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    (20 Ottobre 2016)

    Susanna Camusso allontanata dal vertice FIOM

    Senza voler rivendicare alcuna pretesa di lungimiranza o primogenitura mi permetto, scusandomi per il disturbo, di allegare di seguito la dichiarazione rilasciata oggi dalla segretaria generale della CGIL Susanna Camusso, e un articolo dello scrivente risalente al 2005, nel merito di un decreto governativo sulla competitività.
    Decreto governativo del governo Berlusconi, collocato su di una linea che facilmente può essere rintracciata nella continuità con il decreto sull’industria 4.0 del ministro Calenda titolare nel governo Renzi.
    In tutto questo periodo il sindacato confederale non ha assunto alcuna iniziativa coerente su questo terreno lasciando passare tutto quello che è passato sul piano del rovesciamento della possibilità di sviluppare investimenti pubblici e nella gestione pubblica in incentivi destinati soltanto ad alimentare speculazione e incremento dello sfruttamento dei lavoratori.
    Oggi ci si fa vedere nell’atto di risvegliarsi improvvisamente.
    Scrivo queste cose dedicandole agli esponenti dei sindacati di base che , giustamente, per domani 21 ottobre hanno proclamato uno sciopero generale organizzando anche, per il giorno seguente 22 ottobre, un “No Renzi day”.
    Augurando il miglior successo alle due iniziative, entrambe importanti e necessarie e sollecitando la rinascita di un sindacato confederale di classe ritengo utile ricordare questi passaggi di riflessione sull’intervento e la gestione pubblica dei settori decisivi della produzione e dell’economia (di mezzo, naturalmente, anche la questione della nazionalizzazione delle banche).
    Si tratta, almeno a giudizio di chi scrive, di elementi fondamentali per la costruzione anche di un programma di politica alternativa: alternativa per la quale in ogni caso continua ad essere assente la soggettività politica di riferimento.
    Nel programma dell’alternativa naturalmente assume assoluta centralità un argomento che non viene qui trattato per ragioni di economia del discorso ed è quello europeo.
    Mi pare, però, che la tensione verso una fuoriuscita da quel quadro imposto da Commissione e BCE debba essere mantenuta e intensificata all’interno di una qualità diversa di progettualità politica rispetto a quanto sta esprimendo la residuale sinistra nel nostro Paese.

    Questa la dichiarazione (in colpevole ritardo, ad essere molto generosi) di Susanna Camusso:

    “Ci vogliono più investimenti pubblici di quelli che si fanno e bisognerebbe fare meno bonus e più investimenti strutturali”. Così il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso intervistata da Giovanni Minoli a Mix24 su Radio 24, che alla domanda se era meglio quando c’era l’IRI, risponde: “Sì, assolutamente sì, e servirebbero delle partecipazioni statali. L'industrializzazione di questo paese, dal punto di vista della grande impresa, l'hanno fatta le partecipazioni statali e a quello mi riferisco ovviamente, non alla gestione. E le grandi nazioni concorrenti hanno sistemi di partecipazioni molto forti”.

    Questo l’articolo del 2005 (naturalmente i dati risalgono all’epoca: 11 anni or sono)
    Il punto vero, su cui riflettere, risiede invece nella realtà economica e produttiva del Paese, verso la quale il decreto sulla competitività si rivolge.
    Un quadro drammatico, di vera e propria stagnazione (come dimostrano le cifre dell'incremento del PIL), sul quale hanno puntato il dito i lavoratori del settore auto nel loro sciopero nazionale e che può essere riassunto, con queste cifre: a gennaio le aziende italiane ufficialmente in crisi (Cig, mobilità, licenziamenti collettivi e quant'altro) erano 3.310; alla fine del 2003 erano quasi 2000 di meno.
    Dal punto di vista dell'occupazione, il 15% dei dipendenti delle imprese con più di 20 dipendenti, rischia il posto di lavoro.
    Il tessuto produttivo nazionale attraversa, da anni, una crisi strutturale che condiziona l'economia del Paese e non si riesce a varare una efficace programmazione economica, all'interno della quale emerga la capacità di selezionare poche ed efficaci misure, in grado di incrociare la domanda di beni e servizi e promuovere una produzione di medio e lungo periodo.
    Appaiono, inoltre, in forte difficoltà anche gli strumenti di rapporto tra uso del territorio e struttura produttiva, ideati nel corso degli ultimi vent'anni allo scopo di favorire crescita e sviluppo: il caso dei distretti industriali, appare il più evidente a questo proposito.
    Da più parti si sottolinea, giustamente, il deficit di innovazione e di ricerca.
    Ebbene, è proprio su questo punto che appare necessario rivedere il concetto di intervento pubblico in economia: un concetto che, forse, richiama tempi andati, di gestioni disastrose e di operazioni “madri di tutte le tangenti”.
    Oggi si tratta di riconsiderare l'idea dell'intervento pubblico in economia.
    Emerge, infatti, la consapevolezza di dover finanziare l'innovazione produttiva: questo deve essere fatto, comunque, a livello europeo, perché il nostro gap (ulteriormente cresciuto, nel corso degli ultimi anni) non riguarda soltanto gli Stati Uniti, ma anche i paesi dell'Unione.
    Mentre il mercato internazionale (come scrivevano Bosco e Romano, qualche giorno fa sulle colonne del “Manifesto”) si specializzava nei beni di investimento ed intermedi, con alti tassi di crescita, l'Italia si specializzava nei beni di consumo, con bassi tassi di crescita.
    Nel 1990 (queste le responsabilità politiche vere del pentapartito, mentre Amato e Intini, tra i principali responsabili del disastro, fanno i portavoce unici dell'Ulivo) i paesi europei erano tutti in condizione di debolezza e tutti, tranne Portogallo, Grecia, ed Italia, hanno modificato le proprie capacità tecnico – scientifiche diffuse, al fine di agganciare il mercato internazionale.
    Non a caso i Paesi europei hanno una dotazione tecnologica, costruita anche grazie al supporto e all'intervento diretto del settore pubblico, che permetterà di guardare al proprio futuro in modo più consapevole, mentre l'Italia dovrà importare l'innovazione da altri e rinunciare anche allo sviluppo di segmenti alti del mercato del lavoro, rinunciando all'informatica, all'elettronica, alla chimica, addirittura all'agroalimentare.
    Siamo, a questo punto, al nodo dell'intervento pubblico in economia, che va rivolto prioritariamente, alla capacità di finanziamento e di regolazione verso i soggetti capaci di generare innovazione: l'Università, in primis, L'Enea, il CNR, le grandi utilities rimaste pubbliche, al punto di far pensare ad una proposta, rivolta ad un possibile futuro governo progressista, di una Agenzia per la ricerca.
    Si tratta di rilanciare un intervento pubblico in economia in grado di stabilire criteri vincolanti di collaborazione anche con imprese miste, nel cui quadro interventi di finanziamento siano collegati alla generazione di processi di alta ricaduta industriale ed al perseguimento di precisi obiettivi di crescita occupazionale, nei settori avanzati e non tradizionali.
    Si tratterà di un processo lungo e difficile, che presuppone di non affidarsi interamente al mercato e ai suoi meccanismi, ma preveda una capacità di intervento del pubblico, sia sotto l'aspetto della programmazione, che della correzione degli indirizzi generali.
    Savona, li 12 Marzo 2005 Franco Astengo

    A cura di Franco Astengo

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