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(3 Febbraio 2012) Enzo Apicella

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Vacillano le impalcature del capitalismo mondiale

(1 Agosto 2016)

Nel lontano 1973, dopo lunghi negoziati, il Regno Unito decise l’ingresso nella Comunità Economica Europea. A suggello delle dinamiche economiche sottese a quella storica decisione, e negli scontri tra le diverse correnti politiche inglesi, un referendum popolare nel giugno 1975, stravinto dai favorevoli alla permanenza nella CEE, chiuse il discorso uscita, propugnato essenzialmente dal Partito Conservatore. Ironia delle vicende storiche!

Ma tutta la permanenza della Gran Bretagna nel Sistema Europa si è caratterizzato con una costante divergenza di posizioni su questioni fondamentali tra i diversi partiti inglesi, ed al loro interno tra le varie correnti. Tutta una facciata, verrebbe da dire, per spuntare nei negoziati condizioni più favorevoli rispetto agli obblighi imposti da trattati e regolamenti. Cosa che è riuscita benissimo in oltre 40 anni di partecipazione.

La UE, con tutta la sua debolezza e divisioni, ha costituito per decenni un polo di stabilità politica e militare per l’Europa, un mercato aperto che, nelle speranze delle borghesie aderenti, avrebbe dovuto garantire, pur sotto l’occhiuto dominio dei più forti ed attrezzati, un bacino quasi illimitato per le proprie merci ed una protezione dall’esterno. Nelle sue impostazioni era anche prevista una regolamentazione del mercato dei capitali per dargli, se non un minimo di razionalità, un controllo della feroce concorrenza.

Naturalmente questa opera inane e gigantesca è andata avanti tra mille difficoltà ed inciampi. Così, nei suoi ancora 27 Stati aderenti, si è strutturata con un insieme di regole ed eccezioni, di inclusioni e esclusioni, di accettazioni parziali di accordi e trattati. In particolare per la Gran Bretagna, un “socio” talmente importante che gli strappi nei negoziati sono stati accettati senza troppi distinguo.

Ma a far data dai primi anni 2000, fino alla svolta del 2008, con la deflagrazione di una crisi generale del sistema capitalistico che si è manifestata nella sua struttura finanziaria, la forma di un apparato europeo sovranazionale ha mostrato quanto fosse intrinsecamente debole ed illusorio. Incapace, e non poteva essere altrimenti, di una politica unitaria od almeno concordata, le fratture oggettive tra gli Stati aderenti si sono manifestate senza rimedio.

E il procedere in ordine sparso, o meglio unilaterale, ha naturalmente operato in funzione del più forte. Rigorosa e decisa verso gli altri, custode delle regole per i sistemi bancari degli altri, la Germania ha tranquillamente violato le “regole” finanziarie per i propri istituti bancari, adattato i vincoli ai propri interessi nazionali.

La Gran Bretagna ha mantenuto la sua divisa nazionale, riservandosi il diritto di una politica più sciolta da quella di marca tedesca; ma la necessità di una svalutazione nei confronti dell’Euro più decisa di quella permessa dagli accordi ha dato la spinta a chiudere la partita. Il contratto della UE è stretto per molti, tanto da rappresentare, a questo punto della crisi mondiale, una camicia di forza per gli Stati a maggior sviluppo capitalistico-finanziario. La coabitazione di Germania e Gran Bretagna, sia pur con tutta la riduzione dei vincoli a questa concessa, è diventata sempre più difficile.

Uno strumento, un casus belli, doveva essere trovato per disarticolare, o almeno allargare le sbarre di questa gabbia. Poteva essere un referendum come quello del ’75, o quello della Danimarca del ’92 che bocciò l’adesione al Trattato di Maastricht; potevano essere le diversità di politica estera. Per questioni apparentemente interne al partito di governo l’occasione è stata trovata in sede “democratica”, con grande giubilo dei piccolo borghesi anti-UE che si sono figurati chissà quali “voti di protesta”, se non addirittura “di classe”.

E tocca leggere anche ignobile letteratura che osa definirsi “di sinistra” ed afferma senza vergogna che il voto per l’uscita è un evento “progressivo” in termini di classe, quando pervenuto dai distretti più poveri del proletariato e sottoproletariato, perché di protesta contro le disperate condizioni di vita degli strati più bassi della popolazione. Senza dubbio motivata quella protesta, ma non certo da prendere a riferimento di una risorgente coscienza di classe, anzi!

Il referendum non è stato un “incidente”, un “errore” dei governanti; né una sorta di rinsavimento e risveglio dei massacrati dalle “riforme” dell’era Thatcher e dai “perfezionamenti” di Blair. Avrebbe potuto avere esito diverso, ma la freccia storica è puntata in quella direzione: e se dalle urne fosse uscita l’indicazione “restare”, lo Stato britannico avrebbe trovato un altro pretesto per uscire.

Facile per la massa di sciocchezze della nauseante propaganda che ha preceduto e poi seguito il referendum imputare tutti i danni alla forma chiaramente oligarchica e chiusa di un “comitato” direttivo di non eletti, svincolato da ogni democratico controllo popolare e ammantato dalla più sfrenata ideologia liberista. È vero, la testa pensante della UE è finanziaria e non politica. Se il parlamento europeo è una ignobile accozzaglia di nullafacenti peggiore dei parlamenti nazionali, tutto dire, una struttura senza alcun potere oggettivo, parimenti i parlamenti, e anche i governi tutti hanno demandato il controllo della macchina statale al sistema finanziario – cioè ad una struttura di controllo pervasiva ed anonima che rappresenta l’ultima forma che il percorso storico del Capitale ha generato.

Analogamente, questo stesso anonimo comitato di affari, sovranazionale nella sostanza se non nella forma, opera con provvedimenti sempre più faticosi ed inefficaci per tamponare la violenza della crisi. Questa sovrastruttura politico-economica, volontaristica ed ideologica, si impone alla dinamica di governi e Stati.

Ugualmente antistorica ed impotente l’idea che, finalmente libera dalle pastoie comunitarie, la Gran Bretagna possa riprendersi dalla crisi sociale nella quale è precipitata dopo la cura liberista Thatcher-Blair, con la possibilità di riallineare i corsi dei cambi della sterlina, di riprendere un’autonomia politica economica, commerciale, fiscale, ecc. Tutte falsità interessate che attribuiscono alle sole politiche economiche imposte dalla UE i disastri sociali che hanno martoriato le classi inferiori; sì che, liberatisi da quella, strumento di banche, finanza e perfida Germania, il futuro nazionale si ripresenterebbe pieno di possibilità di rinascita e benessere.

La dinamica sociale evolve verso la sconfitta di ogni illusione socialdemocratica e di progresso con la rovina di amplissima parte del corpo sociale. Ma non sarà perché sarà venuto a mancare l’effetto ombrello dell’Unione, che è, è bene tenerlo sempre a mente, costruzione borghese, capitalistica e finanziaria oggettivamente e necessariamente anti proletaria.

Le preannunciate e temute reazioni negative, le tragedie economiche e finanziarie minacciate dalla parte dei borghesi pro-Europa, si verificheranno di certo, ma non a causa dell’abbandono dell’accogliente “casa comune” – nido di vipere di lobby grandi-capitalistiche – ma perché tutte già presenti nell’asfittico e marcio sistema economico-finanziario, mondiale, europeo e d’oltre Manica.

Già ha iniziato a vacillare il sistema dell’immobiliare, su cui si fonda tanta parte del capitale fittizio. Se da un lato la deregolamentazione selvaggia del mercato dei capitali potrebbe avvantaggiare la piazza di Londra su quelle continentali, dall’altro, malgrado la ”svalutazione competitiva” su cui punta disperatamente il capitale inglese, il futuro per l’industria ed il commercio appare in difficoltà sotto la spinta di una feroce concorrenza.

L’economia britannica si sostiene sugli strumenti finanziari dell’immobiliare e si fonda su un indebitamento enorme delle famiglie – debito privato e non pubblico! – e caratterizza una fragilità sistemica per la Gran Bretagna. Un potenziale crack di questo fondamentale comparto risulterà fatale, sommato all’estrema fragilità del sistema bancario di tutta Europa.

Dappertutto il capitale finanziario ha fatto aggio su quello produttivo. Se per l’esausta UE noi non teniamo in nessuna importanza i nomi dei cosiddetti Grandi, finanzieri, gestori di Fondi, governatori di Banche centrali, Board vari e così via, per gli Stati ugualmente nulla ci interessano partiti, capi di governo, politicanti vari. Parlare di una “Europa delle genti” contrapposta ad un’Europa delle élite finanziarie e capitalistiche, che dovrebbe reagire e riconquistare la violata democrazia, è velleità reazionaria piccolo borghese.

Questa situazione, già da tempo matura ancor prima della ormai consumata oscena vicenda referendaria Esco-Rimango, ma non ancora conclusa con l’abbandono formale, sarà prodromo alla rottura dell’intera impalcatura comunitaria, che non può essere mantenuta con l’aggravarsi della crisi del capitalismo, e col progredire dell’infrangersi di tutti gli equilibri economici, commerciali, politici e militari stabilitisi all’indomani della seconda guerra.

Partito Comunista Internazionale

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