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(4 Maggio 2011) Enzo Apicella

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Il capitalismo si muove all’interno della contraddizione tra il vulcano della produzione e la palude del mercato: il caotico movimento tra l’imponente capacità produttiva della moderna industria, che genera nuovo valore per il capitale, e l’incapacità di trovare un mercato solvibile per le sue merci. Questa contraddizione si manifesta in cicliche e profonde crisi che provocano la distruzione e la perdita di capitali sotto forma di merci, in una generale svalorizzazione. Per la nostra scuola marxista questo processo storicamente si collega alla legge della discesa del tasso medio di profitto per la quale il capitale si sviluppa secondo una curva che progressivamente si avvicina sempre più allo zero. Questa è, sotto ogni aspetto, la legge più importante della moderna economia politica capitalista.

Perché il capitale ripeta il suo ciclo produttivo gli necessitano sempre più massicci investimenti. Questi provocano un aumento della sua composizione organica, la quota del capitale destinato alle strutture produttive e ai materiali, che si definisce costante perché non aumenta di valore ma si trasferisce non accresciuto nei prodotti. Ne deriva una discesa del tasso di profitto perché solo il lavoro umano genera nuovo valore. Ma il lavoro è sempre proporzionalmente minore nel valore delle merci.

Il capitale si sforza di contrastare questa discesa, specialmente nella sua fase senile quando subisce al massimo la spinta delle immense forze produttive sociali. Il rimedio, il contrasto a tale caduta, lo trova, paradossalmente, nella massiccia distruzione del capitale. Distruggere capitale e distruggere profitti per salvare il tasso del profitto.

Il capitale, che per sopravvivere deve ad ogni costo crescere, oggi, non riuscendo a crescere è minacciato nella sua sopravvivenza: «Il capitalismo ha troppo costruito e vive nella antitesi storica: distruggere o saltare» (Drammi gialli e sinistri..., 1956).

Quando i mercati sono saturi si giunge all’odierna fase di sciupio sistematico. Si tratta qui, per dirla con Engels, di una guerra “nascosta” rispetto alla guerra quotidiana, totale ed onnipresente contro la classe lavoratrice, di trovare delle vie di uscita dalla sovrapproduzione, di cui Marx, citando Malthus, ha dato l’elenco seguente: «tali mezzi artificiali consistono in pesanti imposte, spese per ogni genere di sinecura nello Stato e nella Chiesa, per grandi eserciti, un debito pubblico considerevole e, di tanto in tanto, delle guerre dispendiose».

La militarizzazione di una parte della produzione è l’unica politica economica possibile del tardo capitalismo imperialistico. Gli economisti e gli statisti hanno tratto dalle guerre moderne proficui insegnamenti: chi prepara la guerra vede i profitti risalire verso cime perdute; chi della guerra subisce le distruzioni vede la sua economia ancora più a lungo risorgere. L’imperialismo deve ricorrere al militarismo, alla corsa agli armamenti, al colonialismo, alle guerre locali, fino alla guerra totale.

Il capitalismo da decenni spende ogni anno quanto durante tutto l’ultimo conflitto mondiale ed i suoi ordigni sono così numerosi da poter distruggere venti e più volte il pianeta.

Questo dimostra che la guerra, arte militare per riportare la vittoria, sconfiggere il nemico ed ottenere date affermazioni storiche e strategiche, non è più il compito affidato dalla borghesia ai generali, ma un ramo di industria. Si utilizzano mezzi sproporzionati sotto la pressione di altre cause e per altri scopi, quelli di una società mostruosamente iperproduttiva che soffoca nel delirio della sovrapproduzione di merci.

Al capitale in crisi urge la distruzione della sovrapproduzione e della sovrappopolazione, la parte prolifica della popolazione nei continenti di colore, la vera “bomba atomica” pericolosa per il capitale, più che mai malthusiano. Dietro la sovrapproduzione si profila il verdetto di morte per le masse umane, da sacrificare alle divinità del Capitale. Le guerre sono essenzialmente dirette contro i proletari soprannumerari per il capitale. La guerra è diretta contro la classe operaia e contro la rivoluzione.

Nell’Antidühring Engels descrive i meccanismi imperialistici: «L’esercito è diventato fine precipuo dello Stato e fine a se stesso; i popoli non esistono più se non per fornire e nutrire i soldati. Il militarismo reca in sé anche il germe della propria rovina. La concorrenza reciproca dei singoli Stati li costringe da una parte ad impiegare ogni anno più denaro per esercito, marina, cannoni, ecc. e quindi ad affrettare sempre più la rovina finanziaria».

Anche in campo militare ogni nuova invenzione tecnica elimina la precedente. Come dice Engels la corazza delle navi aumenta di spessore proporzionalmente all’efficacia dei cannoni: in questa corsa le navi divengono sempre più pesanti e costose, dunque sempre meno efficaci.

La corsa al perfezionamento tecnico è una gara tanto enormemente costosa, quanto talvolta inutilizzabile militarmente. Vige anche per il militarismo la legge dell’interno moto dialettico per cui, come ogni altro fenomeno storico, sarà condotto alla rovina dalle conseguenze del suo stesso sviluppo.

Ciò non significa che il militarismo perisca per la sua propria dialettica (il fenomeno evidentemente va studiato nel concreto), che si estingua da sé, ma che la crisi economica del capitale spinge verso il militarismo e quella e questo verso la guerra, nella quale le economie e gli Stati sono messi duramente alla prova e possono crollare militarmente e politicamente, se il proletariato si è preparato per tempo: in tempo di pace, ad opporsi alle atrocità del regime capitalistico e una sua minoranza si è disposta cosciente nel partito comunista per cambiare la forma sociale. Secondo l’espressione di Lenin, allora la guerra può essere la madre della Rivoluzione.

Partito Comunista Internazionale

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