frutti del progresso conseguiti in precedenza. Il partito non è un demiurgo, è una guida. Le forme nuove di stato, come la Comune o i Soviet, e quelle future che la storia produrrà, nascono in modo relativamente spontaneo. Il partito è indispensabile per rendere pienamente cosciente questo processo, impedire ritorni della reazione, degenerazioni, e consolidare il nuovo ordine. Ma se le condizioni economico sociali del paese non sono ancora mature per il nuovo sintema, l’involuzione coinvolge necessariamente lo stesso partito.
Nel 1914, l’Europa occidentale e gli Stati Uniti avevano già un’economia matura per il socialismo, come riconoscevano tutti i maggiori rivoluzionari, dalla Luxemburg a Lenin. Ma la maggior parte dei dirigenti del movimento operaio, e le masse che le seguivano, miravano ad altri scopi, da realizzare “prima” del socialismo. Al tempo della I guerra mondiale si diede la precedenza alla difesa della patria, fingendo di ignorare che non si trattava di un risorgimentale conflitto per l’indipendenza, ma che la posta in gioco era chi dovesse rapinare le colonie e la divisione dell’impero turco, come dimostra il trattato segreto (poi rivelato dai bolscevichi) di Sykes – Picot.
Eppure il Congresso di Basilea del 1912 non aveva avuto dubbi sul carattere imperialistico del conflitto che si approssimava e aveva stabilito che, se fosse scoppiata la guerra mondiale, i socialisti avrebbero dovuto guidare la lotta contro la borghesia: “Il Congresso ...avverte le classi dirigenti di tutti i paesi di non accrescere ancora con azioni di guerra la miseria inflitta alle masse dal modo di produzione capitalistico...Che i governi sappiano bene che nella situazione attuale dell’Europa e nello stato d’animo della classe operaia essi non potrebbero scatenare la guerra senza pericoli per se stessi...”(3) Ben pochi dirigenti seppero tener fede a tali posizioni.
Nella guerra mondiale, i lavoratori europei, le forze del socialismo internazionale, quelli che avevano la missione storica di portare avanti la rivoluzione socialista, sono sterminati a milioni, dice invano la Luxemburg, vera voce che grida nel deserto, all’inizio solo pochi la seguono.
Qualche anno dopo, grazie all’Ottobre rosso, tutto faceva sperare che i rapporti di forza si sarebbero modificati a favore del proletariato. Lenin e la III Internazionale miravano al socialismo. La condizione era la vittoria in occidente, soprattutto nell’avanzatissima Germania. "... la storia ... ha seguito un cammino così originale che ha generato nel 1918 le due metà separate del socialismo, l’una accanto all’altra, proprio come due futuri pulcini sotto l’unica chioccia dell’imperialismo internazionale. La Germania e la Russia incarnano nel 1918, nel modo più evidente, la realizzazione materiale, da una parte, delle condizioni economiche, produttive e sociali, e dall’altra, delle condizioni politiche del socialismo.
Una rivoluzione proletaria vittoriosa in Germania spezzerebbe subito, con enorme facilità, il guscio dell’imperialismo (fatto, purtroppo, del migliore acciaio e perciò capace di resistere agli sforzi di un pulcino qualsiasi), assicurerebbe senz’altro, senza difficoltà oppure con difficoltà insignificanti, la vittoria del socialismo a livello mondiale, a condizione naturalmente che la misura delle “difficoltà” sia presa su scala storica mondiale e non secondo il criterio di un gruppetto di benpensanti."(4)
Il tentativo di unificare le due metà del socialismo fallì con la sconfitta della rivoluzione in Germania. Seguì inevitabilmente il riflusso, lo sviluppo di una teoria antimarxista come il socialismo in un solo paese, la trasformazione dell’immagine di Lenin in un’icona inoffensiva. Non gli si risparmiò neppure l’imbalsamazione.
Non possiamo qui seguire gli sviluppi da allora fino ai nostri tempi. In soldoni, il problema è questo: in guerra, s’interrompe la lotta di classe, con la scusa che c’è la patria da salvare. Finita la guerra, si rimanda il socialismo alle Calende greche, perché bisogna prima da ricostruire il paese. Non si approfitta mai dei momenti di difficoltà della borghesia per prendere il potere, come fecero i bolscevichi al tempo dell’ottobre rosso. L’esempio italiano del secondo dopoguerra è eloquente: PCI, PSI, CGIL s’impegnarono nella ricostruzione, chiedendo sacrifici agli operai. Togliatti addirittura propose di adottare il progetto “Rifare l’Italia” (1919) di Filippo Turati. L’Italia capitalistica fu ricostruita, e gli Agnelli, i Pirelli e gli altri padroni, gettato l’orbace e indossata una bianca veste democratica, ripresero a opprimere i lavoratori, licenziando, tutti coloro che portavano avanti le lotte; con la guerra fredda, furono sistematicamente colpiti gli iscritti a PCI, PSI e CGIL, con tanti ringraziamenti a Togliatti e a Nenni che avevano loro riconsegnato il potere.
In seguito fu posto un altro obiettivo intermedio, e a molti sembrò che, prima del socialismo, si dovesse passare per il lungo processo dell’unificazione europea. L’europeismo fu considerato, anche a sinistra, una tappa verso l’internazionalismo. Si trovarono analogie con l’Ottocento, e si pensò che Germania e Francia dovessero svolgere la funzione unificatrice, che era stata della Prussia per la Germania e del Piemonte per l’Italia.
Lenin, la Luxemburg, Bordiga nel II dopoguerra denunciarono la dottrina degli Stati Uniti d’Europa prima che la borghesia tentasse di realizzarla concretamente. Trotsky parlò di Stati Uniti d’Europa, ma vi aggiunse “sovietici”, cioè col potere dei lavoratori.
Lenin scrisse: “ Dal punto di vista delle condizioni economiche dell'imperialismo, ossia dell'esportazione del capitale e della spartizione del mondo da parte delle potenze coloniali "progredite" e "civili", gli Stati Uniti d'Europa in regime capitalistico sarebbero o impossibili o reazionari.” “Certo, fra i capitalisti e fra le potenze sono possibili degli accordi temporanei. In tal senso sono anche possibili gli Stati Uniti d'Europa, come accordo fra i capitalisti europei... Ma a qual fine? Soltanto al fine di schiacciare tutti insieme il socialismo in Europa e per conservare tutti insieme le colonie accaparrate contro il Giappone e l'America, che sono molto lesi dall'attuale spartizione delle colonie e che, nell'ultimo cinquantennio, si sono rafforzati con rapidità incomparabilmente maggiore dell'Europa arretrata, monarchica, la quale comincia a putrefarsi per senilità... Sulla base economica attuale, ossia in regime capitalistico, gli Stati Uniti d'Europa significherebbero l'organizzazione della reazione per frenare lo sviluppo più rapido dell'America ”(5)
Nel 1911, Rosa Luxemburg, contro Kautsky e Ledebour, che proponevano gli Stati Uniti d’Europa per scongiurare la guerra, scriveva: “... l’idea dell’Europa come unione economica, contraddice lo sviluppo capitalista per due ragioni. Innanzitutto perché esistono lotte concorrenziali e antagonismi estremamente violenti all’interno dell’Europa, fra gli stati capitalistici, e così sarà fino a quando questi ultimi continueranno ad esistere; in secondo luogo perché gli stati europei non potrebbero svilupparsi economicamente senza i paesi non europei. Come fornitori di derrate alimentari, materie prime e prodotti finiti, oltre che come consumatori degli stessi, le altre parti del mondo sono legate in migliaia di modi all’Europa... L’Europa non rappresenta una speciale unità economica all’interno dell’economia mondiale più di quanto non la rappresenti l’Asia o l’America.” “E se l’unificazione europea è un’idea ormai superata da un punto di vista economico, lo è in egual misura anche da quello politico.
I tempi in cui il continente europeo rappresentava il centro di gravità dello sviluppo politico e il polo delle contraddizioni capitalistiche, sono ormai lontani. Oggi ...gli stessi conflitti europei non si svolgono più sul continente europeo, ma su ogni mare e in ogni parte del mondo.
Solo distogliendo lo sguardo da tutti questi sviluppi, e immaginando di essere ancora ai tempi del concerto delle potenze europee [5], si può affermare, per esempio, di aver vissuto quarant’anni consecutivi di pace... la principale ragione per cui da decenni non abbiamo guerre in Europa sta nel fatto che gli antagonismi internazionali si sono infinitamente accresciuti, oltrepassando gli angusti confini del continente europeo, e che le questioni e gli interessi europei si riversano ora all’esterno, nelle periferie dell’Europa e sui mari di tutto il mondo.
Dunque quella degli “Stati Uniti d’Europa” è un’idea che si scontra direttamente con il corso dello sviluppo sia economico che politico, e che non tiene minimamente conto degli eventi dell’ultimo quarto di secolo.” “Tutte le volte che i politicanti borghesi hanno sostenuto l’idea dell’europeismo, dell’unione degli stati europei, l’anno fatto rivolgendola, esplicitamente o implicitamente, contro il “pericolo giallo”, il “continente nero”, le “razze inferiori”; in poche parole l’europeismo è un aborto dell’imperialismo.” (6)
Bordiga scrive in un periodo in cui l’Europa semidistrutta è di fatto assoggettata agli USA, ma è completamente esente dalla stupida ammirazione per la repubblica stellata.
“Federazione Europea! Il principale difetto di questa formula è che essa sceglie a modello il regime dell'implacabile capitalismo di oltre Atlantico, beve fino alla feccia la leggenda imbecille che sia più umano e meno barbaro di quello europeo, attribuisce scioccamente tali illusori vantaggi alla forma federativa della costituzione. Per il determinismo economico è ben chiaro dove debba cercarsi la differenza nei cicli di origine del capitalismo di qua e di là dell'Oceano” “Il Movimento Federalista Europeo, coi suoi stupidi progetti interparlamentari, maschera della realtà di una organizzazione di guerra a comando extra-europeo, non risponde ad altro che al migliore consolidamento della dittatura del Capitale americano sulle varie regioni europee, e al tempo stesso della interna dominazione sul proletariato americano, le cui vane illusioni di prosperità hanno per sicuro sbocco, nel volgere del ciclo storico, l'austerità che la più ipocrita delle borghesie fa inghiottire alla classe operaia d'Inghilterra” (7)
Si nota subito la fondamentale convergenza delle posizioni di questi tre comunisti. Contrari all’unificazione borghese dell’Europa, fatta innanzitutto in funzione antiproletaria. Le differenze sono ovvie: prima della Grande guerra l’Europa unita poteva essere uno strumento per la conservazione delle colonie, sia contro la rapida ascesa di USA e Giappone, sia contro le lotte di liberazione nazionale. Kautsky e Ledebour non vedevano, o non volevano vedere, questi aspetti.
Oggi, gli stati aderenti alla UE coincidono in gran parte con quelli della Nato, e anche i cosiddetti neutrali, come Austria e Svezia sono nell’orbita USA. La Francia, che sotto De Gaulle tentò una politica relativamente autonoma, con Sarkozy e Hollande è tanto più supinamente ubbidiente quanto più prende iniziative militari, fungendo da apripista agli USA. Un tempo, nelle future colonie arrivavano prima i missionari e gli esploratori, poi avveniva la conquista militare. Oggi, come in Libia, arrivano prima Francia, Inghilterra e Italia, e con ciò è aperta la porta dell’intero continente agli USA, a cominciare da quelle che erano le riserve di caccia francesi, inglesi e italiane.
Un’altra prova dell’asservimento europeo è l’appoggio dell’Unione al TTIP, che vuole imporsi ad alcuni stati recalcitranti tra cui la Germania.
Ora, però, l’impasto mal riuscito dell’Europa inizia a scomporsi, sotto l’impatto delle masse di migranti, non c’è dubbio, ma anche perché alcuni paesi colgono l’occasione di emanciparsi da una burocrazia, rispetto alla quale quella zarista e quella dell’impero turco erano lungimiranti.
I lavoratori, consapevoli che crisi, guerre, contrasti tra stati e tra popoli sono una diretta conseguenza del regime capitalistico, devono attenersi alle posizioni internazionalistiche, e non ammettere alcuna sospensione della lotta di classe, nei suoi aspetti politici, economici, teorici, organizzativi, né in tempo di guerra né in tempo di pace. Devono considerare avversari di classe sia il mostro a molte teste di Bruxelles, sia i governi nazionali. E’ vano sperare in un’Europa borghese “più giusta” o in una politica autonoma della propria nazione. La borghesia è marcia e corrotta in tutta Europa, e così a livello internazionale. Cresce il numero dei miliardari, in Europa, in USA, in Russia, in Cina, in Arabia Saudita... mentre aumenta a dismisura il numero dei poveri. Non è frutto di una congiura di qualche società segreta, è la proletarizzazione, descritta nel Manifesto dei comunisti e nel Capitale di Marx. Non siamo nella stessa barca con la borghesia.
I proletari non hanno patria, perciò non devono appoggiare le borghesie, siano esse europeiste o nazionaliste, liberiste o protezioniste, clericali o laiche.


Note
1) Cristina Amoroso, “Le nuove armi “invisibili” violano le leggi internazionali”, Il Faro Sul Mondo 22, 3, 2016.
2) Karl Marx, “Per la critica dell’economia politica, Prefazione”.
3) La risoluzione di Basilea (1912), in Antologia del pensiero socialista, La seconda Internazionale, vol. III, a cura di Alfredo Salsano.
4) Lenin "Sull'imposta in natura", maggio 1921.
5) Lenin “Sulla parola d'ordine degli Stati Uniti d'Europa” (1915)
6) Rosa Luxemburg , “Utopia pacifiste”. Tradotto per il MIA da Stefano Marotta.
7) Amadeo Bordiga, “United States of Europa ”, Prometeo ( n°14, 1949). Si può trovare nei siti de “Il programma comunista”, N+1, “Il partito comunista” (pcint).

Michele Basso

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