">
il pane e le rose

Font:

Posizione: Home > Archivio notizie > Capitale e lavoro    (Visualizza la Mappa del sito )

Vita tua mors mea

Vita tua mors mea

(17 Dicembre 2011) Enzo Apicella

Tutte le vignette di Enzo Apicella

PRIMA PAGINA

costruiamo un arete redazionale per il pane e le rose Libera TV

SITI WEB
(Capitale e lavoro)

Capitale e lavoro:: Altre notizie

Regno Unito - Brexit

La parola del partito:
Disertare il referendum!

(18 Agosto 2016)

Ultima risorsa di classi borghesi in crisi mortale, un nauseante razzismo contro il proletariato e contro il comunismo

nigel farage

Nigel Farage

Ci vorrebbero far credere che sia stato il voto del 52% degli inglesi per “uscire”, contro il 48%, a mettere in forse la sopravvivenza dell’Unione Europea, con i mercati finanziari in caduta libera e l’insieme dei partiti inglesi in totale scompiglio.

Quel risultato è stato attribuito dai politici e dai media di entrambi gli schieramenti ad una “rivolta della classe operaia” contro la “casta”. Non è stato affatto così. Se è vero che molti appartenenti alla classe operaia hanno colto l’occasione del voto sull’Unione Europea per protestare contro i sacrifici, il governo, la globalizzazione e la finanza internazionale, manifestando il loro senso di disperazione, quella protesta è stata incanalata in una precisa direzione: contro i lavoratori immigrati, non solo europei ma anche da fuori, col motto dei Brexit “ridateci il nostro Paese”: come se la classe operaia ne avesse mai avuto uno!

Ma anche i fautori del Restare si sono portati su questo terreno, rimpoverendo al Labour Party di non aver “ascoltato” sulla questione immigrati “la sua base elettorale”. Hanno lanciato l’allarme, nel caso di uscita dalla UE, sulla perdita di posti di lavoro e la riduzioni dei salari ignorando che la classe operaia è da molti anni che soffre della politica dei sacrifici!

Meglio incanalare una possibile vera “rivolta della classe operaia” verso il razzismo e la sottomissione al rito elettorale.

Di fatto, lungi da essere una rivolta degli operai, tutta la faccenda è nata come un tentativo di risolvere una annosa contesa all’interno delle classi dominanti inglesi, che ha già determinato la caduta di governi conservatori, quello di Margaret Thatcher e di John Major. Queste divisioni montarono in guerra aperta nel 1992 sul trattato di Maastricht, che dava inizio al processo verso una unione sempre più politica ed economica. Gran parte della borghesia inglese vedeva positivamente gli accordi con l’Europa: le aprivano il libero accesso e su un piano di parità ad un mercato più grande e la possibilità di reclutare lavoratori e specialisti da un bacino più vasto. La parte borghese che si opponeva a Maastricht, rappresentata invece dai membri del Partito Conservatore eufemisticamente chiamati “euroscettici”, voleva invece una UE limitata ad un’area di libero commercio con minime o nessuna interferenza politica delle istituzioni europee, in particolare della Commissione, “burocrati che nessuno ha eletto”, intenti a distruggere “la sovranità inglese”. Quando divenne evidente che stavano combattendo una battaglia perduta, questi chiesero la totale uscita del Regno Unito dal progetto europeo: la “Brexit”.

Gli “euroscettici” del Partito Conservatore, frustrati per la mancanza di risultati, se ne uscirono per fondarne uno nuovo, dapprima chiamato Partito per il Referendum, al fine di chiedere un plebiscito sulla uscita dall’Unione. Ma la direzione ne fu conquistata dai “nativisti” di Nigel Farage, che concentrò tutto il partito sulla lotta all’immigrazione. Il Partito per la Indipendenza della Regno Unito (Ukip) guadagnò influenza a seguito della crisi finanziaria del 2008 e del tracollo, o quasi, delle economie di Grecia, Spagna, Italia, Portogallo ed Irlanda, che ne seguì.



Il sorgere dell’UKIP

La Brexit è stata la bandiera da sempre della rivolta piccolo borghese dei militanti di base del Partito Conservatore, quella gente che inizia con “io non sono razzista ma...” per poi dire qualcosa di razzista. Molti di loro, delusi dai conservatori, ora definiscono i tre maggiori partiti un blocco antipatriottico: “LibLabCon” nel linguaggio dell’Ukip. Come molti movimenti piccolo borghesi è più che altro una rivolta disperata e impotente contro la modernità di una classe che non ha futuro nella economia globalizzata, che esaspera le divisioni fra capitale e lavoro e fra grande e piccola borghesia. Gente che per anni ha infilato buste e fatto propaganda porta a porta a vantaggio dei loro “superiori” nella gerarchia del Partito, che espone la bandiera in occasione dei matrimoni reali, che crede a tutto quel che legge circa l’Unione Europea sul Daily Mail o sul Sun. Vorrebbero tornare ai tempi gloriosi dell’Impero e nelle “loro” strade non voglion sentire accenti stranieri.

Ma, poiché questa gli era una base sociale insufficiente, e poiché l’Ukip non era riuscito ad ottenere una rappresentanza in parlamento, divenne chiaro a quelli attorno a Nigel Farage che dovevano estendere il loro elettorato: portare la classe operaia a votare contro gli immigrati. Questa demagogia ha avuto un certo successo in quelle regioni del Regno Unito che hanno visto il declino dell’industria pesante, come Nord-Est dell’Inghilterra e il Sud del Galles, benché, guarda caso, la gran parte di queste regioni ospiti pochi immigrati.

Lo Ukip inoltre ha guadagnato terreno nelle aree rurali come il Lincolnshire dove le aziende hanno tratto vantaggio dai lavoratori agricoli arrivati in massa dall’Europa orientale: l’Ukip ha accusato questi lavoratori di peggiorare ai residenti l’accesso alle scuole e ai servizi sanitari. Se questo può essere vero, in misura molto limitata, la realtà è che la vera causa della miseria è il peso della montagna del debito del Regno Unito e la conseguente mancanza di fondi per gli investimenti pubblici. Le tasse pagate dagli immigrati al Tesoro britannico hanno consentito di ripagare gli interessi sul debito e finanziare le banche in fallimento, ma non per costruire nuovi ospedali e scuole, mentre i trasporti inglesi e le infrastrutture sanitarie stanno cadendo in rovina.

I LibLabCon, col “politicamente corretto” dei “liberal” della “casta”, sono sordi alle rimostranze della “gente comune” le cui opinioni sulla immigrazione, dice lo Ukip, sono totalmente ignorate. La “liberale Britannia” non ha mancato però di raccogliere l’argomento: il primo ministro David Cameron ha promesso di ridurre gli immigrati di decine di migliaia. Ma la promessa non potrà essere mantenuta perché, oltre che il mercato comune della UE impone la libertà di movimento, perché molti settori dell’economia britannica, specialmente a Londra e nel Sud-Est, soffrono di una mancanza di lavoratori. È più facile reclutare operai specializzati dalla Polonia, o bravi braccianti agricoli dalla Bulgaria, piuttosto che farli venire dal Nord-Est dell’Inghilterra o dalle Midlands Occidentali.

Sicuro di ottenere la maggioranza, David Cameron fece la scommessa di dichiarare alle elezioni interne al Partito Conservatore del 2014 che avrebbe rinegoziato i termini dell’adesione del Regno Unito alla UE e poi rimessa al paese la loro approvazione. Credeva che la maggioranza avrebbe votato per restare, e così risanare la rottura all’interno del suo partito. Come ora sappiamo, ha sbagliato.

Si sono uniti contro di lui nel campo della Brexit non solo lo Ukip e i militanti di base del Partito Conservatore, ma alcuni importanti ministri conservatori, come il suo già alleato Michael Grove e, più importante di tutti, il suo vecchio compagno di camera ad Eton, l’ex-sindaco di Londra Boris Johnson. Questo l’ha abbandonato all’ultimo momento per mettersi a far campagna per la Brexit: evidentemente uno spregiudicato ed opportunistico tentativo di far fuori David Cameron ed impossessarsi della direzione del Partito. Fino a poco fa cantava ancora le lodi della EU, asserendo che il Regno Unito poteva così avere il meglio di entrambi i mondi, essendone membro ma non nell’Euro e nell’area Schengen, il che permetteva agli inglesi di viaggiare senza controlli alle dogane.

A parte gli opportunismi personali, politicanti come Johnson e Grove sono espressioni di sezioni della borghesia britannica che vorrebbero una “uscita morbida” dalla UE: non una rottura ma un ulteriore indebolimento del sistema di regolamenti che Bruxelles sta imponendo al Regno Unito. In questa categoria ricadono imprese piccole e medie non orientate alla esportazione (un esempio è la Wetherspoons, catena della ristorazione che occupa 35.000 lavoratori sottopagati, molti dei quali proprio provenienti dall’Europa orientale); rami di servizi finanziari che trovano troppo onerosi i costi della regolamentazione, in atto o in progetto; imprese i cui padroni si sentono in svantaggio concorrenziale nella legislazione di Bruxelles su questioni come i parametri ambientali (un esempio notevole è la Dyson, che produce pompe a vuoto energicamente inefficienti) ed infine, i più importanti, alcune grandi imprese con sede in paesi non europei, in particolare nel settore dei media, che esercitano una enorme influenza sul pubblico tramite il loro controllo sulla stampa “popolare” e sulle reti televisive.

Essendo legati più al capitalismo americano che a quello europeo, i sostenitori sia della uscita sia della uscita “morbida”, ed anche qualcuno nel campo avverso, tendono a vedere il futuro del Regno Unito più vicino ed allineato all’imperialismo americano che a quello europeo. Sono in particolare ostili all’idea di un esercito europeo. Sulla scena internazionale, quindi, la Russia vede con favore la crisi politica nel Regno Unito: il suo ruolo nel rafforzare la frazione anti-russa a Berlino ne sarebbe indebolito. La Polonia e gli Stati baltici hanno tutte le ragioni per essere preoccupati.



Razzismo per dividere la classe operaia

Nel corso della campagna referendaria, le promesse fatte dai sostenitori dell’uscita si sono fatte sconfinate. Esagerando grossolanamente il peso economico inglese e la sua influenza politica nel più vasto mondo, hanno affermato che i capitalisti di paesi come la Cina e del “nostro Commonwealth” si sarebbero messi in coda davanti alla porta del Regno Unito una volta che questo si fosse liberato dei ceppi dell’Europa. Hanno promesso che i 350 milioni di sterline “spediti a Bruxelles” ogni settimana (in realtà il contributo netto britannico è circa la metà) sarebbero stati spesi per il servizio sanitario nazionale. Ma lo stesso denaro è stato promesso volta volta per una miriade di altri progetti. Hanno detto che il fiume dell’immigrazione si sarebbe ridotto a un rigagnolo e le paghe sarebbero di conseguenza salite per i lavoratori indigeni. Ovviamente hanno già ritirato queste e le altre promesse, e la velocità con la quale l’hanno fatto ha impressionato molti di quelli che hanno votato per loro.

Anche l’altro lato, quello del “Bremain”, dominato dalla gerarchia del Partito Conservatore, con appoggio esplicito dei rappresentati del business e della finanza, e di potentati stranieri come il presidente del FMI Christine Lagarde ed il ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schäuble, ha dimostrato quanto lontano fosse dalla realtà quotidiana della classe operaia. L’intera campagna per il Restare è stata dominata dalle minacce di un Armageddon economico nel caso della Brexit. Ma per un numero enorme di operai britannici, che in otto anni di austerità hanno perso il posto di lavoro e visto salari e condizioni peggiorare, lo Armageddon c’è già.

Negli ultimi giorni la campagna referendaria si è andata surriscaldando da entrambe le parti, fino alla diffusione dell’allarme per 75 milioni di turchi che starebbero per affollarsi davanti alle case inglesi, una tensione artificialmente provocata che ha spinto all’uccisione di un deputato per mano di un fascista impegnato nella propaganda apertamente razzista dello Ukip.



Classi dominanti impotenti e divise

Bisogna ascoltare con attenzione quello che dicono i politici borghesi, e, altrettanto importante, quello che non dicono. Così, benché Nigel Farage e l’Ukip avessero dichiarato che il 23 giugno sarebbe stato per il Regno Unito il “giorno dell’indipendenza”, poi nulla si è celebrato e non si è stappato champagne alla conferenza stampa del mattino dopo con Johnson e Gove. Chi non l’avesse saputo avrebbe potuto credere che avevano perso: hanno farfugliato senza anticipare nulla di quello che ora avrebbero fatto. Johnson ha addirittura proclamato che il voto per la Brexit aveva reso gli inglesi “più europei che mai”. Né hanno fatto alcun cenno ai passi necessari da intraprendere per uscire dalla UE.

Johnson e molti dei suoi sostenitori nel mondo degli affari evidentemente speravano che uscisse una leggera maggioranza a favore del Restare: un voto debole abbastanza per indebolire la credibilità di Cameron, consentendo a Johnson di puntare alla direzione, ma forte abbastanza per dare al Regno Unito un altro argomento per ottenere da Bruxelles un ulteriore ammorbidimento dei regolamenti.

Fatto sta che la borghesia inglese, che nella sua crisi non ha ancora risolto come aggiustare i suoi problemi con la UE, si è svegliata il 24 giugno in stato confusionale. Il genio le è uscito dalla bottiglia e non sarà facile farcelo rientrare. Il valore della sterlina è precipitato, con il governatore della Banca di Inghilterra che ha dovuto accantonare 250 miliardi di sterline di riserve estere per sostenerla. Miliardi sono volati via per la svalutazione delle azioni. I contraccolpi si sono sentiti in tutto i mondo: con la caduta del prezzo delle azioni fino a Singapore e ad Hong Kong. L’impatto maggiore, tuttavia, si è sentito sui membri più deboli della eurozona come la Spagna.

E ora, come ne esce il capitalismo inglese? La semplice risposta, forse, è che non lo sa cosa succederà a breve. È chiaro per ora che lo smarrito personale politico del Regno Unito sta cercando di mettere nel congelatore il risultato del referendum.

Ma che gli altri capi di Stato europei siano disposti a non approfittare di questa debolezza per azzannarsi alla gola, e a tollerare una prolungata incertezza che permetta alla borghesia inglese di risolvere le sue questioni, è un’altra questione.

Lo Ukip passerà all’offensiva, eccitando sempre più il risentimento contro i lavoratori immigrati. Vedremo violenti attacchi contro di loro – di questo non c’è dubbio, e di fatto sta già cominciando.



Una borghesia che non può porre condizioni

Subito dopo il voto il primo diplomatico anziano inglese, il commissario europeo Jonathan Hill, ha reso le dimissioni. Difficile sorprendersi: il compito di rinegoziare le relazioni con l’Unione Europea sarà un compito da gigante. L’ “austerity” ha tagliato all’osso anche il personale diplomatico e i dipartimenti economici ed esteri.

I burocrati della UE inoltre potranno a piacere trascinare all’infinito le trattative sui complessi dettagli della separazione e sicuramente ogni singolo Stato europeo si comporterà solo secondo i suoi propri egoistici interessi. Alcuni vorranno giocare duro per bloccare il contagio prima che si diffonda ed incoraggi i loro movimenti populisti “euroscettici”: in particolare due paesi centrali in Europa, la Francia e l’Olanda.

Questo, però, dovrà esser fatto con una certa cautela, per dare una qualche credibilità alla favola del “popolo che si è espresso”, che il referendum conti qualcosa, per non far svanire, ancora una volta, il mito della democrazia. Da qui il messaggio “andiamoci piano” intanto diffuso da Martin Schulz, Donald Tusk ed altri.



Il Regno Disunito

Il voto per la Uscita conferma il disintegrarsi del Labour Party: metà del governo ombra è dimissionario; nel Galles l’appello di Palid Cymru per il Bremain è stato respinto. Il solo partito politico borghese che è affiorato da tutto il letamaio vantando vittoria è stato il Partito Nazionale Scozzese. Il SNP ha dichiarato la sua intenzione di tenere un secondo referendum sull’indipendenza, mentre il Sinn Fein ha richiesto un referendum pan-irlandese per l’unificazione.

Queste minacce centrifughe daranno al governo ulteriore incentivo ad ignorare il voto. D’altro lato è prevedibile che la UE rigetterebbe qualunque richiesta di adesione immediata della Scozia: paesi come la Spagna, con forti movimenti separatisti, vi metterebbero il veto. In ogni caso richiederebbe anni di trattative. Quanto all’Irlanda, i governanti della Repubblica sono intervenuti dalla parte dei Bremain, perché il Paese è inestricabilmente legato al Regno Unito e i politici del Sud temono il montare dell’appello populista del Sinn Fein.

Insomma, ci sarà un periodo di intensa volatilità e di riallineamento all’interno delle classi dominanti che cercheranno di afferrare la situazione da ogni lato. Intanto il futuro primo ministro inglese scoverà un motivo per scansare la notifica prevista dall’Articolo 50. Per proseguire la farsa elettorale potrebbe anche convocare un secondo referendum, oppure si potrebbero avere le elezioni generali.



La classe operaia

Noi possiamo trarre un po’ di soddisfazione dal fatto che la democrazia si è rivelata una finzione. Ma non possiamo festeggiare finché non vedremo una genuina risposta di classe.

Qualunque sarà l’esito di questo periodo di confusione una cosa è certa: la classe operaia non ne trarrà nessuna delle ricompense promesse e dai sostenitori dell’Uscire e da quelli del Rimanere. Se la classe operaia ha interesse a seguire gli eventi e a prevedere le loro conseguenze, non ha assolutamente alcun interesse nel prender parte a questa disputa fra borghesi. Non è compito della classe operaia risolvere le sventure delle classi dominanti. Questo è stato vero in tutti i paesi dell’Europa occidentale fin dalla fine del secolo 19°, e in Gran Bretagna, il primo paese capitalisticamente industrializzato, almeno dal 1848 quando Carlo Marx e Federico Engels osservavano la scena dell’Europa e dichiararono che “gli operai non hanno patria”.

Chi è caduto nell’inganno di poter “riprendere il controllo del nostro paese” o che vi sarà un qualche vantaggio sul servizio sanitario nazionale a seguito della Brexit sarà tristemente deluso. Ugualmente chi ritiene che la politica dell’immigrazione possa essere determinata “dal popolo” piuttosto che dagli interessi del business. Coloro che pensano che le paghe saliranno come risultato della contrazione dell’immigrazione subiranno ugualmente una smentita. La classe operaia non è mai così vulnerabile come quando i politicanti borghesi, di qualsiasi partito o corrente, riescono a persuaderla che il suo nemico sono i lavoratori “stranieri” piuttosto che il sistema capitalista del proprio paese.

È noto, inoltre, che i sostenitori dell’uscita, e specialmente il capo del Labour Party Jeremy Corbyn, non hanno mai difeso la causa della unità della classe operaia. Il meglio a cui Corbyn poteva arrivare era una tiepida difesa della legislazione UE come la Direttiva sugli orari di Lavoro, che è largamente ignorata e al più solo imporrebbe una miseria uniforme all’intera classe operaia europea. Il ruolo del Partito Laburista è proprio quello di garantire che una posizione di classe mai emerga e che gli elettori laburisti attribuiscano le loro difficoltà all’ “austerity” “dei conservatori”, e che l’austerità sia un atto di crudeltà di un particolare partito politico piuttosto che una necessità del capitalismo, indipendentemente da chi è al governo.

Nei trascorsi 20 anni tutti i partiti borghesi hanno proposto fittizie soluzioni ai problemi del capitalismo nascondendone le cause: Farage biasima l’Europa, i conservatori l’incompetenza dei laburisti, i laburisti l’austerità dei conservatori, il Partito Nazionale Scozzese i frequentatori di Westminster, George Galloway accusa la spesa per la difesa e le guerre, e così via. Mai fanno menzione delle contraddizioni fondamentali del sistema capitalista: questo è rigorosamente escluso.

Una “rivolta della classe operaia” può avere un significato solo quando si impegni in sue proprie lotte contro il sistema capitalista, autonomamente dalle altre classi, per i suoi propri interessi, e, cosa più importante, come una classe, non atomizzata in individui in una elezione borghese o in un referendum. Nulla potrà raggiungersi senza l’unità al di sopra delle nazioni, delle etnie e di altre artificiali divisioni, compresa la tradizionale lealtà alla borghesia dei partiti opportunisti. La frammentazione della classe operaia può solo esser sormontata con forme di organizzazione alla dimensione della classe, che uniscano i lavoratori nelle fabbriche, negli uffici e nei servizi, non consentendo che le loro lotte siano deviate dal Partito Laburista e dai dirigenti dei sindacati, cointeressati al sistema capitalista. La classe operaia può solo proteggere i suoi interessi tramite le sue organizzazioni – il partito comunista internazionale – opponendosi agli attacchi da qualunque parte provengano.

Mentre l’attenzione del mondo era fissata sul referendum inglese, altri operai stavano combattendo di queste lotte in tutta Europa: i ferrovieri, i giovani medici e gli insegnanti nel Regno Unito, i lavoratori dell’energia e dei porti in Francia, della logistica in Italia, solo per nominarne alcuni. Una vera “rivolta della classe operaia” consiste non nell’infilare una scheda nell’urna ma nell’estendere e nell’unire tali lotte fra categorie e oltre i confini nazionali.

Perché questo non solo accada ma prosegua fino all’assalto finale ai bastioni del Capitale, è necessario un internazionale partito di classe.

Dentro o fuori della UE il Regno Unito è parte di un sistema economico globale, che è sovraccarico di debiti e sull’orlo di una nuova crisi. La crisi economica non è, come la campagna laburista ci vorrebbe far credere, il risultato dei “burocrati di Bruxelles” o della “iper-regolamentazione” o della debolezza dell’Euro. Né è possibile rimandare all’infinito una crisi economica tramite una maggiore integrazione politica ed economica all’interno dell’Europa o con accordi di libero commercio fra la UE e gli altri blocchi economici, come il TTIP, questo difeso da chi sostiene il Rimanere.

No, la crisi economica che sta arrivando è, come le precedenti, inseparabile dalle contraddizioni senza uscita del sistema capitalista. Tutti i paesi del mondo ne sono sempre più colpiti, anche quelli che finora hanno goduto di una rapida crescita, come i cosiddetti paesi BRIC.

Per portare avanti queste lotte, la classe operaia deve totalmente rigettare l’idea borghese della “sovranità popolare” o del “potere del parlamento”. L’argomento dei sostenitori dell’uscita dalla UE che dobbiamo “riprendere il controllo del nostro paese” è privo di significato poiché la classe operaia in questa società non può esercitare nessun controllo sull’economia – la sua sola possibilità è spezzare il sistema capitalista e sostituirlo con uno nuovo.

Le mediazioni all’interno della Unione Europea servono solo a regolare il capitalismo nel continente nell’interesse del capitale europeo. Col che vorrebbero dilazionare la prossima catastrofe, ma solo per farla riapparire peggiore che mai.

La semplice realtà è che non esiste un “noi” – l’idea della sovranità popolare è una volgare finzione per mascherare il fatto che quelli che davvero incombono sono solo opposti interessi di classe. I lavoratori non hanno patria – non possono perdere quello che non hanno. Potranno esercitare “sovranità”, come classe internazionale, solo tramite la loro dittatura del proletariato.

Partito Comunista Internazionale

6406