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(13 Maggio 2016)
Sei corpi appesi, col cappio al collo. E’ accaduto giorni addietro nel supercarcere di Pol-e-Charkhi, Afghanistan. I giustiziati erano sei. Quattro talebani: due miliziani ordinari, che piazzando Ied avevano fatto fuori poliziotti nei distretti di Paktika e Paghman, un altro condannato per l’attacco all’ospedale militare Daud Khan e anche lì i colpiti erano militari e agenti di guardia, il quarto era più illustre, tal Hamidullah, accusato dell’omicidio del presidente Rabbani, storico signore della guerra e fondatore del Jamiat-e-Islami. Impiccati anche un membro di al-Qaeda, killer del deputato Laghmani e di altre 14 persone, e un appartenente alla rete di Haqqani. Quest’ultimo per colpire il rappresentante della locale Commissione dei diritti umani, ne aveva sterminato l’intera famiglia. Insomma si trattava di pluriomicidi, sebbene secondo le proprie logiche ciascuno ricopriva un ruolo combattente nel piano dell’insorgenza lanciata contro l’occupazione occidentale e i collaboratori governativi. Ovviamente talebani e altri fondamentalisti hanno un disegno politico che usa il Jihad come mezzo per destabilizzare il Paese e prenderne la guida. La scelta di Ghani, che per due anni ha tenuto un basso profilo, rappresenta un cambio di tendenza rispetto al passato e anche alla sua linea.
Nei due mandati presidenziali di Karzai le esecuzioni capitali erano rare, quelle rivolte a miliziani d’ogni appartenenza quasi inesistenti. Unica eccezione quella di Abdullah Shah, crudele assassino ma anche testimone ingombrante d’intrighi di potere e per questo eliminato. La politica ufficiale aveva attuato una moratoria sino alla totale riforma del sistema giudiziario, ma soprattutto non voleva inimicarsi i signori della guerra, che in fatto di crimini non erano secondi agli studenti coranici armati. Una posizione mantenuta dallo stesso Ghani che anzi, come il predecessore, cercava di rilanciare colloqui col nemico. Ma la risposta sono stati attacchi ininterrotti, in autunno e in inverno, un segnale di esplicito rifiuto d’ogni tregua. Un mese fa è giunto il pesantissimo attentato di Kabul con 68 vittime e 350 feriti e il governo ha scelto la linea dura. Il presidente, riunendo i due rami del Parlamento, ha parlato di motivazioni di sicurezza (e forse di stessa sopravvivenza) che imponevano posizione drastiche. Naufragata quella trattativa cercata assieme all’omologo pakistano Sharif, ma di fatto respinta dal nuovo leader dei talib afghani Mansour, non si poteva concedere nulla alle proposte di amnistia per chi era accusato e condannato per atti terroristici. Anzi coloro che s’erano macchiati di stragi dovevano finire sul patibolo. Così è stato.
Tutto ciò nonostante un contrasto in seno agli organi giudiziari, dove c’era chi non voleva inasprire il clima evitando di applicare la pena capitale e coloro che si schieravano con la linea della fermezza proposta dal presidente. Ghani ha promesso adeguata protezione dei magistrati contro le possibili vendette dei turbanti. Un portavoce governativo sottolinea come la scelta della condanna per impiccagione ha seguìto la normativa vigente, comprese le indicazioni della Shari’a, assicurando comunque agli imputati la completa legalità dell’azione che si avvale di tre gradi di giudizio. La leadership afghana prova così a conquistare un’autorità ormai inesistente incutendo terrore ai seminatori di terrore. L’obiettivo primario è la manovalanza talebana, quella costituita dalle adesioni dell’ultim’ora compiute da soggetti che s’aggregano al network di Mansour magari disertando da esercito e polizia. Bisogna vedere se la stretta rimarrà circoscritta ai politici o s’allargherà ai condannati per crimini comuni, anche efferati come l’omicidio, ma tutti afferenti alla sfera d’una dilagante malavita. Intanto i talebani, che per tenere testa al confronto a distanza con l’Isis hanno sensibilmente aumentato i propri interventi d’informazione e propaganda, in un ampio comunicato affermano che “condanne a morte e sevizie inferte ai combattenti sono barbarie, l’attuale governo corrotto non ha alcuna autorità e simili scelte non porteranno né pace né sicurezza”. La guerra continua.
13 maggio 2016
articolo pubblicato su enricocampofreda.blogspot.it
Enrico Campofreda
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