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Se non le donne, chi?

Se non le donne, chi?

(11 Dicembre 2011) Enzo Apicella

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Femminicidio: violenza di genere e sfruttamento di classe

Le colpe del capitale nella violenza sulle donne

(5 Luglio 2016)

I primi sei mesi del 2016 fanno registrare un bilancio drammatico delle vittime di femminicidio e il balletto dei numeri riportati dai media borghesi conferma che la situazione rimane allarmante. Eppure, la neo ministra alle Pari opportunità è intervenuta nel dibattito con una posizione ottimistica, parlando di diminuzione dei reati e di un'opportunità di interventi legata ai fondi previsti nel “pacchetto sicurezza” del 2013. Peccato che i fondi, oltre ad essere insufficienti, siano ancora bloccati e che molti centri anti-violenza che ne avrebbero dovuto beneficiare stiano chiudendo o stiano annaspando tra mille difficoltà.

La violenza di genere: un danno economico collaterale


Dell’esiguità dei finanziamenti per gli interventi contro la violenza di genere e della poca tempestività nell’erogazione, si sono occupate tra il 2013 e il 2014 due interessanti ricerche scientifiche (“Quanto costa il silenzio” e “Rosa shocking”) promosse dall’organizzazione non governativa di cooperazione allo sviluppo Intervita Onlus che dal 1999 si occupa di donne, infanzia e comunità locali in Italia, Asia, Africa e America. Queste due indagini che hanno coinvolto economisti, sociologi, demografi, ricercatori statistici, sondaggisti, hanno affrontato il tema della violenza di genere in Italia per la prima volta in termini prevalentemente economici o, se vogliamo dire meglio, capitalistici, riuscendo a dare un valore approssimativo per difetto ai costi economici e sociali della violenza contro le donne in Italia. Ne emerge un quadro agghiacciante: circa 17 miliardi tra costi sanitari (ricoveri al pronto soccorso e cure successive) e psicologici, per farmaci, per l’ordine pubblico, giudiziari e di spese legali, dei servizi sociali dei Comuni, dei Centri anti-violenza, per la mancata produttività, rispetto ai 12 milioni stanziati per interventi di prevenzione (gli stessi ancora da erogare). Nelle conclusioni delle ricerche, preso atto della difformità dei dati, i membri del Comitato scientifico invitano le autorità a farsi carico maggiormente e con tempestività del problema, sebbene l’invito sia posto molto cautamente dato che le ricerche si sono svolte con il patrocinio del governo.
Tuttavia, nel sistema capitalistico questi 17 miliardi (che non quantificano ovviamente le cicatrici psicologiche e morali delle vittime di violenza) rappresentano un danno collaterale, una perdita ponderata ai fini di un guadagno maggiore. Si dovrebbe provare a quantificare quanto guadagno si ottiene dal mantenimento della differenza di genere e dalle maggiori oppressione e violenza cui le donne sono soggette in questo sistema sia fuori sia dentro le mura domestiche. Per esempio, andrebbe quantificato il guadagno che si origina dal ritiro dello Stato da molti settori strettamente legati al lavoro di cura e dalla sostituzione che le donne effettuano quotidianamente dei servizi pubblici per l’infanzia, dei centri di aggregazione giovanile, dei servizi di assistenza domiciliare per le persone non autosufficienti.

La differenza di genere è funzionale, la violenza contro le donne strutturale


In generale, tuttavia, il guadagno maggiore che il capitalismo trae sta proprio nel mantenimento (ed ora con la crisi economica nell’accentuazione) della differenza di genere. Non c’è possibilità né volontà in questo sistema perché il problema della parità uomo/donna si risolva, e dunque quello della violenza sulle donne.
Questo sistema non può e non vuole risolvere la questione di genere perché su queste differenze si basa il controllo sociale di una classe su un’altra. Le condizioni materiali di una società basata sul profitto e sullo sfruttamento della maggioranza dell’umanità causano questa oppressione e questa violenza, che nessuna ideologia ugualitaria, nessuna propaganda, nessun progetto solidale potranno mai superare.
Gli esseri umani non sono tutti uguali e, dunque, nemmeno, gli uomini e le donne lo sono. Tuttavia, questa differenza, che di per sé non sarebbe un problema, viene utilizzata per sottomettere o mettere in svantaggio le donne. La visione comune e diffusa è che le donne sono nate per essere casalinghe, avere dei figli e prendersi cura della famiglia, e non sono adatte per la produzione sociale e politica; le donne sono “esseri inferiori”, destinate ad essere schiave della casa, a guadagnare meno degli uomini e ad occupare i peggiori posti di lavoro, a farsi carico delle faccende domestiche e ad essere proprietà privata dei mariti e dei compagni; una simile impostazione ideologica finisce col giustificare tutti i tipi di violenza domestica che porta all'omicidio delle donne da parte dei loro compagni.
Le donne ed i bambini sono le principali vittime. I casi di donne picchiate o violentate, di bambini sottoposti ad abusi, aumentano con l’aumentare della crisi. E aumentano anche i casi di aggressioni sessuali sul lavoro, che le donne non denunciano per timore di perdere quella che molte volte è l’unica fonte di reddito familiare.

Uniti per sconfiggere il capitalismo


Alla domanda di un giornalista su da dove fosse necessario partire per intervenire nella situazione attuale, la neo ministra Boschi ha risposto senza esitazione: “dalla famiglia”. Inevitabile e al tempo stesso drammatico. Perché secondo la visione borghese e capitalistica è importante che all’interno della famiglia si riproducano le stesse tensioni ed oppressioni che i proletari nel loro insieme sperimentano nello scontro di classe, senza tuttavia averne consapevolezza. Il capitalismo utilizza ed esaspera la differenziazione dei ruoli per incrementare lo sfruttamento e per rompere l’unità tra i lavoratori.
Per questo motivo riteniamo che le organizzazioni della classe lavoratrice debbano prendere consapevolezza di questo meccanismo e sottrarsene poiché nell’assecondarlo si pongono dalla parte dei loro stessi oppressori. Quando un lavoratore assume le rivendicazioni contro l’oppressione e la violenza contro le donne, indebolisce l’obiettivo dei padroni di dividere per sfruttare. Ad ogni diritto che viene strappato alle donne, viene commesso un sopruso in più ai danni dei diritti di tutti i lavoratori. Per questo, le rivendicazioni volte a migliorare le condizioni di vita e di lavoro delle donne devono essere riprese da tutta la classe lavoratrice. È attraverso l'unità della classe lavoratrice sulla base di una comune posizione di classe indipendente da genere, razza od orientamento sessuale, e con la lotta per le mete comuni del socialismo che si abbatte il pregiudizio. La lotta per il socialismo si basa sul potere dei lavoratori – non maschi o femmine, ma tutti i lavoratori. In questa lotta ogni lavoratore ha un ruolo fondamentale e una vittoria della classe lavoratrice sarà impossibile senza la partecipazione alla lotta da parte delle donne proletarie. Il sistema economico socialista rende impossibili le basi materiali per l'oppressione di genere, e la lotta per instaurarlo abbatterà i pregiudizi sessisti dimostrando nella prassi l'uguaglianza tra uomini e donne.

Laura Sguazzabia - PdAC

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