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TERTIUM NON DATUR

Stati Uniti d'Europa: «o impossibili o reazionari»

(13 Settembre 2016)

Il dibattito sul referendum britannico e sul suo esito favorevole all’opzione di uscita dall’Unione europea ha conosciuto in Italia toni accesi, non di rado viscerali. Si sono manifestate posizioni di aperta simpatia nei confronti del Leave e di rifiuto dell’integrazione europea, fenomeno questo un tempo molto meno presente in una realtà, come quella italiana, dove l’adesione pressoché incondizionata alle dinamiche e ai miti dell’unità europea costituiva la cifra di gran lunga dominante delle espressioni politiche e ideologiche della borghesia. Prevalente è rimasto comunque l’orientamento favorevole all’Unione, con il ricorso anche a toni da autentica campagna di mobilitazione contro l’opzione “separatista”, rappresentata sovente con i tratti di un regresso in termini di civiltà, di puro e semplice rigurgito (ancor più urtante e problematico in quanto destinato ad affermarsi democraticamente) dei peggiori istinti e umori di una plebe lontana tanto dalle consapevolezze pragmatiche dei centri di potere economico, quanto dalla lungimiranza delle élite politiche consce dei compiti dell’evoluzione storica globale. In questa sfida tutta borghese tra Leave e Remain, una sfida che ha visto il proletariato come pura e semplice massa di manovra, l’arsenale ideologico di questi due schieramenti si è presentato assai diversificato e con differenti possibilità di utilizzo e capacità di penetrazione nei vari ambiti politici e sociali. Il richiamo nazionalistico, xenofobo, che tanto innerva il campo degli avversari borghesi delle istituzioni europee, riveste un significato deleterio per gli interessi del proletariato, rappresenta una facile suggestione finalizzata a preservare le contraddizioni di fondo, i rapporti di classe della società capitalistica per sottomettere il proletariato alle frazioni borghesi attestatesi su di una linea “euroscettica”. Questa variante della politica borghese è indubbiamente insidiosa. Nelle sue manifestazioni storiche precedenti ha mostrato di poter aggiogare settori consistenti della nostra classe al carro dell’interesse borghese nazionale. Ha mostrato di poter incanalare le aspirazioni proletarie ad un miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro nell’orbita del sostegno allo Stato del proprio imperialismo, in contrapposizione ad altre componenti nazionali del proletariato mondiale, in una funzione subordinata alla borghesia e destinata, quindi, a contraddire gli interessi storici della classe rivoluzionaria. Ma anche la variante europeista può costituire una grave minaccia. In più, nella fase attuale e soprattutto in determinati ambiti politici, questa formulazione dell’interesse borghese possiede le carte in regola per acquisire una particolare efficacia. La sua aura di progressismo, il suo richiamo a valori superiori alla sfera nazionale, il fatto che sia osteggiata da forze borghesi che hanno apertamente inalberato slogan e propositi sciovinisti, può conferire ad essa una maggiore attrattività, le sembianze di una volontà scaturita da frazioni borghesi più in sintonia con la Storia e comunque impegnate in qualche modo a spianare la strada a migliori condizioni per la classe lavoratrice.
 
La sintesi leniniana degli Stati uniti d’Europa in regime capitalistico come «o impossibili o reazionari» si inscrive in quel processo, interno alla scuola marxista, di acquisizione della consapevolezza del significato storico della maturazione imperialistica del capitalismo che porterà Arrigo Cervetto a definire il concetto di «democrazia imperialistica», riprendendo il giudizio di Lenin: «La reazione politica su tutta la linea è una caratteristica dell’imperialismo». A partire da questa acquisizione, una dinamica storicamente progressiva, come tale sostenibile o auspicabile sulla base degli interessi di classe del proletariato, che scaturisca dalle forze e dagli sviluppi propri dell’imperialismo non è più contemplabile. Laddove il segno imperialistico è dominante negli essenziali processi della vita sociale ed economica, della sfera politica, e questo segno è ormai divenuto dominante in ogni realtà sociale significativa su scala globale, è divenuto improponibile lo schema storico dell’appoggio a rivoluzioni borghesi, a lotte per la formazione di nuovi organismi statuali come condizioni per un potenziamento delle forze produttive, per un processo di superamento di freni reazionari allo sviluppo capitalistico che risulti oggettivamente favorevole alla strategia della rivoluzione proletaria. Sul piano europeo, quindi, non è consentito associare all’alternativa delineata da Lenin qualsivoglia ulteriore opzione. Tertium non datur. Non è al pari lecito annacquare la potenza della sintesi del capo bolscevico con la presunta scoperta di una necessità per il proletariato di preferire una variante della conformazione imperialistica europea rispetto ad un’altra. Ciò non significa che non sia possibile, e in determinati momenti storici persino necessario, valutare i differenti spazi e gamme di opportunità che il prevalere di una potenza imperialistica rispetto ad altre può apportare alla causa rivoluzionaria. Ma questa delicatissima ponderazione va effettuata sul piano più concreto possibile delle reali dinamiche storiche, non sulla base di assiomi che lo sviluppo imperialistico ha reso anch’essi «impossibili o reazionari». Oggi l’alternativa tra integrazione politica continentale o altre forme di esercizio della sovranità dello Stato borghese appartiene del tutto al campo degli interessi della classe borghese, alla sfera dei caratteri e delle leggi dell’imperialismo. Come il richiamo alla dimensione nazionale quale presunta antitesi alla dominazione dei poteri economici e politici espressi dall’imperialismo significa in realtà l’assoggettamento e la funzionalità a determinate forze borghesi che assumono queste vesti politiche ed ideologiche proprio nella contesa imperialistica, così attribuire all’opzione dell’unificazione europea un significato progressivo e come tale la valenza di alternativa preferibile per gli interessi storici del proletariato significa subordinarsi, e porsi in condizione per subordinare componenti proletarie, agli interessi e alle strategie di forze imperialistiche. Significa accodarsi alle forze borghesi che in una determinata fase della contesa imperialistica hanno sposato l’opzione comunitaria, contribuendo a dipingere gli interessi di queste forze e la loro azione necessariamente imperialistica con le sembianze di un superiore spessore sociale, sia pure come effetto non voluto o come ricaduta rispetto all’essenzialità e all’intenzionalità della loro azione imperialistica. Significa riproporre, nelle forme determinate dall’attuale fase, una politica socialimperialista.
 
Si potrebbe obiettare che individuare nell’opzione di unificazione europea una variante preferibile per gli interessi del proletariato non significherebbe altro che prendere atto di un processo storico oggettivo, di una tendenza inarrestabile e limitarsi, quindi, ad indicare quali aspetti, quali esiti, in questo corso incontrovertibile e fatalmente destinato a realizzare l’obiettivo dello Stato europeo, potrebbero avvantaggiare il proletariato. Esiti e risultanti che, di conseguenza, le forze politiche proletarie dovrebbero attrezzarsi a cogliere e sfruttare nel miglior modo possibile. Ma questo approccio nel concreto della presente situazione storica non regge. La tesi di un’ineluttabile tendenza all’Europa politicamente unita, tendenza all’integrazione spontanea degli Stati europei mossi dalla raggiunta consapevolezza delle necessità della competizione globale, poteva avere una sua legittimità, tutta da verificare, in quegli anni cruciali per la costruzione comunitaria che hanno visto il varo e l’introduzione della moneta unica e della Banca centrale europea. Anni, soprattutto nella specifica realtà imperialistica italiana, di euroentusiasmi, di cori pressoché unanimi per le «magnifiche sorti e progressive» dell’Unione europea. Sembravano all’ordine del giorno esercito, politica estera comuni, una Costituzione per il nuovo Stato sovranazionale. Tutto sul percorso obbligato aperto dalla moneta comune. Abbiamo già avuto modo di rilevare come questo scenario, se si fosse verificato, avrebbe comportato per la scuola marxista una profonda rilettura della natura della classe borghese, delle sue potenzialità storiche e, di conseguenza, degli spazi e delle condizioni per l’azione rivoluzionaria del proletariato. Ma nella realtà tutto questo semplicemente non si è verificato. Nessuna fatale tendenza ha dato vita ad uno Stato europeo, ad un’autentica e superiore politica fiscale europea, ad un esercito europeo. La moneta non ha portato con sé la spada. E se a questo traguardo si arriverà, sarà sulla base di altre condizioni storiche, in altri cicli politici. La Convenzione che doveva forgiare la Costituzione per l’Unione divenuta Stato europeo si è risolta in un fallimento a conti fatti tanto prevedibile (una Costituzione per uno Stato inesistente e chiamato alla vita dalla presunta lungimiranza di un ceto politico in grado di aggirare il nodo della forza, finora passaggio ineludibile nella formazione degli Stati) quanto clamoroso se posto a confronto con gli altisonanti peana che hanno accompagnato i lavori di quest’organismo. “Mister Pesc”, salutato come l’incarnazione della nuova politica estera comune, è stato sistematicamente ricacciato nell’ombra delle vane istituzioni ogniqualvolta una situazione di tensione internazionale ha richiesto l’intervento degli effettivi titolari della sovranità statuale. Alla prova dei fatti, e non delle elucubrazioni dei politologi di volta in volta di grido, la tendenza che è risultata confermata è quella di una potenza europea, ancora una volta la Germania, ad acquisire un ruolo egemone in Europa. Se da questa tendenza dovrà scaturire poi un’unificazione politica del continente è questione che riguarda i rapporti di forza tra Stati imperialistici fuori e dentro l’Europa, non un ipotetico adeguamento di un complesso di istituzioni comuni alla necessità storica dell’unificazione (con la comoda uscita di sicurezza di decretare, quando inevitabilmente tale impostazione mostra la corda, l’inadeguatezza delle effettive forme di manifestazione della lotta politica, come elezioni e referendum, nel rispondere a queste superiori esigenze fatalmente relegate a patrimonio di élite illuminate). Sulla base di queste constatazioni, pretendere di schierare il proletariato alla coda di una o dell’altra delle opzioni borghesi per il consesso imperialistico europeo non equivale a tracciare una strategia volta a cogliere gli spazi di utilità per il proletariato in un’architettura statuale europea più favorevole al raggiungimento dei compiti storici della classe rivoluzionaria. Non può che significare altro se non acconciarsi a propugnatori di una linea politica di subalternità alla lotta tra borghesie.
 
Tra gli ipotetici vantaggi che un’avanguardia rivoluzionaria del proletariato dovrebbe cogliere nell’attuale, presunta traiettoria storica finalizzata allo Stato europeo ci sarebbe lo spazio comune per l’organizzazione sindacale. La costruzione di uno Stato europeo, nella vigenza del regime capitalistico inevitabilmente imperialista, porterebbe, quindi, con sé il dato favorevole della possibilità di un sindacato europeo, comunque un passo avanti rispetto alla frammentazione nazionale delle forme organizzate della rivendicazione economica dei lavoratori. Anche da questo punto di vista però i conti non tornano. Ancora una volta occorre guardarsi con estrema attenzione dal sostituire un autentico sforzo di elaborazione strategica poggiante sull’analisi marxista, analisi di fatti storici concreti, con una sovrapposizione alla realtà di una logica autoreferenziale. Nella fase attuale di lotta di classe in Europa, con una combattività proletaria ancora a livelli minimi, cosa significherebbe la costituzione di un effettivo sindacato europeo come esito pressoché totalmente inquadrabile come portato della realizzazione di istituzioni statuali comuni? Significherebbe comunque la costituzione di uno strumento superiore per una successiva fase della lotta di classe o invece l’unificazione e il potenziamento di organismi sindacali plasmati da una fase eccezionale di stagnazione della lotta proletaria, l’unificazione di burocrazie delle cui potenzialità di svolgere persino una basilare funzione tradunionistica è ormai lecito dubitare? E questo ipotetico spazio sindacale comune sarebbe un vantaggio auspicabile se commisurato all’esito della formazione di uno Stato europeo dalle risorse repressive considerevolmente incrementate? Come coniugare poi l’auspicio, come condizione per il sindacato europeo, di un’unificazione politica dell’imperialismo europeo, traguardo da raggiungere nella prospettiva di un rafforzamento nella contesa imperialistica, con la fondamentale lezione strategica della priorità da assegnare alla sconfitta del proprio imperialismo? Come infine tacitare i dubbi e le perplessità circa il compito di porre le basi di un’unificazione sindacale europea, che, se intesa effettivamente come un elemento di rafforzamento del proletariato, dovrebbe comportare un processo di sviluppo della coscienza di classe, affidato essenzialmente al processo di unificazione degli Stati borghesi nell’era dell’imperialismo? È evidente che tutti questi interrogativi possono essere aggirati, sorvolati, solo partendo dall’assioma della tendenza irreversibile all’unificazione politica europea: che piaccia o meno, la realtà dello Stato europeo è fatalmente in divenire, occorre valorizzare e incrementare gli aspetti che in essa si offrono alla lotta di classe proletaria. Ma è proprio questo assioma a non essere accettabile e ciò inficia tutta la conseguente formulazione politica. Ad ennesima conferma di quanto possa essere disastroso un errore di analisi (a maggior ragione se non riconosciuto come tale e corretto) per la strategia rivoluzionaria. Di come non basti la fedeltà ai principi comunisti, o meglio, come non possa essere mantenuta questa fedeltà, se non si riesce ad acquisire il marxismo come effettivo metodo di comprensione della realtà, delle più importanti dinamiche sociali e politiche in cui l’avanguardia rivoluzionaria esiste ed è chiamata ad operare. Un’ultima annotazione: non può che suscitare forti perplessità un’insistenza sull’appartenenza, sull’identità europea dei proletari che dovrebbero guardare con favore all’integrazione politica dell’imperialismo europeo come condizione per un conseguente rafforzamento delle proprie capacità di lotta e di organizzazione di classe.
Dopo quello nazionale e prima di quello internazionalista, si collocherebbe così un ennesimo stadio di appartenenza, che potrebbe avere una sua effettività solo sulle fondamenta di una costruzione statuale borghese. Un’ennesima identità, questa volta continentale, attraverso cui suddividere la realtà mondiale del proletariato.
Un passaggio propedeutico per arrivare all’internazionalismo?
La coscienza internazionalista non è una corsa a tappe.
 

Prospettiva Marxista

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