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(25 Giugno 2011) Enzo Apicella

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Quarant’anni di crisi mondiale del Capitale

(9 Luglio 2016)

Scrivevamo nel Dialogato coi morti, anno 1956, «Il decennio post bellico di avanzata della produzione capitalistica mondiale continui ancora alcuni anni. Poi la crisi di interguerra, analoga a quella che scoppiò in America nel 1929. Macello sociale delle classi medie e dei lavoratori imborghesiti. Ripresa di un movimento della classe operaia mondiale, reietto ogni alleato. Nuovissima vittoria teorica delle sue vecchie tesi. Partito comunista unico per tutti gli Stati del mondo. Verso il termine del ventennio, l’alternativa del difficile secolo: terza guerra dei mostri imperiali – o rivoluzione internazionale comunista».

Questo auspicio – più che profezia – del nostro Partito di allora, dopo altri lunghi sessanta anni non è ancora sciolto. Però una cosa è certa: l’inizio degli anni Settanta ha segnato una delle cesure decisive del XX secolo, con la fine della crescita economica post seconda guerra mondiale e l’inizio di una fase caratterizzata da inflazione, disoccupazione e grandi cambiamenti nelle relazioni economiche e politiche internazionali a colpi di guerre e sconvolgimenti ricorrenti. Comunemente si colloca la presa di coscienza della crisi all’autunno 1973, quando quadruplicò il prezzo del petrolio; per la verità gli elementi che prefiguravano la crisi dell’economia capitalistica erano già presenti nel periodo d’oro della ricostruzione, quello dei cosiddetti “Trenta Gloriosi” (1945-1975): prima di palesarsi come crisi delle materie prime, la crisi si era manifestata nella sua forma monetaria con la fine della convertibilità del dollaro in oro.

L’andamento economico degli anni Cinquanta e Sessanta aveva progressivamente scalzato le basi su cui si reggeva il sistema di Bretton Woods. Il primo segnale si ebbe nel 1959 quando si verificò un disavanzo nelle partite correnti statunitensi, facendo suonare un campanello d’allarme sulla fino ad allora indiscussa tenuta dell’egemonia economica degli Stati uniti, ormai minacciata dalle economie, già disastrate dalla guerra, europee e giapponese, che crescevano a ritmi superiori.

L’architettura finanziaria messa in piedi nel 1944, propedeutica alla creazione di organismi internazionali quali il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, dichiarava l’obiettivo di assicurare la stabilità nella politica monetaria internazionale necessaria per sostenere la ripresa post-bellica. In realtà la Conferenza serviva soprattutto a ratificare la volontà degli Stati Uniti e della Gran Bretagna di mantenersi i vantaggi del vecchio gold standard, per garantire la stabilità dei tassi di cambio e l’aggiustamento tra i paesi in surplus e quelli in deficit nella bilancia dei pagamenti. Per evitare le svalutazioni competitive, si lasciava ai paesi in deficit una certa flessibilità nel ricorrere a prestiti a breve termine presso il Fondo e si concedeva ai governi la possibilità di intervenire sulle politiche di lungo periodo e sui livelli di occupazione e di inflazione.

Allo stesso tempo però si cercava di impedire politiche di tipo protezionistico e controlli troppo restrittivi sui flussi di capitali che impedissero la ripresa del commercio internazionale, esigenza sostenuta in modo particolare dalle banche commerciali americane. Gli accordi prevedevano che il valore del dollaro e della sterlina fossero ancorati all’oro, mentre le altre monete avrebbero rapportato il loro valore a quello dell’oro o del dollaro, con una oscillazione massima dell’1%. Ma se in teoria tutte le valute nazionali stavano su di un piano paritario, nella realtà il dollaro assunse un peso predominante, poiché il ruolo dell’oro come numerario era fittizio dal momento che tutti i paesi scelsero di determinare le proprie parità in dollari. Alla resa dei conti, la stabilità del sistema dipendeva dalla buona volontà degli Stati Uniti di mantenere una base nominale stabile, assumendo il ruolo di creditore internazionale e tenendo sotto controllo il proprio deficit fiscale.

Ma già dal 1958 la bilancia dei pagamenti Usa cominciò a virare verso il rosso a causa del deflusso esterno di capitali, non sufficientemente compensato dalle esportazioni. Per mantenere la preminenza politica e militare a livello mondiale, e nello stesso tempo per impedire che tassi di interesse crescenti rallentassero l’economia, il governo Usa scelse la strada di una politica monetaria espansiva, iniziando a stampare dollari il cui valore era garantito dalle riserve di oro detenute a Fort Knox (sulla decisione pesò non poco la necessità di finanziare i costi della guerra nel Vietnam). Ma la liquidità immessa nel sistema ebbe l’effetto di esportare l’inflazione verso i paesi in attivo, come erano quelli esportatori di petrolio. Non solo, l’impossibilità di svalutare il dollaro produsse una ulteriore perdita di competitività internazionale dei prodotti americani, il che ebbe immediate ripercussioni negative sulle partite correnti. Nello svolto degli anni 1965-66, i profitti delle imprese americane cominciarono a scendere, e con essi gli investimenti netti e gli indicatori della produttività.

I primi venti di crisi spingeranno gli Stati Uniti a ripensare la politica mondiale e mettere in cantiere il progetto di un nuovo ordine economico che farà perno letteralmente sulla “deregolamentazione”, la messa in discussione delle vecchie regole, il cui frutto maturo sarà il cosiddetto “neoliberismo” degli anni Ottanta. Gli Usa affosseranno le regole del vecchio ordine per salvare il sistema monetario internazionale da una crisi ancora maggiore. Di fatto, proprio la progressiva liberalizzazione dei mercati finanziari insieme al superamento del gold standard, ossia del definitivo sganciamento del denaro dall’oro e la fine del sistema regolato dei tassi di cambio, hanno contribuito a procrastinare a lungo lo scoppio della crisi. Ma nello stesso tempo sono state gettate le basi per una enorme bolla di offerta di moneta a cui hanno partecipato attivamente governi, banche centrali e organismi finanziari internazionali.

Il primo sovvertimento importante delle regole va fatto risalire al 1961, quando fu creata una riserva comune di oro – pool dell’oro – che in parte liberava gli Usa della responsabilità del mantenimento del prezzo dell’oro al livello di 35 dollari l’oncia. La fiducia nei confronti del dollaro cominciò a scricchiolare: massicce operazioni di acquisto di oro sul mercato di Londra condussero, nel 1968, alla rinuncia unilaterale degli Usa all’obbligo di vendere oro ai compratori privati al prezzo prefissato. La visita del presidente americano Nixon in Europa all’inizio del 1969 era tesa alla ricerca di un compromesso con la Francia e con gli altri paesi europei perché si astenessero dal convertire in oro i dollari detenuti come riserva dalle autorità monetarie nazionali. Ma i paesi europei si trovavano su posizioni contrastanti: se da un lato la Francia deteneva grosse quantità di oro, Germania ed Italia, al contrario, avevano gran parte delle proprie riserve in dollari. In caso di aumento del prezzo dell’oro la prima si sarebbe trovata in una condizione di vantaggio, le seconde di perdita.

Nonostante i tentativi di arrivare ad un compromesso, già alla fine di marzo il governo americano ventilò l’ipotesi di agire unilateralmente a salvaguardia dei propri interessi nazionali. La combinazione di inflazione interna, deterioramento delle partite correnti e speculazione, creò una situazione alla lunga insostenibile per gli Stati Uniti: nell’agosto del 1971 arrivò la decisione unilaterale da parte di Nixon di bloccare la fornitura di oro anche ai compratori ufficiali, decretando così l’inconvertibilità del dollaro in oro, e di procedere ad una consistente svalutazione della moneta americana allo scopo di recuperare la competitività del sistema industriale nei confronti soprattutto di Germania e Giappone, che si erano sempre rifiutate di rivalutare le proprie monete.

L’oro fu inizialmente rivalutato a 38 dollari l’oncia, quindi a 42 ed infine lasciato libero di fluttuare fino a raggiungere, alla metà del 1973, il tetto di 90,5 dollari. Da quel momento il dollaro valeva di per sé, come puro spirito incorporeo, scisso da ogni riferimento a beni concreti e garantito solo dalla forza politica e militare del governo americano. Non potendo più gli Stati Uniti garantire la convertibilità del dollaro, l’aggancio delle valute occidentali alle riserve auree americane non era più praticabile: di fatto, con quei provvedimenti, si decretò la fine del sistema dei cambi fissi e si passò ad un sistema senza moneta di riferimento.

La spregiudicata operazione di Nixon fu resa possibile anche dalla mancanza di reali alternative al dollaro quale mezzo di pagamento internazionale e moneta di riserva. Non c’era pericolo di una diversificazione delle riserve internazionali in altre valute, anzi le crisi petrolifere del 1973 e 1979, che furono molto più pesanti per le economie europee e giapponese che per quella americana, consolideranno ulteriormente il ruolo del dollaro: cominciava l’era del dollar standard.

In punta di teoria, al ristagno relativo dell’economia americana non era estranea la natura specifica dei rapporti capitalistici, che si oppongono alla realizzazione completa delle potenzialità che lo sviluppo della tecnica e della scienza mette a disposizione delle forze produttive. Secondo Marx, lo sviluppo delle forze produttive sociali è anche il motore dello sviluppo storico, perché attraverso l’acquisizione di nuove forze produttive gli uomini cambiano il modo di produrre e di procacciarsi da vivere e con esso tutto il complesso dei rapporti sociali. Come sistema economico il capitalismo ha la missione storica di portare le forze produttive della società ad un grado di sviluppo sconosciuto ai precedenti modi di produzione. Esaminando il capitalismo da un punto di vista storico e non in termini congiunturali, come invece preferiscono fare gli interessati economisti borghesi, risulta evidente che come sistema storicamente progressivo esso ha raggiunto l’apice del suo sviluppo già da un pezzo. Nel capitalismo, alla base dello sviluppo delle forze produttive è la corsa al profitto: per questo, non appena tale sviluppo entra in conflitto con la necessità assoluta del profitto, il capitale diventa un ostacolo all’ulteriore progresso delle forze produttive. Come è scritto nel Libro I del Capitale «il monopolio del capitale diventa un vincolo del modo di produzione, che è sbocciato insieme ad esso e sotto di esso; la centralizzazione dei mezzi di produzione e la socializzazione del lavoro raggiungono un punto in cui diventano incompatibili col loro involucro capitalistico».

L’orientamento espansivo della politica monetaria della Federal Reserve attuata all’inizio degli anni Settanta ebbe diverse conseguenze: in primo luogo, il deprezzamento del dollaro determinò un sostanziale miglioramento della competitività internazionale dei prodotti statunitensi e quindi un arresto del peggioramento delle partite correnti; in secondo luogo, la spirale inflazionistica impedì il consolidamento della nuova distribuzione del reddito all’interno delle economie capitalistiche, dove il ciclo di lotte operaie aveva spinto i salari verso l’alto, mentre a livello internazionale l’aumento dei prezzi delle materie prime rischiava di drenare ricchezza verso i paesi produttori.

Attraverso gli interventi politici degli Stati, grazie ad un’enorme centralizzazione economica e al crescente ricorso al credito, il capitale seppe dispiegare i mezzi per neutralizzare la crisi, ma al prezzo di utilizzare masse crescenti di plusvalore improduttivamente (come per esempio nella spesa per armamenti, che, se di fatto sostiene la cosiddetta domanda aggregata, in ultima analisi sottrae plusvalore per le crescenti esigenze di sostituzione ed espansione del capitale costante).

La stagnazione economica mondiale provocata dalla crisi di sovrapproduzione dirottò una quota significativa del capitale in eccesso, che non si riusciva più a impiegare produttivamente, nei mercati finanziari internazionali, dove fu investita dapprima e soprattutto sotto forma di prestiti statali e successivamente sempre più anche in titoli azionari e obbligazionari.

Questo scivolamento nella sfera finanziaria è di per sé una forma del tutto normale che assume la valorizzazione del capitale durante le crisi. Già in occasione della crisi del 1857, Marx aveva parlato di “capitale fittizio”, cioè di capitale creditizio e speculativo che agisce solo in apparenza come capitale. Noi sappiamo che gli investimenti sono fatti sempre in funzione di un profitto, ma può capitare che la valorizzazione del capitale risulti insufficiente, dal momento che essa presuppone lavoro sociale impiegato nella produzione di merci e che una parte di esso lavoro venga estratto come plusvalore. Invece il reddito “prodotto” dal capitale fittizio proviene da altre fonti, siano esse tasse o nuovi crediti (come nel caso dell’aumento del debito pubblico), siano esse scommesse sul futuro (vedi le speculazioni di borsa), o siano esse la svendita dello Stato (proventi derivanti dalle privatizzazioni). Questo denaro, che dal punto di vista del creditore appare come “capitale” perché frutta interessi, in realtà è stato già speso da tempo, anche se questo fatto ufficialmente viene rimosso: ciò che conta è che il denaro continui a sgorgare da qualche parte.

Questo sviluppo senza precedenti della speculazione finanziaria abbaglierà la vista agli economisti, che parleranno di finanziarizzazione tout-court, ed impedirà loro di vedere le difficoltà e i limiti del capitalismo che hanno origine nei suoi rapporti di produzione. In linea di principio, il capitale commerciale e quello bancario crescono con il volume della produzione e mediano il processo di riproduzione del capitale, ma il momento della circolazione non porta alla creazione di nuovo valore bensì soltanto alla sua realizzazione, sicché è strutturalmente dipendente dal capitale produttivo di merci: è un suo semplice prolungamento, anche se esteriormente si autonomizza. Un’accelerazione febbrile degli scambi, in una fase di congiuntura favorevole, porta alla moltiplicazione delle operazioni di compravendita e del credito, agendo come stimolo alla funzione di mezzo di pagamento del denaro.

L’autonomizzazione esteriore del capitale commerciale e bancario ha l’effetto di farli muovere al di là dei limiti imposti loro dalla riproduzione del capitale industriale, violando la dipendenza interna che li lega a quest’ultimo. Perciò la loro connessione intrinseca dev’essere ristabilita attraverso una crisi commerciale e bancaria (o finanziaria), forme apparenti della crisi reale. Come afferma Marx nel Terzo Libro del Capitale: «Il credito accelera le eruzioni violente della contraddizione – la crisi – e, pertanto, gli elementi di disintegrazione dell’antico modo di produzione. Il sistema del credito appare come il primo livello di sovrapproduzione e sovraspeculazione nel commercio perché una parte più grande del capitale sociale è impiegato da soggetti che non ne sono i proprietari e che, conseguentemente, lo vedono in maniera differente dal proprietario (...) Ciò dimostra semplicemente che l’auto-espansione del capitale permette un libero sviluppo reale solo fino a un certo punto, sicché, di fatto, costituisce un freno e una barriera posti dalla produzione che sono continuamente trasgrediti dal sistema del credito».

Anche Henry Grossmann aveva criticato i tentativi di separare la speculazione dalla crisi della produzione. Alla fine degli anni Venti scriveva che «la speculazione permette ai capitali sovraccumulati una “accumulazione” lucrativa (...) tali guadagni non provengono dagli utili ma sono trasferimenti di capitale. L’economia politica borghese non vuole vedere tali connessioni. Essa osserva solo i fenomeni così come si presentano alla superficie e si perde perciò nell’apparenza. Perché il capitale è esportato? Perché si acquistano sempre più titoli stranieri?... Con l’avanzamento dell’accumulazione di capitale e con l’aumento della massa dei grandi e piccoli capitali, la necessità dell’estensione della speculazione borsistica si presenta a larghe masse di capitalisti, dato che la massa dei capitali che rimangono inoperosi durante la crisi e la depressione sono ogni volta maggiori» (“La legge dell’accumulazione e del crollo del sistema capitalista”).

La bolla del capitale fittizio dà così agli investitori una possibilità alternativa di guadagno, oltre a servire da un punto di vista più generale a procrastinare lo scoppio della crisi. Il ricorso ai mercati finanziari non solo cela la difficoltà di valorizzazione del surplus di capitali ma crea anche potere d’acquisto addizionale. In questo senso, il capitale fittizio è tutt’altro che un peso morto che grava sull’economia cosiddetta reale frenandola nel suo funzionamento; al contrario, esso consente lo svolgimento delle normali attività capitalistiche. Di fatto, il processo speculativo è stato il palliativo all’eccesso di capitale degli anni Settanta, anche se il lungo differimento della crisi finirà inevitabilmente per generare una moltiplicazione dei suoi effetti in proporzioni imprevedibili.

La crisi è sempre una manifestazione della caduta più o meno accentuata del saggio di profitto nella sfera della produzione, che ostacola o impedisce la riproduzione di tutta la massa di capitale e spinge il capitale alla spasmodica ricerca del profitto a qualsiasi costo, non importa se mediante un maggiore sfruttamento dei lavoratori oppure a spese dei rivali capitalisti. La speculazione, gemella inseparabile della crisi, è il risultato di una valorizzazione fittizia del capitale che non dà luogo ad alcun accrescimento della ricchezza materiale.

Sbaglia chi ritiene che l’attuale fase di crisi internazionale sia il segno di un collasso recente, dopo il decennio degli anni Ottanta impropriamente ritenuto di ripresa o sviluppo, o peggio ancora dovuta alla più recente bolla dei cosiddetti subprime. Il processo di turbolenza del mercato mondiale iniziato negli anni Sessanta e che nel giro di pochi anni fece saltare gli equilibri postbellici fondati sugli accordi di Bretton Woods allunga la sua ombra anche sul nostro tempo: quegli equilibri da allora non sono stati ristabiliti mai più, anzi possiamo dire che essi potranno essere ripristinati, naturalmente su altre basi, soltanto quando e se l’imperialismo sarà in grado di imporre, mediante la forza, in un generale regresso della storia, la distruzione della enorme sovrapproduzione di merci, sacrificio imposto alla classe operaia dai bisogni di valorizzazione del capitale.

La forma che lo sviluppo del capitale assume in ciascun momento storico condiziona il carattere e la profondità delle sue crisi, come pure il ruolo politico che esse possono svolgere: distruggere le forze produttive e restaurare le condizioni di valorizzazione del capitale, oppure creare – come noi ci auguriamo – le condizioni per la distruzione degli attuali rapporti di produzione.

PARTITO COMUNISTA INTERNAZIONALE

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