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(2 Agosto 2016)
Ricorrono domani 2 Agosto i 36 anni dalla strage fascista della stazione di Bologna.
Come ogni anno questa risulta essere una scadenza da ricordare assolutamente allo scopo di non smarrire una memoria fondamentale per storia del nostro Paese, una storia tormentata e drammatica.
In un momento di vero e proprio smarrimento che percorre l’intero sistema politico di cui gli attori non paiono proprio rendersi conto racchiusi all’interno di logiche auto conservative che riguardano maggioranza, opposizione, presunti nuovi soggetti, rottama tori e quant’altro ,l’occasione risulta così utile per svolgere un tentativo di schematica ricostruzione storica di quel periodo da sviluppare con un duplice intento: quello del mantenere la memoria e quello di stimolare ulteriori ricerche rispetto a un quadro che complessivamente appare ancora oscuro e pieno di ombre.
Obiettivo: la difesa della democrazia, anche attraverso lo strumento di una memoria indagatrice dei lati oscuri della storia.
Facciamo così, come si scriveva un tempo nei romanzi d’appendice, “un passo indietro”.
I primi attentati compiuti nel dopoguerra da organizzazioni di estrema destra devono, con ogni probabilità, essere attribuiti ai Fasci d’Azione rivoluzionaria e alla Legione Nera, all’inizio degli anni’50.
Organizzazioni che si rifanno allo “spiritualismo” antimoderno di Julius Evola e pubblicano una rivista che si chiama “Imperium” diretta da Enzo Erra e Pino Rauti.
La prima bomba esplose il 28 ottobre 1950 in un cinema romano e altri attentati dinamitardi seguirono nei mesi successivi contro sedi di partiti, Palazzo Chigi, l’ambasciata americana.
In quegli anni il FUAN e le altre organizzazioni studentesche che s’ispiravano all’estrema destra raggiunsero, nelle maggiori università italiane, suffragi tra il 15 e il 20%, una percentuale superiore a quella che toccava al MSI nelle consultazioni politiche.
Il rapporto tra il partito neofascista e gli estremisti era contradditorio: da una parte i leader delle organizzazioni di estrema destra criticavano con solo la maggioranza del partito raccolta attorno a Michelini (fautore del cosiddetto “fascismo in doppiopetto”) ma anche la minoranza di Almirante, accusando entrambi di condurre una politica compromissoria e accomodante nei confronti della DC.
Nello stesso tempo però tra i gruppi estremisti e il MSI si mantenevano costanti rapporti.
Con la nascita di Ordine Nuovo e l’uscita, nel 1956, dei suoi esponenti dal MSI si sviluppò una strategia più precisa che puntava, da una parte, a formare quadri ideologicamente omogenei, quasi una sorta di élite tradizionalista, e dall’altra a sviluppare una serie di rapporti e di imprese, con collegamenti all’estero con gli altri gruppi che si richiamavano al fascismo (come Jeune Europe di Jean Thiriart e il Nouvel Ordre Européen) e legati con ambienti militari e dei servizi di sicurezza italiani.
Ordine Nuovo rientrerà nel 1969 nell’MSI, dando luogo a una scissione dalla quale avrà origine il Movimento Politico Ordine Nuovo guidato da Clemente Graziani.
Si può affermare, a questo punto, che all’origine di quella che poi fu definita “strategia della tensione” si può collocare l’elaborazione di personaggi che avevano avuto un ruolo importante in Ordine Nuovo e rapporti stretti con i servizi segreti italiani e USA: Pino Rauti, Guido Giannettini, Clemente Graziani, Stefano Serpieri, Paolo Signorelli.
Intanto si modificava il quadro internazionale, con un arretramento dell’influenza del blocco occidentale dovuta allo schierarsi di stati asiatici e africani di recente indipendenza vicino al blocco sovietico o all’interno dei “non allineati”.
A quell’arretramento una parte degli apparati e dell’opinione pubblica occidentale reagirono con un rafforzamento dell’atlantismo più intransigente, rafforzato peraltro prima dal colpo di stato militare in Grecia (1967) grazie all’appoggio della CIA, quindi della vittoria di Nixon alle elezioni USA del 1968, poi il colpo di stato in Cile (1973) e altri interventi dello stesso segno in Sudan, Egitto, Marocco, Iran.
A ciò si aggiungeva la guerra del Vietnam: si aveva così il quadro di una contrapposizione dura tra le grandi potenze e i paesi che appartenevano all’uno o all’altro schieramento.
Sul piano nazionale si può dire che quando esplode, nei primi mesi del ’68, la contestazione studentesca, seguita l’anno dopo dall’autunno caldo operaio, si conclude l’esperienza del centrosinistra e delle sue velleità riformistiche.
Al ’68 italiano erano così offerte diverse chance.
In primo luogo al governo si trovava una coalizione in crisi, paralizzata sul piano decisionale.
All’opposizione si collocava un Partito Comunista confinato all’interno di un sistema istituzionale contradditorio, caratterizzato da una Costituzione avanzata ma soltanto in parte attuata, e nello stesso tempo da una legislazione ordinaria che, in gran parte, era ancora quella formulata nel periodo fascista o addirittura in quello prefascista (pensiamo ai diversi aggiornamenti della legge comunale e provinciale) ed essenzialmente autoritaria nei rapporti tra lo Stato e i cittadini.
Infine, non secondariamente, una società in sviluppo ma ancora contrassegnata da notevoli arretratezze sia per la mancata attuazione di una riforma delle istituzioni pubbliche e dei servizi sociali sia per l’incombere di una crisi economica che sopraggiungeva attraverso il combinato disposto della congiuntura internazionale ma anche del riproporsi di questioni specifiche del sistema economico italiano mai affrontate coerentemente.
In questa situazione è la destra radicale, in stretta connessione con le centrali del terrore legate alla CIA, come l’Aginter Press di Lisbona (della quale si parlerà anche a proposito delle ancora misteriose “bombe di Savona” dell’autunno – inverno 1974-75) guidata dall’ex-ufficiale francese, membro dell’OAS, Ralph Guerin Serac (ma il vero nome è Yves Guillou) alla quale è legato l’estremista di Avanguardia Nazionale Stefano Delle Chiaie, che si muove con il duplice obiettivo di fermare le lotte sociali che agitano l’Italia e di condizionare gli equilibri politici che sono a loro volta in movimento.
In questo ambito si colloca la vicenda “Gladio”,qui ripercorsa per sommi capi:l 'organizzazione Gladio era un'organizzazione paramilitare clandestina italiana di tipo stay-behind ("stare dietro", "stare in retroscena") promossa dalla NATO nell'ambito Operazione Gladio, organizzata dalla Central Intelligence Agency per contrastare una ipotetica invasione dell'Europa occidentale da parte dell'Unione Sovietica e dei paesi aderenti al Patto di Varsavia, attraverso atti di sabotaggio, guerra psicologica e guerriglia dietro le linee nemiche, con la collaborazione dei servizi segreti e di altre strutture.
Malgrado in Italia Gladio sia propriamente utilizzato in riferimento solo alla stay-behind italiana (o, secondo alcuni, la principale e più duratura tra diverse stay-behind che operarono in Italia), il termine è stato applicato dalla stampa anche ad altre operazioni di tipo stay-behind, in quanto parte dell'Operazione Gladio. Durante la guerra fredda, quasi tutti i paesi dell'Europa occidentale organizzarono reti stay-behind sotto controllo NATO.
L'esistenza di Gladio, sospettata fin dalle rivelazioni rese nel 1984 dall'ex membro del gruppo neofascista Ordine Nuovo Vincenzo Vinciguerra[2] durante il suo processo[3], fu riconosciuta dal presidente del Consiglio italiano Giulio Andreotti il 24 ottobre 1990, che parlò di una "struttura di informazione, risposta e salvaguardia".
Francesco Cossiga, che ebbe, durante il periodo in cui era sottosegretario alla difesa, la delega alla sovrintendenza di Gladio, e che spesso è stato indicato come uno dei fondatori, affermò nel 2008 che «i padri di Gladio sono stati Aldo Moro, Paolo Emilio Taviani, Gaetano Martino e i generali Musco e De Lorenzo, capi del SIFAR. Io ero un piccolo amministratore».
Si arriva in questo modo alla “madre di tutti gli attentati”, quello del 12 dicembre 1969 all’interno della Banca dell’Agricoltura di Piazza Fontana a Milano.
Quel giorno, tra le 16,25 e le 17,30, esplosero altri quattro ordigni posti dalla medesima organizzazione rispettivamente presso la Banca Commerciale e Milano, a Roma alla Banca Nazionale del Lavoro, al Museo dei Risorgimento e all’Altare della Patria.
In quell’anno 1969 le organizzazioni di estrema destra avevano compiuto circa 150 tra attentati e azioni di violenza contro i 15 o 16 da parte delle organizzazioni della sinistra: fino alla metà degli anni’70 la proporzione tra le due parti resterà inalterata.
Si verificò, a quel punto, un lungo depistaggio svolto dai servizi di sicurezza, ma anche da esponenti della polizia e del ministero dell’Interno, per indirizzare le indagini verso “estremisti di sinistra” (“suicidio” di Pinelli, incriminazione di Valpreda).
Gli obiettivi di apparente destabilizzazione e, in realtà, di reale stabilizzazione del quadro politico non appaiono peraltro conseguiti attraverso la strage di Piazza Fontana sia perché la magistratura si divide al riguardo della pista da seguire sia perché una parte cospicua dell’opinione pubblica non accetta la versione ufficiale di quell’episodio che viene fornita dal governo e dalla DC.
Da questa situazione deriva la decisione di proseguire un’offensiva che ha un momento centrale nel tentativo di colpo di stato del 7-8 dicembre 1970, guidato dall’ex-comandante della X MAS della Repubblica di Salò, il principe Junio Valerio Borghese.
Ma quando il “golpe” era già in fase di avanzata esecuzione e Delle Chiaie e Saccucci si trovano all’interno del Viminale per distribuire armi ai congiurati Borghese ricevette personalmente un ordine in base al quale il tentativo rientrò in poche ore.
L’ex-comandante della X Mas non rivelò l’origine dell’ordine neppure ai suoi più stretti collaboratori.
A seguire la logica che già aveva contraddistinto l’analisi relativa all’altro tentativo di colpo di Stato, il “Piano Solo” del 1964, si può pensare che ci si fosse trovati di fronte a una minaccia portata fin quasi alle ultime conseguenze nei confronti di una classe politica di governo che, ad avviso dei gruppi promotori, non portava avanti con sufficiente coraggio ed energia l’offensiva contro il comunismo che avanzava.
Insomma l’obiettivo era un centrosinistra ancora troppo incline alle riforme e al dialogo con l’opposizione di sinistra piuttosto che con un governo forte, ermeticamente chiuso alle sollecitazioni di studenti e operai.
In un suo documento la Commissione Stragi ha ipotizzato che nel periodo 1970 – 1974 gruppi eversivi di ispirazione ideale anche in parte diversa convergevano operativamente per determinare un pronunciamento militare.
Nello stesso periodo si segnalavano anche ipotesi golpiste ancora operative come quella dell’organizzazione “Rosa dei Venti” mentre tra i gruppi eversivi era indiscussa l’egemonia di Ordine Nuovo che era in grado di vantare una lunga esperienza e rapporti privilegiati con gli ambienti militari.
Nel periodo appena considerato, dopo Piazza Fontana, si verificano altre due stragi che con la prima hanno rilevanti punti di contatto: quella del 28 Maggio 1974 in piazza della Loggia a Brescia (otto morti e centotre feriti) e quella del treno Italicus esploso a San Benedetto Val di Sambro sulla linea Firenze – Bologna il 4 Agosto dello stesso anno (dodici morti e quarantaquattro feriti).
Nell’uno come nell’altro caso compaiono, dopo vari depistaggi, personaggi dell’estrema destra che hanno operato più o meno indisturbati negli anni’60 e ’70, la regia dei Servizi di Sicurezza, i riferimenti alla CIA e alle centrali del terrore sparse in Europa in quegli anni.
Si può dunque sviluppare un’analisi politica che indichi come le tre principali stragi, Piazza Fontana, Piazza della Loggia, Italicus, si siano inserite in un disegno complessivo che tendeva, almeno fino a quella data, a insediare un governo di militari, ultra-atlantico e anticomunista nel nostro Paese con l’appoggio del governo Nixon e delle agenzie di sicurezza americane.
L’ultimo tentativo in questa direzione fu quello, definito “golpe bianco”, compiuto nell’agosto del 1974 da Edgardo Sogno, diplomatico medaglia d’oro della Resistenza nelle fila dei partigiani monarchici e Randolfo Pacciardi, ex comandante delle Brigate Internazionali in Spagna ed ex-segretario del Partito Repubblicano.
La reazione dell’opinione pubblica italiana fu però diversa da quella che speravano i congiurati, che intendevano provocare una reazione da “legge e ordine” e realizzare, attraverso un proclama stilato dal Presidente della Repubblica Leone, un governo autoritario di “tecnici” presieduto da Pacciardi.
Il meccanismo golpista fu così arrestato dalla forte mobilitazione popolare attuata dai partiti di sinistra e dal sindacato realizzatasi mentre si stava modificando profondamente anche il quadro internazionale.
Crollarono, quasi contemporaneamente, la dittatura portoghese e quella greca.
La CIA fu così costretta a modificare la propria strategia nel Mediterraneo e anche in Italia fu allontanato dal suo ruolo il generale Maletti, pesantemente implicato nei tentativi di golpe, a capo del cosiddetto Ufficio D.
Negli anni che vanno dal 1974 al 1980 il “terrorismo nero” che aveva riempito di sé, come abbiamo visto, le cronache del precedente quinquennio, e con le sanguinose stragi di Piazza della Fontana, Piazza della Loggia e dell’Italicus avevano dato il via alle stagioni delle bombe e degli omicidi politici nel nostro Paese non cessò di operare, in una sorta di dualismo con il cosiddetto terrorismo “rosso” (del quale in questa sede non si analizzano scaturigini e operato per evidenti ragioni di economia del discorso, anche se rispetto all’altro grande fatto decisivo per la storia d’Italia, il rapimento e l’uccisione di Moro, elementi di intreccio si ravvedono sia rispetto al ruolo dei servizi segreti, sia di metodi di infiltrazione e di inquinamento delle BR).
Il 1980 fu però segnato da quella che possiamo considerare l’altra “madre di tutte le stragi”: quella compiuta alle ore 10,30 del sabato 2 Agosto alla Stazione di Bologna.
La strage di Bologna, è il più grave atto terroristico avvenuto in Italia nel secondo dopoguerra, da molti indicato come uno degli ultimi atti della strategia della tensione.
Come esecutori materiali furono individuati dalla magistratura alcuni militanti di estrema destra, appartenenti ai Nuclei Armati Rivoluzionari (NAR), tra cui Giuseppe Valerio Fioravanti. Gli ipotetici mandanti sono tuttora sconosciuti, ma furono rilevati collegamenti con la criminalità organizzata e i servizi segreti deviati.
Nell'attentato rimasero uccise 85 persone ed oltre 200 rimasero ferite. Le indagini si indirizzarono quasi subito sulla pista neofascista, ma solo dopo un lungo iter giudiziario e numerosi depistaggi (per cui vennero condannati Licio Gelli, Pietro Musumeci, Giuseppe Belmonte e Francesco Pazienza), la sentenza finale del 1995 condannò Giuseppe Valerio Fioravanti e Francesca Mambro «come appartenenti alla banda armata che ha organizzato e realizzato l'attentato di Bologna» e per aver «fatto parte del gruppo che sicuramente quell'atto aveva organizzato», mentre nel 2007 si aggiunse anche la condanna di Luigi Ciavardini, minorenne all'epoca dei fatti.
In quel 1980 si mise in evidenza, almeno agli occhi degli osservatori più attenti ma inascoltati, non tanto il “ritorno” al terrorismo fascista (che pure si era verificato) ma l’esigenza di una “teoria politica del terrorismo” che, almeno da Piazza della Fontana in avanti, aveva rappresentato uno degli elementi costitutivi della gestione del potere nel nostro Paese.
Furono svolti alcuni tentativi di analisi in questa direzione, di collegamento tra il terrorismo stragista di evidente matrice “nera”, i servizi segreti, la massoneria occulta della quale la Loggia P2 appariva come l’espressione più evidente .
Il 1980, sempre per cercare di non dimenticare, fu anche l’anno in cui Gherardo Colombo scoprì gli elenchi di Castiglion Fibiocchi che comprendevano anche le prove del collegamento tra P2 e Mafia, attraverso logge coperte siciliane provviste anche di diramazioni nel Ponente Ligure: tanto per ricordare che, quanto alla mafia al nord, nessuno ha scoperto nulla di nuovo.
Altri denunciarono il fatto che, in quella direzione, non si fosse mai svolta una valutazione di fondo: il Centro di Riforma dello Stato, diretto da Pietro Ingrao, convocò un convegno su questo tema, proprio ad Arezzo; alcuni coraggiosi tentarono analisi anche in sede locale.
Intanto che le indagini sulla strage marcavano il passo qualcuno, che magari oggi si batte per la “coesione nazionale”, rispose che sarebbe stata sufficiente la riforma dei servizi segreti e che una collocazione diversa della sinistra nel quadro politico (c’erano già stati il “governo delle astensioni” e la “solidarietà nazionale”) avrebbe rappresentato un’ulteriore garanzia per il successo dell’operazione di riforma che tendeva a cambiare il modo di agire d’interi pezzi dello stato e che, comunque, il terrorismo nero, cui si era accompagnato quel tipo di attività dei servizi di sicurezza fosse ormai in declino, se non addirittura in via di estinzione.
Di fronte a questa sconcertante analisi che pure, a sinistra, ebbe piena cittadinanza, si replicò – pur nel rischio di rimanere profeti inascoltati – al riguardo della necessità di vedere lo stragismo attraverso una nuova lente, da parte di una sinistra istituzionalmente matura e capace di vedere lo spessore del meccanismo statuale, che riproduceva abilmente se stesso attraverso l’espansione dei corpi separati, aggiungendo come, almeno da Piazza della Fontana in avanti, analizzando i passaggi procedurali si poteva ben vedere come vi fosse stata una gestione politica dei procedimenti
Al centro, insomma, doveva ritornare, secondo questa ipotesi, il tema della “volontà politica”.
Ciò non avvenne, per molteplici ragioni che non possono essere qui analizzate per banali ragioni di spazio e che comunque riguardano l’intero corso della storia d’Italia, e abbiamo così assistito – da quel fatidico 2 agosto 1980 – al realizzarsi progressivo di quel meccanismo di autoritarismo, negazione della democrazia, affermazione di poteri occulti contenuti proprio nel documento sulla “Rinascita Nazionale” elaborato nel 1975, proprio dalla Loggia P2 di Licio Gelli, che recentemente è tornato a sostenere che la strage non c’è mai stata attribuendone la causa a “un mozzicone di sigaretta”.
Rapporti tra lo stragismo, la criminalità comune (banda della Magliana) la loggia P2 emergono sia per la strage della stazione di Bologna, sia per quella di Natale del 1984 nuovamente in Val di Sambro sulla linea ferroviaria Firenze – Bologna anche da accertamenti della Commissione parlamentare presieduta da Tina Anselmi, ma come scrivono anche Cucchiarelli e Giannuli nel loro “Lo Stato parallelo” non si è arrivata a una sistemazione definitiva e soddisfacente, almeno sotto questo aspetto.
La data del 1984 come anno conclusivo della stagione delle stragi e del terrorismo ha un carattere convenzionale, ma si può concludere questa analisi con quel riferimento temporale.
Non c’è dubbio, peraltro, che dopo il 1984 non si può più parlare di attività terroristica organizzata come per i 15 anni precedenti, anche se questo non ha significato che gruppi non abbiano eseguito e progettato azioni violente, come accadde all’inizio degli anni ’90 con gli attentati di matrice mafiosa nel quadro della presunta e non ancora sviscerata trattativa Stato – mafia.
In conclusione non si può dire però, come capita ancora di leggere, che stragi e terrorismi siano ancora avvolti in un mistero complessivo: un buio che probabilmente fa ancora comodo a parecchi.
Oggi è possibile affermare con chiarezza che in quei quindici anni élite istituzionali e politiche che erano al potere ebbero un ruolo centrale nella “strategia della tensione” e nello sviluppo del terrorismo nero.
Manca ancora l’individuazione dei mandanti di alcune stragi (ad esempio quella del DC9 a Ustica nel 1980) e di alcuni omicidi.
Ricordare quei fatti serve per dimostrare, anche con una certa dose di necessaria ostinazione, che la rimozione non ha mai aiutato gli individui e le comunità a superare quel che va superato: le lezioni che in quei tragici momenti la storia ci ha impartito sono ancora utili per capire non solo il passato ma anche la stessa prospettiva per il futuro.
Per redigere questo testo è stato consultato il volume nono della “Storia dell’Italia Repubblicana” (L’Italia nella crisi mondiale, l’ultimo ventennio) Einaudi, Torino. 1993.
1 agosto 2016
Franco Astengo
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