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Peccatucci di Golan

Peccatucci di Golan

(6 Giugno 2011) Enzo Apicella
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Turchia fra ambizioni di potenza e interne tensioni etniche e di classe

(1 Ottobre 2016)

Le vicende turche hanno riempito telegiornali e quotidiani in seguito ad un tentativo di colpo di Stato militare volto a rovesciare il presidente Recep Tayyip Erdogan e il governo guidato dal premier Binali Yildirim. Per pochi giorni i mezzi di informazione ne hanno parlato, ma in breve il Paese si è trovato fuori dalla portata dei riflettori, come spesso accade in una comunicazione al servizio del regime del capitale ed interessata allo spettacolo e alle banalità piuttosto che ad informazioni attendibili.

Il tentativo di golpe e il sanguinoso scontro armato che ne è scaturito va compreso alla luce delle contraddizioni dell’economia e della società turche. L’azione, messa in atto da una parte delle forze armate, si inserisce in una lotta fra le fazioni della classe dominante turca. Borghese è infatti il partito di governo guidato da Erdogan, versione turca della Fratellanza Musulmana araba e legato a doppio filo ai petrodollari delle monarchie del Golfo; borghese è la fazione guidata dal predicatore religioso Fetullah Gülen, auto-esiliatosi negli Stati Uniti e accusata dal governo di essere dietro al tentativo di assumere il potere; borghese è infine la componente laica kemalista, che per numerosi decenni ha dominato la scena politica e che ora, fortemente indebolita, costretta a rinunciare al ruolo di protagonista “istituzionale”, sembra sostenere il governo per una fetta di potere e per garantire la propria sopravvivenza messa in discussione dai continui giri di vite repressivi e dall’emergere del fondamentalismo islamico.

Quanto accaduto la sera del 15 luglio sorprende per l’imperizia manifestata dagli ufficiali, alla guida di alcuni reparti dell’esercito, nel tentativo di rovesciare il governo. Invece di arrestare i membri del potere civile, i deputati, i membri del governo, ecc. prendendoli come ostaggi, si sono contenuti all’interno dell’esercito, arrestando il capo di stato maggiore e alcuni generali, tentando solo, non riuscendoci, di arrestare o eliminare il presidente Erdogan. Quest’ultimo, sfuggito all’azione di un commando, si collegava col proprio cellulare a una diretta televisiva, incitando i propri sostenitori a scendere in piazza per affrontare i ribelli e “difendere la democrazia”. Ne seguiva un duro scontro in cui i ribelli venivano sopraffatti in poche ore dai militari rimasti fedeli al governo, dalla polizia e dai sostenitori del governativo Partito della Giustizia e dello Sviluppo. Incapaci di fare appello a un qualche sostegno esterno all’esercito, i putschisti, proclamatisi “Comitato per la pace in patria”, si sono trovati completamente isolati, mentre la mobilitazione della “base popolare” filo-governativa ha avuto una certa efficacia, almeno sul piano simbolico.

Votati a una sconfitta certa, i militari golpisti si sono arresi dopo una notte di scontri armati che hanno provocato circa 300 morti, concentrati a Istanbul, centro del potere economico e finanziario, e ad Ankara, capitale politica dello Stato. Una volta arresisi i militari di leva portati allo sbaraglio dai loro ufficiali hanno subito pesanti umiliazioni, flagellazioni pubbliche, pestaggi e talora linciaggi mortali da parte delle squadre di civili sostenitori del governo, aiutati dalla polizia.

La cronaca dei giorni successivi, segnati da un clima di terrore, con i quasi 20.000 arresti e le purghe in tutti i rami della pubblica amministrazione, che hanno portato al licenziamento di circa 80.000 funzionari ed insegnanti, hanno visto un rafforzamento ulteriore del potere di Erdogan, anche attraverso la proclamazione dello stato di emergenza ratificato dal parlamento con un voto a larga maggioranza. Ad aggiungere un particolare macabro alla ferocia repressiva è stato l’ordine governativo che impediva la sepoltura dei corpi dei militari golpisti nei cimiteri e ne disponeva l’inumazione in fosse scavate in appezzamenti di terreno chiamati per l’occasione “cimiteri per traditori”.

A dovere fare i conti con la dura repressione sono stati soprattutto quanti legati al movimento guidato da Gülen, accusato di essere dietro all’organizzazione del complotto. A capo di una potente rete di interessi economici che comprendono fra l’altro un impero mediatico (in gran parte smantellato con l’ondata repressiva successiva al golpe) e un movimento religioso, lo Hizmet (letteralmente “il servizio”), rimasto a lungo sottotraccia nel panorama della vita politica turca, Gülen rappresenta una frazione della classe dominante la quale, per altro, condivide con il partito di Erdogan il recupero della tradizione religiosa come strumento ideologico di un’unità interclassista, per prepararsi alla sfida, forse velleitaria, di affermarsi come potenza imperialista di dimensione regionale. Gülen, considerato “il volto moderno della tradizione del sufismo ottomano”, tenta di accreditarsi come islamista moderato, aperto alla scienza e alla tecnologia moderne. Il che non gli impedisce continui appelli alla “lotta contro il comunismo e l’ateismo”. Non è un caso che negli anni ’90 Gülen divenne un fondamentale alleato politico dell’attuale presidente.

Come scrivemmo in questo giornale nel luglio di tre anni fa questo era un passaggio obbligato, comune a tutte le borghesie che, una volta sconfitte le ultime, estreme resistenze delle classi dominanti precapitalistiche, quando debbono fare i conti con lo sviluppo del proletariato industriale, abbandonano il laicismo e l’ateismo delle origini.

Imponenti cambiamenti economici e demografici hanno sconvolto la Turchia, che è passata da circa 40 milioni di abitanti del 1980 ai 79 attuali. Fra l’ultima decade del secolo scorso e la prima del nuovo millennio un febbrile processo di industrializzazione ha trasformato la sua struttura produttiva facendola entrare nella piena maturità capitalistica. Se ancora nei primi anni ‘80 circa il 60% della popolazione attiva era occupata nell’agricoltura, questa quota scendeva sotto il 50% con l’arrivo del nuovo millennio, per poi precipitare nella sua curva discendente fino al 23% attuale. Negli stessi anni è stata invece in crescita la quota degli occupati nell’industria, passati dal 21% del 2001 al 27% del 2015.

Quando Erdogan nel 1992 si conquistò la poltrona di sindaco di Istanbul la città conosceva una fase di crescita tumultuosa. Gli abitanti della metropoli sul Bosforo sono cresciuti dai 2,8 milioni del 1980 ai 6,6 milioni del 1990 in seguito ad un massivo inurbamento di masse rurali, che saranno la principale base di consenso di Erdogan. Tale flusso era destinato ad accelerare negli anni successivi tanto che oggi la popolazione di Istanbul conta 15 milioni di abitanti.

La carriera politica del presidente ha potuto quindi beneficiare del vento in poppa di una fase di accumulazione capitalistica che solo negli ultimi tempi ha dato i primi segni di rallentamento.

Questi cambiamenti epocali non potevano non avere ripercussioni sui fragili assetti politici del paese, oramai inadeguati a fare fronte all’internazionalizzazione dell’economia in un contesto di crisi generale del sistema capitalistico. Il quadro politico improntato al laicismo kemalista – risalente agli anni ’20 del secolo scorso, quando il generale Mustafa Kemal, in lotta contro le potenze imperialiste decise a spartirsi la Turchia, aveva posto fine al Califfato ottomano dando vita alla repubblica turca – aveva già patito una lunga fase di instabilità, tenuta a fatica sotto controllo dall’esercito, che effettuò tre colpi di Stato fra il 1960 e il 1980. Questa cronica instabilità deve avere convinto le classi dominanti turche che l’esercito da solo non è più sufficiente a garantire l’unità nazionale e la pace sociale, in un contesto caratterizzato da una certa conflittualità sindacale e da forti spinte centrifughe. Nel 1984, nelle regioni sudorientali dell’Anatolia, era infatti incominciata la guerriglia curda guidata dal Pkk. La ricerca di consenso sociale, soprattutto fra gli strati proletari e semiproletari inurbati nelle grandi città, si indirizzava sempre più nella retorica politica dei governanti verso la demagogia religiosa, attinta dalle ideologie fatte veicolare nell’intera regione mediorientale.

È appunto il contesto regionale che ha offerto alla nuova dirigenza turca la possibilità di giocare un ruolo nei cambiamenti avvenuti nella prima decade del nuovo secolo. La decomposizione dello Stato iracheno susseguente alla seconda guerra del Golfo, le “primavere arabe” con il ricambio dei regimi egiziano e tunisino e con la disgregazione di quelli libico e siriano, hanno visto la Turchia seriamente impegnata nel tentativo di trarre vantaggio dalla situazione per realizzare l’antica aspirazione di diventare la potenza guida nel mondo arabo musulmano. Per fare questo la Turchia, paese non arabo, doveva giocare la carta del panislamismo, favorita dall’impossibilità di assistere a una qualche resurrezione del defunto panarabismo degli anni ’60 e ’70.

I successi di questa strategia non avevano tardato ad arrivare. In Egitto, dopo la deposizione di Mubarak, la Fratellanza Musulmana aveva vinto le elezioni portando alla presidenza Morsi. Anche in Tunisia il partito Ennahda, ispirato anch’esso ai Fratelli Musulmani, vinceva le elezioni e arrivava al governo. In Libia la caduta di Gheddafi aveva dato luogo alla frammentazione del paese col prevalere nella zona occidentale della coalizione filo-turca di Alba Libica, che riusciva a imporsi nel governo di Tripoli. Infine lo scoppio della guerra civile siriana e il venire meno, di fatto, della frontiera con l’Iraq – ereditata dalla dominazione coloniale e stabilita nel 1916 dall’accordo Sykes-Picot fra Regno Unito e Francia – aveva visto il diretto impegno della Turchia volto a favorire la caduta del regime siriano del presidente Bashar al-Assad e a giocare sullo scacchiere della Mezzaluna Fertile con le proprie pedine: i gruppi armati salafiti attivi nel Nord della Siria, le minoranze turcofone presenti nei due paesi e, in seguito, con il cosiddetto Stato Islamico di Siria ed Iraq, entità jihadista aiutata a nascere e a prosperare dall’alleanza di ferro fra il Qatar e il governo di Ankara.

Ma presto il vento doveva cambiare a tutto svantaggio della Turchia: in Egitto Morsi veniva destituito e sostituito con il generale al Sisi, sostenuto dagli Stati Uniti e deciso avversario e persecutore dei Fratelli Musulmani, in Tunisia Ennahda perdeva il governo del paese, in Libia la coalizione Alba libica andava incontro a una sconfitta politica con la formazione del governo di unità nazionale, infine in Siria il regime di Assad, grazie all’aiuto militare russo e iraniano, riusciva a sopravvivere frustrando i sogni di Ankara.

Iniziava allora un braccio di ferro con la Russia per evitare la inevitabile sconfitta della coalizione dei gruppi ostili al regime siriano appoggiati da Ankara. La tensione con Mosca raggiungeva il culmine nel novembre del 2015 con l’abbattimento di un caccia russo impegnato in un raid in Siria contro i gruppi armati ribelli, accusato di essere entrato nello spazio aereo turco. La reazione da parte russa non si fece attendere, concretizzandosi in una dura campagna propagandistica, in sanzioni economiche e nel crollo del turismo russo in Turchia. Il governo turco fu accusato dal presidente russo Putin di essere il principale sponsor dello Stato Islamico.

La contesa fra gli imperialismi nel contesto mediorientale per il controllo dei luoghi di estrazione e delle vie di transito del petrolio, si è acuita, mettendo a dura prova i sogni di dominio regionale di Ankara.

È inoltre tornata ad accendersi la guerra interna contro le forze armate del Pkk, che ha visto, fra l’altro, il bombardamento a tappeto su Cizre, una città curda all’interno dei confini turchi. La guerriglia curda ha risposto con una serie di attentati contro postazioni di polizia e dell’esercito che hanno causato decine di morti. Una ondata di attacchi terroristici di stampo jihadista ha poi aggravato ulteriormente le relazioni con la minoranza curda, frequente obiettivo degli attentati.

Tutto questo ha coinciso con un certo rallentamento del tasso di crescita dell’economia, comune peraltro a tutti i cosiddetti Brics. Anche i grandi scioperi dei lavoratori del settore automobilistico scoppiati nel 2015, nonostante non si siano estesi ad altre categorie e non abbiano rappresentato un segnale deciso di ripresa generalizzata della lotta di classe, devono essere stati comunque motivo di allarme per la classe dominante turca.

La crescente disapprovazione interna turca rispetto alla politica di Erdogan rivolta alla Siria e al mondo arabo, incurante delle crescenti ripercussioni sia con la Russia sia, poi, con gli Stati Uniti, questi divenuti nel frattempo i principali sostenitori delle milizie YPG curdo-siriane; il malessere serpeggiante nelle file dei militari di leva, costretti a combattere una guerra civile interna nelle regioni del Kurdistan che dura ormai da più di 30 anni e che ha provocato molte decine di migliaia di morti, avrebbero spinto settori delle classi dominanti turche ad indurre i militari ad un maldestro e intempestivo tentativo di rovesciare il governo civile.

Le conseguenze del suo fallimento: all’immediato il partito di Erdogan ha rafforzato il controllo sulla società, sulle istituzioni, sull’esercito; allo stesso tempo hanno dovuto riorientare le alleanze internazionali con un riavvicinamento alla Russia e uno speculare allontanamento dagli Stati Uniti. Riguardo ai rapporti con Mosca, migliorati in maniera repentina con l’incontro fra Putin ed Erdogan pochi giorni dopo il tentato golpe, ci si può domandare se si tratterà di una svolta strategica o più semplicemente di accordi tattici per riprendere fiato in una situazione di difficoltà interna.

Una domanda, che forse può trovare una risposta con un altro interrogativo: vista l’impossibilità di continuare a svolgere un ruolo significativo nella guerra siriana, ormai sempre più dominata dalle grandi potenze mondiali, la Turchia rinuncerà a porsi come obiettivo il rovesciamento di Assad e opterà per una politica di più basso profilo, limitando le sue pretese all’impedire la formazione di una entità curda ai suoi confini meridionali, togliendo il suo appoggio ai gruppi ribelli soprattutto nella zona di Aleppo?

Cerniera fra Europa e Asia lungo la linea di faglia geostorica che dai Balcani si protende sul Medio Oriente, la Turchia teme infatti il contagio della disintegrazione degli Stati sul suo confine sudorientale. La rinuncia a richiedere la caduta di Assad da parte di Ankara è senz’altro il presupposto fondamentale per consolidare il riavvicinamento con Mosca. Non si può escludere che questa alleanza divenga col tempo organica grazie alla reciproca integrazione fra industria turca da una parte e petrolio e gas russi dall’altra, nonostante l’appartenenza della Turchia alla NATO.

La relativa debolezza economica della Turchia – è soltanto il 17° paese nella gerarchia mondiale in termini di Prodotto Interno Lordo – e la sua posizione in rapporto alle altre potenze la condannano, nonostante disponga in ambito NATO dell’esercito più numeroso dopo quello degli Stati Uniti, ad una sostanziale ambivalenza nella politica delle alleanze e a fragilità delle stesse.

La borghesia turca è però costretta a questa politica estera soprattutto a fini di politica interna, contro la minoranza curda e contro la combattiva e relativamente giovane classe operaia: teme che una crisi interna alla sua compagine statuale, in questo periodo di grave crisi economica, venga ad indebolire la sua presa sul suo vero nemico, il proletariato industriale più numeroso fra i Paesi del Mediterraneo.

PARTITO COMUNISTA INTERNAZIONALE

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