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(27 Settembre 2011) Enzo Apicella

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L’opposizione di facciata della Fiom spalleggia il corporativismo della Cgil

8 anni di tradimento degli interessi operai

(3 Luglio 2016)

Lo sciopero generale dei metalmeccanici del 20 novembre, proclamato da Fiom, Fim e Uilm e preparato da una serie di attivi unitari dei loro delegati in tutta Italia, ha suggellato la ritrovata unità sindacale fra le tre federazioni di questa importante categoria della classe operaia e con essa la chiusura di un ciclo durato oltre sei anni, apertosi all’indomani dell’ultimo precipitare della crisi economica mondiale del capitalismo, nel 2008. Qui ne ricapitoliamo le vicende per trarne le necessarie lezioni.

Prime manovre contro il contratto nazionale

Nel maggio 2008, con il varo di una Piattaforma Comune titolata “Linee di riforma della struttura della contrattazione”, Cgil, Cisl e Uil inauguravano le grandi manovre contro il contratto nazionale, che già questi sindacati si erano dati ad indebolire negli anni precedenti.

La Piattaforma infatti si proponeva di:
- «migliorare gli spazi di manovra salariale e normativa della contrattazione aziendale o territoriale»;
- nella contrattazione aziendale legare gli aumenti salariali a «parametri di produttività, qualità, redditività, efficienza, efficacia»;
- «superare il biennio economico e fissare la triennalità»;
- rafforzare gli enti bilaterali «anche sui temi del welfare contrattuale».

E, sul piano dei rapporti fra organizzazioni sindacali:
- la certificazione da parte dello Stato del numero degli iscritti alle organizzazioni sindacali, analogamente a quanto già fatto nel Pubblico Impiego;
- il rafforzamento dell’unità fra Cgil, Cisl e Uil stabilendo che nei rinnovi contrattuali le piattaforme sindacali sarebbero state «proposte unitariamente».

Ma a gennaio 2009 questa unità d’intenti venne rotta: Cisl e Uil, insieme all’Ugl, firmarono con le associazioni padronali un “Accordo quadro per la riforma degli assetti contrattuali” che accolse i punti del documento del maggio 2008, escluse la certificazione della rappresentatività e l’unità sindacale, e introdusse per il calcolo del “tasso di inflazione programmata”, stabilito con l’Accordo del luglio 1993 sulla “politica dei redditi”, un nuovo Indice dei Prezzi al Consumo Armonizzato (Ipca) per i paesi dell’Unione Europea, che non avrebbe tenuto conto conto dei prezzi dei beni energetici importati.

La Cgil non firmò adducendo quali motivazioni che:
- il nuovo indice Ipca non avrebbe difeso il potere d’acquisto dei salari, il che era vero, ma lo era già col calcolo dell’inflazione previsto dall’accordo del luglio 1993, che la Cgil allora promosse e firmò;
- l’accordo non favoriva lo sviluppo dei contratti aziendali.

Quindi, evidentemente, la mancata firma non era a difesa del contratto nazionale.

L’offensiva contro i metalmeccanici

Dopo questo accordo fra confederazioni l’iniziativa dell’attacco al contratto nazionale passò alle loro federazioni di categoria.

Il 20 gennaio 2008 Fim, Uilm e Fiom avevano firmato l’ultimo contratto nazionale unitario metalmeccanico, quello per il quadriennio 2008-2011.

A giugno 2009 Fim e Uilm comunicarono la disdetta della parte economica del contratto unitario e ad ottobre ne firmarono con Federmeccanica uno separato, di validità triennale sia per la parte economica sia per quella normativa (2010-2012).

L’assemblea nazionale dei delegati Fiom del 29 ottobre 2009 a Bologna decise allora la rottura del “Patto di solidarietà” con Fim e Uilm.

In base all’accordo sulle RSU del 23 luglio 1993 un terzo dei seggi RSU è riservato alle organizzazioni firmatarie dei contratti nazionali di categoria: un modo per meglio garantire a Fim, Fiom e Uilm il controllo di queste rappresentanze aziendale, privando “statuariamente” i sindacati di base, laddove presenti in azienda, di un terzo dei seggi. In forza del “Patto di solidarietà” i tre sindacati si spartivano ugualmente fra loro quei delegati, ad evidente svantaggio della Fiom.

L’attacco della Fiat

Dopo le manovre confederali e quelle delle loro federazioni metalmeccaniche entrò in gioco la Fiat.

Sabato 16 maggio 2009 si era svolta a Torino una manifestazione nazionale dei lavoratori Fiat indetta da Fim, Fiom, Uilm e Fismic che solo chiedevano, al solito, “chiarezza” sul piano industriale dell’azienda.

Alla manifestazione partecipò un consistente spezzone di operai iscritti allo Slai Cobas, molti dei quali erano parte di quei 316, in buona parte di questo sindacato, trasferiti dalla fabbrica di Pomigliano al reparto “confino” di Nola, a 20 chilometri di distanza, per isolarli e spezzare la forza che lo Slai aveva in quella fabbrica da anni (alle elezioni RSU del 1994 aveva ottenuto circa 1.500 voti, come la Fiom). Questo era avvenuto con un accordo sindacale firmato, oltre che da Fim e Uilm, anche dalla Fiom.

Durante il comizio finale, tenuto dal pianale di un camioncino, i lavoratori dello Slai contestarono i bonzi confederali e cercarono di far parlare il loro responsabile nazionale. Quando finalmente questo riuscì a salire sul camion, il segretario della Fiom Rinaldini, non si sa per quale ragione, ne cadde giù trascinando con sé il microfono. Nacque una parapiglia che inficiò l’efficacia dell’intervento del dirigente dello Slai Cobas, il quale, per altro, aveva cercato di evitare il goffo scivolone del segretario Fiom. I giornali invece fecero passare la caduta come provocata da una aggressione: “I Cobas contro la Fiom. Rinaldini buttato giù dal palco”, titolò la Repubblica. Tesi che i vertici Fiom avvallarono: «Un episodio deplorevole, costruito in modo organizzato; un’aggressione di alcuni teppisti dello Slai Cobas», commentò Giorgio Airaudo, allora segretario generale della Fiom torinese, dal 2010 nella segreteria nazionale e responsabile del settore auto.

Quella di Torino sarebbe stata l’ultima manifestazione di forza dello Slai Cobas.

Il 22 aprile 2010 la Fiat presentò – per la soddisfazione dei sindacati confederali – il piano industriale denominato “Fabbrica Italia”, il quale prevedeva la produzione di 1.400.000 auto nel 2014, con incremento dal 2011, in corrispondenza della ripresa produttiva allo stabilimento di Pomigliano, dopo il rinnovo degli impianti.

Rinaldini – come già aveva fatto nel 2008 – «prese atto positivamente del piano industriale», secondo la tesi fondante del sindacalismo collaborazionista per la quale il sindacato non deve “limitarsi” a difendere il salario, le condizioni di lavoro e l’unità degli operai, ma deve anche esigere e consigliare gli investimenti all’azienda.

Pochi giorni dopo la Fiat dettava le condizioni cui subordinare gli investimenti a Pomigliano, volti ad aumentare sensibilmente lo sfruttamento degli operai. A tal scopo diveniva inservibile la finzione della democrazia in fabbrica, cioè la cosiddetta concertazione, che contestualmente l’azienda pretendeva drasticamente di ridimensionare, facendola divenire aperta collaborazione.

L’amministratore delegato Marchionne – nominato nel 2006 Cavaliere del Lavoro dall’allora presidente della Repubblica Napolitano – espresse efficacemente la sua intenzione di imporre, sul piano delle condizioni di lavoro e su quello delle relazioni fra azienda e sindacati, una svolta storica: «Io vivo nell’epoca del dopo Cristo, tutto ciò che è avvenuto prima di Cristo non lo so e non mi interessa», disse.

Quanto ai livelli produttivi, dopo le 661 mila auto prodotte nel 2009 e le 573 mila nel 2010, si passò a 485 mila nel 2011, 396 mila nel 2012, 388 mila nel 2013 (grosso modo il livello del 1958!), 401 mila nel 2014 e 663 mila nel 2015.

Il 15 giugno, Fim, Uilm, Fismic e Uglm accettavano le condizioni poste dalla Fiat e firmavano l’accordo per Pomigliano che stabiliva: aumento a 18 turni settimanali; aumento dello straordinario obbligatorio da 40 a 120 ore; riduzione delle pause da 40 a 30 minuti; possibilità di spostare la pausa di mezzora per la mensa a fine turno; discrezionalità dell’azienda di non pagare i primi tre giorni di malattia; esigibilità degli accordi, cioè, in caso di mancata adesione all’accordo o della sua violazione, blocco delle prerogative sindacali: versamento delle quote sindacali col metodo della delega, permessi sindacali, possibilità di convocare assemblee retribuite sul posto di lavoro, disponibilità di una bacheca sindacale.

Il XVI congresso della Cgil

Dal 5 all’8 maggio 2010 si era tenuta a Rimini l’assise nazionale confederale a conclusione del XVI Congresso della Cgil, con ospiti invitati, in perfetto stile corporativo, il ministro del welfare Maurizio Sacconi, il presidente della Confindustria Emma Marcegaglia e la ex segretaria dell’Ugl Renata Polverini.

Al Congresso fu approvata una modifica allo Statuto che consentiva al Direttivo confederale di decidere su eventuali accordi interconfederali senza consultare preliminarmente le federazioni di categoria. Strumento che sarebbe stato utilizzato un anno dopo con l’Accordo interconfederale sulla Rappresentanza del 28 giugno 2011.

La mozione congressuale di maggioranza – con primo firmatario il segretario generale Guglielmo Epifani – ottenne l’82% di preferenze.

La corrente di sinistra “Lavoro e Società” appoggiò la mozione di maggioranza, così come già aveva fatto al XV congresso, nel 2006, col cosiddetto “Patto dei 12 segretari” che, in cambio del sostegno alla maggioranza, le dava in garanzia il mantenimento nelle segreterie e nei direttivi della stessa percentuale conquistata nel precedente congresso.

La mozione di minoranza, denominata “La Cgil che vogliamo”, aveva quali primi firmatari il segretario generale della Fiom Rinaldini, l’ex segretario generale della Funzione Pubblica Carlo Podda, e il segretario generale della Fisac, la federazione dei bancari, Mimmo Moccia. Ottenne il 17% dei voti, un risultato che deluse per le aspettative di uno schieramento eterogeneo costituito solo allo scopo di far numero.

Infine il Congresso confermò la carica a segretario generale a Epifani, fino alla scadenza del mandato, a fine settembre 2010, quando gli sarebbe succeduta Susanna Camusso, entrambi compagni dei ministri Sacconi e Brunetta nel Partito Socialista di Craxi all’epoca del primo attacco alla scala mobile, con il decreto di S. Valentino nel 1984.

La Fiom difende la concertazione

La Fiom, che il 1° giugno 2010 aveva eletto a nuovo segretario Landini, alla Fiat rifiutò di sottoscrivere l’accordo di Pomigliano, e per questo fu presentata da stampa e televisione come il solo baluardo a questo storico attacco contro la classe operaia, enfatizzando la sua contrapposizione con la Cgil. Questa invece aveva assecondato il piano Fiat, con la sua struttura provinciale napoletana che indicò di votare a favore al referendum aziendale e con Epifani che infine affermò: «Ad occhio e croce i lavoratori voteranno sì e sarà un sì all’occupazione, al lavoro, agli investimenti».

Ma l’opposizione della Fiom fu solo verbale – e “legale” – senza il dispiegamento di alcun vero movimento di sciopero, né prima del referendum di Pomigliano, che il 22 giugno avallò l’accordo, né nei mesi successivi, per impedirne l’estensione agli altri stabilimenti.

Nemmeno lo Slai Cobas fu in grado di promuovere una mobilitazione generale degli operai del gruppo e dei metalmeccanici, l’unica che avrebbe potuto fermare l’offensiva padronale. Lo Slai era forte a Pomigliano, dove però parte degli operai da mesi lavoravano pochi giorni al mese e gli altri erano in cassa integrazione, ma debole, come il resto del sindacalismo di base, nelle altre fabbriche.

La posizione della Fiom fu subito chiara: «La Fiat riapra la trattativa – disse Landini – siamo disposti a una turnistica massacrante e a una redistribuzione delle pause che aumenti la produzione. Ma sia tolto dal tavolo ciò che mette in discussione i diritti civili dei lavoratori, come l’eliminazione del diritto di sciopero e la malattia» (“La Repubblica”, 2 luglio).

Ad essere messa in discussione, però, non era il diritto di sciopero bensì le prerogative sindacali per quelle organizzazioni sindacali che avessero combattuto gli accordi, scioperando. Una differenza importante: ciò che la Fiom difendeva era il suo posto al tavolo delle trattative e il godimento delle prerogative al pari degli altri sindacati apertamente collaborazionisti; per mantenerli si diceva pronta a cedere sulle condizioni di lavoro degli operai e, molto presto, si sarebbe dimostrata disponibile anche ad accettare la limitazione della libertà di sciopero.

D’altronde non era affatto una novità. Per quanto riguarda il passaggio ai 18 turni giova ricordare che furono applicati per la prima volta a Melfi nel 1993, poi a Termoli nel 1994 e nel 2008 alle Meccaniche di Mirafiori, e sempre col consenso della Fiom. A Melfi si passò dai 18 turni con doppia battuta ai 15 turni nel 2004 solo grazie allo sciopero ad oltranza di 21 giorni degli operai, cui la Fiom non fece che accodarsi.

Dentro la Cgil, intanto, il 6 luglio lo schieramento che aveva sostenuto la mozione di minoranza al XVI Congresso si costituì in area interna “La Cgil che vogliamo”, contando su 27 membri del direttivo nazionale confederale Cgil, sulla maggioranza Fiom – col segretario Landini e il suo predecessore Rinaldini quale coordinatore nazionale – e sulla Rete 28 Aprile di Cremaschi e Bellavita.

Dentro la Fiom il Comitato Centrale del 20 luglio elesse la nuova segreteria nazionale che vide confermata Laura Spezia, uscire Rinaldini e Cremaschi e subentrare Airaudo e Bellavita. Cremaschi fu confermato presidente del Comitato Centrale.

Finta mobilitazione

Sul piano della lotta, solo ben quattro mesi dopo il referendum di Pomigliano, la Fiom organizzò – il 16 ottobre 2010, sabato – una manifestazione nazionale dei metalmeccanici a Roma che, grazie alla grande partecipazione di decine di migliaia di lavoratori, accreditò il suo preteso ruolo di sindacato “duro”.

Ma una manifestazione non è uno sciopero, non colpisce la sola cosa che sta a cuore al padronato: il profitto. Fecero finta di ignorarlo tutti nella sinistra Cgil – e in molti anche a sinistra della Cgil, nel sindacalismo di base – contribuendo così ad accreditare e puntellare la falsa azione difensiva di questo sindacato.

Dal palco fece il suo ultimo comizio da segretario generale Guglielmo Epifani, simbolicamente affiancato da Cremaschi e Landini – e più defilato Bellavita – i quali fecero mostra di applaudire vistosamente i passaggi cruciali del suo discorso e di calmare con ampi gesti i “contestatori”. Il significato era chiaro: anche se la Cgil pugnalava i metalmeccanici – alleandosi a Cisl e Uil al servizio della Fiat e di tutti gli industriali – la sua unità non poteva essere messa in discussione da una lotta veramente a fondo contro la sua direzione antioperaia.

A novembre la Camusso succedette a Epifani, che avrebbe proseguito la sua carriera al servizio della classe dominante in parlamento, in particolare votando a favore del Jobs Act.

L’autunno passò senza che alcuno sciopero fosse organizzato dalla Fiom. Il 23 dicembre 2010 Fim, Uilm, Fismic e Uglm firmarono l’estensione dell’accordo di Pomigliano a Mirafiori, stabilendo di sottoporlo anche qui alla validazione di un referendum, il 14 gennaio. La Fiom questa volta organizzò uno sciopero ma... due settimane dopo, il 28 gennaio!

In Fiat la partita era chiusa, con piena vittoria padronale. Lo sancirono nei mesi successivi due importanti vertenze:
- a maggio, allo stabilimento ex Bertone di Grugliasco (Torino), i delegati RSU Fiom, pur in maggioranza assoluta con otto seggi sui dieci, accettarono l’estensione dell’accordo di Pomigliano;
- a settembre, alla Lear di Caivano (Napoli), azienda dell’indotto, la RSU Fiom non solo firmò un analogo accordo ma, dopo che in questa occasione fu respinto al referendum, grazie all’azione dello Slai Cobas presente in fabbrica, giunse a riproporlo sostanzialmente identico per farlo approvare con una seconda votazione.

Il “doppio referendum” per spezzare la lotta operaia non è una novità nella storia della Fiom e più volte abbiamo ricordato la storica vicenda di Termoli nel 1994, quando l’accordo per il passaggio ai 18 turni, firmato da Fim, Uil e per la Fiom dall’allora responsabile del settore auto Susanna Camusso, fu respinto dai lavoratori nel referendum con il 64% di voti contrari. Nelle assemblee i delegati Fiom, insieme a quelli Fim e Uilm, terrorizzarono i lavoratori avvalorando la minaccia aziendale dello spostamento della produzione del nuovo motore “Fire” a sedici valvole da Termoli a Mirafiori. Per spezzare l’opposizione operaia scesero in fabbrica i segretari generali dei tre sindacati. Queste le belle parole dell’allora segretario generale Fiom Claudio Sabattini: «Se deciderete per il no [come se col referendum gli operai non avessero già deciso!] noi rispetteremo la vostra decisione. Però non si dica che non vi abbiamo avvisato che così veniva distrutta una realtà industriale al Sud» (“La Repubblica”, 15 dicembre 1994).

Almeno oggi Marchionne non ha l’ipocrisia di affermare che in caso di voto contrario rispetterebbe l’opinione espressa dai lavoratori! Fu nel fuoco di quella lotta, l’ennesima spezzata dalla Fiom, che nacque con forza anche a Termoli lo Slai Cobas, con un numero di iscritti uguale a quello della Fiom.

Manovre di rientro

Inferta la sconfitta agli operai in Fiat, padronato e sindacati di regime tornarono a manovrare sul terreno confederale.

Il 28 giugno 2011 Cgil, Cisl e Uil ritrovarono l’unità perduta nel gennaio 2009 siglando con Confindustria un primo Accordo sulla Rappresentanza, che avrebbe trovato sistemazione definitiva col Testo Unico del 10 gennaio 2014.

La Cgil ottenne la misurazione statale della rappresentanza, risultante dalla media fra iscritti e voti alle elezioni per le RSU, e posta a base del riconoscimento della rappresentatività, che era stata esclusa dall’accordo separato del gennaio 2009.

In cambio accettò che:
1) che si andasse oltre a quanto stabilito dall’accordo del gennaio 2009 nell’attacco al contratto nazionale, ampliando lo spettro di materie su cui i contratti aziendali potevano derogare ad esso (tutte tranne i minimi salariali). Se, all’indomani dell’accordo del gennaio 2009, Maurizio Sacconi – allora Ministro del Lavoro del governo Berlusconi – affermò che esso comportava «lo spostamento del cuore della contrattazione dal livello nazionale alla dimensione aziendale e territoriale», si può capire bene come l’accordo sulla rappresentanza del 28 giugno 2011, e le suo versioni successive, inferissero un colpo decisivo al contratto nazionale;
2) che fosse introdotta l’esigibilità degli accordi;
3) che non si facesse menzione dell’indice Ipca, l’unica fra le motivazioni per cui la Cgil aveva rifiutato la firma dell’accordo di gennaio 2009 che interessasse i lavoratori in quanto con esso «il livello nazionale del salario non avrebbe recuperato mai l’inflazione reale», e che ora, sotto silenzio, veniva accettato.

Ciò dimostrò come la ragione per cui la Cgil non aveva firmato l’accordo quadro del 2009 non era perché essa difendesse il contratto nazionale e i salari, ma la possibilità di stare ai tavoli di trattativa con Cisl e Uil, garantita dall’introduzione della misurazione certificata dallo Stato della rappresentanza.

Le deroghe al contratto nazionale e l’esigibilità furono una mano tesa alla Fiat che per applicare gli accordi di Pomigliano e Mirafiori, i quali andavano in deroga al contratto nazionale e introducevano l’esigibilità, aveva costituito due nuove società – le New. Co. – che non avevano aderito a Confindustria e minacciava di farne uscire l’intero gruppo.

Invece, con l’introduzione della misurazione della rappresentanza si offriva alla Fiom la possibilità di tornare ai tavoli di trattativa con Federmeccanica e con Fiat, in quanto primo sindacato nella categoria. Infatti, dopo una iniziale opposizione di facciata, la Fiom accettò l’accordo e poi passò a difenderlo.

Il Comitato Direttivo Cgil del 5 luglio 2011 stabilì una consultazione degli iscritti delle varie federazioni di categoria in merito all’accordo interconfederale del 28 giugno. Il 21 settembre 2011 la Cgil – senza nemmeno attendere l’esito della consultazione referendaria degli iscritti della Fiom – lo ratificò.

Il giorno successivo la Fiom riunì a Cervia l’Assemblea Nazionale dei delegati nella quale la ratifica dell’accordo venne accettata e bocciata la proposta della sinistra di rifiutarsi di applicarlo. La consultazione degli iscritti, completata il 25 ottobre, che vide la vittoria dei contrari all’accordo con il 77% dei voti, non ebbe poi alcun effetto pratico.

All’assemblea di Cervia di settembre fu affrontata un’altra questione cruciale: la definizione della nuova piattaforma contrattuale in vista della scadenza a fine anno del contratto unitario del 2008. Nonostante la disdetta da parte di Fim e Uilm nel giugno 2009 del contratto nazionale e la firma a ottobre 2009 del contratto separato con Federmeccanica, e nonostante gli accordi separati di Pomigliano e Mirafiori, la chiave di volta della piattaforma fu ancora una volta la ricerca dell’unità con questi sindacati ancora più apertamente antioperai. Ciò non poteva avvenire che offrendo nella piattaforma un parziale cedimento alle loro posizioni. La strada della lotta contro Federmeccanica separatamente dagli altri sindacati, minoritari, venne liquidata da Landini come «follia: noi non firmeremo mai un contratto senza Fim e Uilm».

Dal canto suo, la “Rete 28 Aprile”, la corrente più a sinistra nella Cgil, formalmente ancora sciolta all’interno della generale ed eterogenea area “La Cgil che vogliamo”, nonostante la mancata organizzazione di un reale movimento di sciopero nei sei mesi dall’accordo di Pomigliano a quello di Mirafiori, nonostante l’accettazione dell’Accordo sulla Rappresentanza del 28 giugno, che dava un colpo decisivo al contratto nazionale e introduceva l’esigibilità degli accordi, in nome della unità della Fiom votò a favore della piattaforma di compromesso verso Fim e Uilm: fu approvata con 506 voti favorevoli, 1 voto contrario, 7 astenuti.

La Fiat – nonostante l’accordo del 28 giugno che apriva alle deroghe al contratto nazionale e introduceva l’esigibilità – tirò dritto per la sua strada e uscì da Confindustria, e il 13 dicembre estese gli accordi di Pomigliano e Mirafiori a tutte le fabbriche italiane del gruppo con un Contratto collettivo specifico di primo livello (Ccs1L), senza la Fiom, valido dal 1° gennaio al 31 dicembre 2012.

Ugualmente dritto tirarono Fim e Uilm che, ignorando l’offerta della Fiom con la piattaforma approvata a settembre a Cervia, il 22 dicembre firmarono con Federmeccanica un protocollo d’intesa sulla disciplina specifica per il comparto auto, cioè per le fabbriche dell’indotto.

Lo stesso giorno il parlamento approvò la peggior controriforma delle pensioni nella storia d’Italia, e secondo alcuni d’Europa, quella del governo Monti. La Fiom fece finta di contrapporvisi con 8 ore di sciopero. Quanto bastò a distinguersi dalla Cgil che ne proclamò, per le restanti categorie del settore privato, solo tre!

Il Comitato centrale Fiom del gennaio 2012, in riferimento all’estensione a tutte le fabbriche italiane del gruppo Fiat dell’accordo di Pomigliano, con il Ccs1L, recitò: «Tale intesa, firmata anche da Fim-Cisl e Uilm-Uil, si pone al di fuori e in contrasto con l’accordo unitario del 28 giugno 2011». In sei mesi la Fiom quindi era passata dal rigetto di quell’Accordo, al rifiuto di non applicarlo – proposto dalla sua sinistra – una volta ratificato dalla Cgil, alla sua difesa ed utilizzo quale preteso strumento di difesa dei lavoratori.
(Continua al prossimo numero)

PARTITO COMUNISTA INTERNAZIONALE

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