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Ventiquattro ore senza di noi

Ventiquattro ore senza di noi

(1 Marzo 2010) Enzo Apicella
Sciopero generale dei lavoratori migranti

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(L'unico straniero è il capitalismo)

Le migrazioni di una classe di senza patria

Parte seconda

(1 Agosto 2016)

Nel primo capitolo abbiamo visto come il Capitale riesca a far soldi anche approfittando di un flusso migratorio inatteso e travolgente. In questo secondo capitolo descriveremo come anche la normale emigrazione sia regolata da entrambi gli Stati, quello di ingresso e quello di uscita, affinché possano beneficiarne e alimentare il Capitale: lavoro a basso costo da un lato, rimesse e smaltimento della “eccedenza umana”, fertile terreno per la lotta di classe, dall’altro. L’emigrazione è uno degli strumenti da sempre utilizzati, anche in periodi di crisi, per il governo del mercato del lavoro a totale beneficio delle borghesie nazionali, sulla pelle dei proletari.

In precedenti studi, tra cui “Ogni lavoratore è un lavoratore straniero” dell’aprile del 1975 e “La classe operaia è una classe di emigranti” del 1976-78, ai quali rimandiamo, descrivevamo i meccanismi che regolano il fenomeno della emigrazione. Mettevamo in risalto, oltre la speculazione economica, quella politica e “moralistica” dei borghesi, inclusi quelli di “sinistra” che con la loro schiera di sindacati e organizzazioni “umanitarie”, si danno da fare affinché i proletari immigrati e gli autoctoni siano mantenuti in competizione e non fraternizzino, con il rischio di loro lotte comuni.

«Lo Stato “italiano” è sempre stato subordinato agli interessi dell’imperialismo internazionale. Borghesia e organizzazione statale lottano per i privilegi e i vantaggi del capitale nazionale, aiutati e consigliati da tutto l’apparato dei partiti e delle organizzazioni sindacali. Se è vero che “almeno 4 milioni di persone in eccesso” nel 1945-49 sono troppo pericolose, è necessario trovare dei “piani realistici” per liberarsi da una parte dal soprannumero di forza lavoro, dall’altra fare in modo che la grande maggioranza degli operai ora “improduttivi” sia trasformata in operai “produttivi”. Per cui l’improduttività nazionale della “fanteria leggera del capitale” diventa produttività per il capitale. La disoccupazione diventa così esportazione di capitale variabile, cioè forza lavoro, che sarà venduta come una qualsiasi merce sul mercato internazionale; la disoccupazione si trasforma in emigrazione la quale permette di avviare la ripresa e la ricostruzione dell’economia capitalistica» (“Il Partito Comunista” n. 28 del 1976).

immigrati in fabbrica

La regolamentazione dei flussi

L’odierno glossario borghese divide anche gli immigrati extracomunitari fra di loro: è “regolare” lo straniero che ha il permesso di soggiorno, “irregolare” se ha perduto i requisiti per la permanenza sul territorio nazionale, come il permesso di soggiorno scaduto, “clandestino” chi è entrato in Italia senza regolare visto di ingresso.

Il permesso di soggiorno per motivi di lavoro è rilasciato a seguito della stipula di un contratto di lavoro. Il datore di lavoro deve garantire la disponibilità di un alloggio e l’impegno a pagare le spese del viaggio di rientro. La durata del permesso di soggiorno è quella prevista dal contratto, ma non può superare nove mesi se in relazione a contratto di lavoro stagionale; un anno in caso di contratto a tempo determinato; due anni se a tempo indeterminato.

Il numero degli stranieri che possono entrare in Italia per motivi lavorativi è rigidamente fissato, secondo i bisogni del Capitale, in appositi decreti, i cosiddetti “decreti flussi”, emanati sulla base delle indicazioni fornite dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.

Nella determinazione dei flussi si possono stabilire quote preferenziali a favore degli Stati con i quali l’Italia abbia concluso specifici accordi bilaterali, ovvero restrizioni contro quelli che non collaborano nel rimpatrio dei propri cittadini.

Il decreto flussi per il 2015 prevedeva 17.850 mila posti. In realtà la maggioranza di questi (12.350, quasi il 70%) sono stati destinati agli immigrati già presenti in Italia ma con permessi di soggiorno di altro tipo. Gli ingressi dall’estero, invece, sono molto meno: 5.500, di cui 2.000 previsti per l’Expo.

Gli ingressi (escluso i 2.000 assicurati all’Expo) sono stati: 1.000 che avevano completato programmi di formazione nei Paesi d’origine; 2.400 lavoratori autonomi, cioè imprenditori, liberi professionisti, dirigenti; 100 lavoratori con parenti di origine italiana. Questi dati parlano da soli.

Riguardo invece la conversione in permessi di soggiorno per motivi di lavoro per gli immigrati già presenti in Italia ma con permessi di soggiorno di altro tipo, il decreto prevedeva per il 2015: 4.050 permessi di soggiorno per lavoro stagionale; 7.050 permessi per studio, tirocinio e formazione professionale; 1.250 per permessi rilasciati da altro Stato dell’Unione europea.


Gli immigrati “regolari”

Quanti sono gli stranieri “regolari” attualmente in Italia e quale i loro paesi di provenienza?

Stranieri residenti al 1º gennaio
Anno Numero Anno Numero
2002 1.341.209 2009 3.402.435
2003 1.464.663 2010 3.648.128
2004 1.854.748 2011 3.879.224
2005 2.210.478 2012 4.052.081
2006 2.419.483 2013 4.387.721
2007 2.592.950 2014 4.922.085
2008 3.023.317 2015 5.014.437

Secondo i dati Istat relativi al bilancio demografico nazionale, alla data del 1° gennaio risultavano regolarmente residenti in Italia 4.922.085 cittadini stranieri, corrispondenti all’8% della popolazione residente totale, con un incremento rispetto all’anno precedente del 12%. Al 1° gennaio ne risultavano 5.014.437, con analogo incremento dell’1,8%. Dunque, la crescita continua ma si è fortemente rallentata.

L’incremento della popolazione straniera residente è dovuto sia al saldo migratorio positivo tra immigrati ed emigrati, sia all’eccesso dei nati sui morti: i nuovi immigrati sono in calo da alcuni anni (da 530.456 nel 2007 a 248.360 nel 2014), ma continuano a superare gli emigranti; per quanto riguarda il saldo naturale, nel corso del 2014 ci sono stati 75.067 nati stranieri (in diminuzione rispetto ai due anni precedenti) contro 5.792 morti.

I principali paesi di provenienza sono riportati in tabella con le relative presenze nel 2008 e nel 2015. Le comunità elencate sono quelle che superano i 50.000 residenti nel 2015 e complessivamente costituiscono oltre 83% degli immigrati in Italia.

Stranieri regolarmente residenti al 1º gennaio
Paese di cittadinanza 2005 Variazione % 2015
Romania 248.849 355 1.131.839
Albania 316.659 55 490.483
Marocco 294.945 52 449.058
Cina 111.712 138 265.820
Ucraina 93.441 142 226.060
Filippine 82.625 104 168.238
India 37.971 289 147.815
Moldavia 54.288 171 147.388
Bangladesh 35.785 222 115.301
Perù 53.378 105 109.668
Egitto 52.865 96 103.713
Sri.Lanka 45.572 121 100.558
Polonia 50.794 94 98.694
Pakistan 35.509 171 96.207
Tunisia 78.230 23 96.012
Senegal 53.941 74 94.030
Ecuador 53.220 72 91.259
Macedonia 58.460 33 77.703
Nigeria 31.647 125 71.158
Bulgaria 15.374 268 56.576
Ghana 32.754 54 50.414

Si nota che i paesi di provenienza dei migranti “economici” (noi preferiamo dire per fame) inseriti regolarmente nel mercato del lavoro sono per lo più diversi dai quelli di chi sbarca clandestino e che, fuggito per motivi di guerra, è destinato al calvario descritto nel primo capitolo, altrimenti al lavoro in nero o al rimpatrio.

La stampa borghese (in questo caso Il Sole 24 Ore) ci riferisce che: «Il catalogo dei rilievi Ocse parte dal fatto che l’Italia sia ancora caratterizzata da una vasta area di lavoro in nero, che l’organizzazione stima al 10% dell’economia nazionale, ma anche da grandi sacche di lavoro precario e temporaneo. Per gli immigranti, ciò significa lavoro non documentato e non tutelato (...) Tra il 2007 e il 2012, la disoccupazione fra gli immigrati uomini è cresciuta dal 5,3 al 12,6%. L’Ocse suggerisce il riassorbimento dei disoccupati già presenti sul territorio, prima di reclutare forza lavoro dall’estero, nonché la limitazione dei permessi di soggiorno per gli immigrati di età inferiore ai 18 anni, che non abbiano compiuto la scuola secondaria di primo grado».

L’OCSE fa il suo lavoro al soldo dei padroni europei. Questi sono in concorrenza fra loro e l’Ocse certamente non ignora quanti soldi portano gli immigrati allo Stato italiano e quanto poco qui costi il loro lavoro ai capitalisti.

Secondo il Dossier Statistico Immigrazione 2014 (è la fonte, borghese, più autorevole di dati sulle migrazioni) il costo complessivo della presenza dei migranti in Italia è, al 2012, di 12,6 miliardi di euro (+0.7 rispetto all’anno precedente), così ripartiti: Sanità 3,7; Scuola 3,5; Servizi sociali 0,6; Casa 0,4. Sommando altre voci minori si arriva ad un totale uscite nel 2012 di 12,6 miliardi. Nel 2011 era stato di 11,9.

Ma gli immigrati, oltre ad usufruire dei servizi sanitari e scolastici, producono plusvalore e pagano le tasse. Nel 2012 solo le entrate per l’Erario sono state di 16,5 miliardi di euro (+3,2 miliardi rispetto all’anno precedente). Sommando i contributi previdenziali di 8,9 miliardi, il totale delle entrate nel 2012 è di 16,5 miliardi. Nel 2011 è stato di 13,3.

Quindi la differenza tra entrate e uscite per lo Stato è stata di 3,9 miliardi (+2,5 rispetto all’anno precedente).

Ma ci sono altre entrate. Bisogna aggiungere i fondi che l’UE versa all’Italia in misura proporzionale al numero di immigrati: a dispetto della propaganda anti-europea, nel quadriennio 2007-2011 l’UE ha versato all’Italia 2,36 miliardi.

Ci sono poi i contributi previdenziali, che sono in crescita: +1,9 miliardi rispetto al 2011. Data l’età media dei lavoratori immigrati, più bassa degli italiani, assicureranno molti anni di versamenti alle Casse. Come si legge nella ricerca del CNEL e del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali “Il ruolo degli immigrati nel mercato del lavoro italiano (2012)”: «la differenza tra i benefici sociali ricevuti e le imposte pagate rispettivamente per le due popolazioni (gli immigrati e gli autoctoni) non mostra un maggior ricorso al welfare da parte degli immigrati. Ciò risulta particolarmente evidente qualora si considerino i benefici legati all’anzianità: in questo caso, infatti, i dati evidenziano un trasferimento netto di risorse dagli immigrati agli italiani».

Soprattutto, gran parte di questi contributi non si trasformerà mai in pensione. Gli immigrati infatti matureranno al 65° anno di età una pensione proporzionale ai contributi versati, a condizione che abbiano raggiunto i 20 anni di contribuzione. Nel caso l’immigrato faccia ritorno al paese d’origine, i contributi non potranno seguirlo (per effetto della legge 189/2002), ma resteranno in Italia. Se avrà versato contributi per meno di 20 anni, oppure se tra il suo paese e l’Italia non esiste una convenzione bilaterale (che l’Italia sarebbe tenuta a stipulare con tutti i paesi, ma che è molto restia a stipulare), o se sarà incorso in qualche intoppo burocratico senza saperlo, quei contributi, che sono a tutti gli effetti suoi, non gli frutteranno alcun beneficio, e resteranno a rimpinguare il bilancio dell’Inps.

Ovviamente immigrato non è sinonimo di proletario: si contano in Italia 497.080 imprese intestate a soggetti nati all’estero, che impiegano circa 300.000 dipendenti (elaborazione della Camera di Commercio di Milano su dati del Registro delle Imprese); di questi circa 200.000 sono italiani.


L’importanza delle rimesse

Accanto ai benefici che gli immigrati apportano al borghese Stato italico, tramite le rimesse danno un grande contributo non solo alle loro famiglie ma anche agli Stati borghesi di provenienza. Questi grandi flussi di ricchezza sono spesso una spinta verso la modernità nei paesi di origine.

Lo Stato italiano infatti interveniva a tutela delle rimesse (e non certamente dei suoi proletari emigrati), sollecitato dai partiti sedicenti rappresentanti della classe operaia e dei loro apparati sindacali impegnati a mantenere la pace sociale.

“Il Sole 24 Ore” scrive: «Cosa sono le rimesse? Invii di denaro alle famiglie in patria. Effettuate in valuta dei paesi ricchi, costituiscono un prezioso contributo al riequilibrio della bilancia dei pagamenti dei paesi poveri che da quelli devono importare materie prime e macchinari. Fondamentali per il primo decollo industriale italiano furono le rimesse nel decennio giolittiano (1903-1914)». Da “Il Brigantino” leggiamo: «Dell’età giolittiana resta impresso nella memoria il fatto che la moneta nazionale faceva aggio sull’oro (1909), vale a dire che la valuta circolante era proporzionale alle riserve auree del Regno. Ciò accadeva in Italia, nei principali Paesi europei e negli U.S.A., facilitando le transazioni ed i commerci internazionali mediante la stabilità delle monete e la certezza dei cambi tra diverse valute. Tale risultato venne ottenuto ad un costo umano incalcolabile. Dall’inizi del 1900 circa dieci milioni di italiani, nessuna regione del Bel Paese esclusa, lasciarono l’Italia per emigrare, principalmente verso l’America, sia negli Stati Uniti che in Perù, Argentina e Cile (...)

«Gli emigranti costituirono una solida base per la politica giolittiana, il cui disegno si fondava sullo stimolo e la protezione industriale, la protezione e la difesa del Bilancio del Regno, l’eliminazione del monopolio da parte dei privati e sull’opposizione alle forze finanziare estere. Da un lato, infatti, l’emigrazione risolveva drasticamente problemi sociali incombenti ed enormi, semplicemente espellendoli dal Paese, dall’altro il governo poté contare sull’enorme massa di valuta pregiata che gli emigrati stessi inviavano in Italia alle loro famiglie».

Venendo all’oggi, da “Il Sole 24 Ore” leggiamo: «Secondo uno studio di Eurostat l’Italia è il secondo paese UE per le rimesse degli immigrati inviate nei rispettivi paesi d’origine, ed è anche il quinto per quelle ricevute dagli italiani residenti all’estero. Nel 2013, dice Eurostat, 6,7 miliardi di euro sono usciti dall’Italia e 2 miliardi sono entrati, con un saldo negativo di 4,7 miliardi che è il secondo maggior deficit tra i paesi europei».

La stampa borghese punta il dito sulle rimesse in uscita maggiori di quelle in entrata. Ma sul “Corriere della Sera” di luglio 2014 notiamo una contraddizione: «Cosa succede agli italiani che hanno cercato fortuna all’estero? Anche se ormai i risparmi rimpatriati pesano in misura inferiore al passato sulla bilancia dei pagamenti e sui conti economici nazionali, in passato hanno rappresentato una fonte di ricchezza non indifferente».

Rimesse in Italia
(mil.€)
1947 183
1950 791
1960 3.000
1968 5.000
2001 359
2010 435
2011 478
2012 486
2013 486

Tabelliamo qui noi le cifre delle rimesse in entrata in Italia riportate dall’articolo, in milioni di euro, dal 1947 al 2013:

La differenza è che mentre la emigrazione odierna degli italiani si connota fondamentalmente come “fuga di cervelli” (ma pur sempre puri proletari sono), l’immigrazione ha invece gli stessi connotati della migrazione italiana in età giolittiana.

La crisi però colpisce duro le rimesse degli immigrati: negli ultimi due anni, i trasferimenti di denaro verso l’estero sono crollati di oltre un quarto. La media mensile delle rimesse, dopo aver raggiunto un picco sopra i 600 milioni di euro nel 2011, è crollata nel 2013 e nel 2014 ad un livello pari a 440 milioni di euro (-27%). Il crollo è avvenuto quindi in un arco temporale molto breve. Tuttavia nello stesso periodo il numero di immigrati è andato aumentando (da 4,57 milioni nel 2010 a 4,92 milioni nel 2013, + 7,7%), quindi le rimesse pro-capite si sono ridotte in maniera ancora maggiore (da 1.618 euro nel 2011 a 1.084 euro nel 2014).

Incrociando i dati della Banca d’Italia sulle rimesse con i dati Istat sull’immigrazione è possibile calcolare il dato pro-capite disaggregato per i paesi di origine.

Colpisce il crollo verticale delle rimesse verso la Cina: dai 2.537 milioni di euro del 2011 agli 819 milioni del 2014. Da notare che nel frattempo i cinesi residenti in Italia sono cresciuti del 22%, riducendo le rimesse pro-capite di un impressionante -73,6%.

Se il caso della comunità cinese è eclatante, il segno meno lo troviamo in quasi tutte le righe, con cali percentuali pro-capite a doppia cifra. Unica eccezione, tra le prime venti comunità, quella pakistana. L’entità dei cali e la loro distribuzione generalizzata tra tutte le comunità rende meno plausibile una spiegazione basata su forme non registrate di trasferimento di denaro all’estero.

(Continua al prossimo numero)

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