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L'Aquila 2011

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(7 Aprile 2011) Enzo Apicella
A due anni dal terremoto, nonostante le promesse di Berlusconi, L'Aquila è ancora un cumulo di macerie

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Non chiamatele più emergenze! Noi questa società e questo mondo vogliamo cambiarli! Chi ci sta?

(1 Novembre 2016)

effetto sisma

E' assolutamente inutile e sbagliato parlare di emergenza terremoto in un paese dove ogni 5 anni si verifica un sisma di forte intensità, dove il dissesto idrogeologico causa disastri dopo disastri non appena arrivano le piogge autunnali, dove l'ambiente è offeso e violentato da inquinamento e da rifiuti tossici e velenosi seppelliti dove capita.

Non sono più emergenze da affrontare con misure temporanee, “un tanto al chilo”, con toppe da apprendisti stregoni o da faccendieri da rapina.

In un paese come il nostro che basa gran parte della sua economia sul turismo ambientale e su quello culturale, che ha migliaia di chilometri di coste, che ha bellissime montagne e campagne e che da sempre è a forte rischio sismico, serve un piano generale che parta dal risanamento dell'ambiente, del mare, dei fiumi, delle campagne. Un piano che si basi sull'energia alternativa e non sul petrolio, un programma di studio ed analisi del suolo e dei corsi d'acqua per prevenire frane e alluvioni, che predisponga un rimboschimento delle nostre montagne spesso preda di incendi e frane, che ripulisca le nostre campagne e le restituisca ad un'agricoltura efficiente e sana.

Un progetto nazionale che preveda la messa in sicurezza delle zone a rischio sismico attraverso l'adozione di vincoli e prescrizioni sia rispetto al patrimonio pubblico, sia privato, sia quello da costruire, sia quello esistente.

Un piano che faccia della prevenzione e della cultura ambientale il proprio presupposto, non soltanto a livello strutturale e politico, ma anche culturale.
Per fare tutto questo servono soldi, tanti soldi. Ma qualcuno ha fatto i conti di ciò che costa l'emergenza continua a livello sismico, ambientale ed idrogeologico? Quanti miliardi si spendono ogni anno, senza parlare poi delle vite umane che si perdono e delle conseguenze sanitarie e sociali delle tante tragedie che investono il “belpaese”?

Il meccanismo dell'emergenza, cioè la filosofia del “mettere a posto le cose” dopo che accadono, serve a decuplicare i regali a costruttori e “prenditori” a vari livelli che molto spesso speculano su queste tragedie, si arricchiscono senza neanche restituire nulla alla comunità, al bene comune.

Un piano diverso dovrebbe essere invece nazionale e generale, un progetto pubblico realizzato dal pubblico e non dai privati. Un piano che duri anni, decenni, che rimetta in moto anche l'economia con centinaia di migliaia di posti di lavoro stabili, con sviluppo di professionalità sul territorio.

Un progetto a lunga scadenza che, proprio perché ideato e gestito dallo stato, non abbia fini di lucro ma l'unico obiettivo di rimettere in sesto questo malridotto paese.
Ma si tratterebbe di miliardi e miliardi impegnati per anni, alla faccia dei vincoli e dei trattati europei, del pareggio di bilancio e anche redistribuendo ricchezza dalle tasche di chi di soldi ne ha tanti, troppi, verso la comunità, attraverso una patrimoniale seria nei confronti dei grandi capitali.

Si tratterebbe di gestire investimenti enormi e non certo attraverso banche private, ma costruendo un soggetto statale, una sorta di IRI degli anni duemila, che di Ricostruzione abbiamo proprio bisogno.
Si tratterebbe di rivedere i parametri di convivenza stessa in un paese che ormai sta facendo dell'individualismo e dell'egoismo la principale caratteristica dei rapporti sociali ed interpersonali.

Servirebbe un diverso impegno politico e sociale, lontano migliaia di chilometri dalle forze politiche che hanno guidato il paese sino ad oggi e sicuramente diverso anche da chi oggi pensa che l'unico elemento salvifico nel panorama politico è rappresentato dall'onestà. L'onestà è un prerequisito che da solo non serve a nulla se non si ha in testa un progetto politico e sociale diverso da quello che, con sfumature diverse, ha gestito l'Italia nei decenni di vita “democratica” dal dopoguerra ad oggi.

Qualcuno dirà: ma voi state disegnando una società che non esiste, un sogno, un'utopia. Noi pensiamo di no. Si tratta soltanto di avere il coraggio di cambiare, di avere la capacità e la volontà di farlo.

Fino a quando quello che qualcuno chiama utopia non farà parte dei nostri obiettivi, rimarremo seduti sui nostri divani a piangere sui morti di un terremoto, sulla distruzione prodotta da una valanga, da un incendio o da un'alluvione, sullo scenario sconfortante di un ambiente devastato e violentato, benedicendo i nostri vigili del fuoco che sembrano ormai angeli abbandonati in un paese infernale, componendo poi un numeretto magico sul telefonino per donare due eurini pensando di salvarci la coscienza.

Noi non ci stiamo! E' per questo che un sindacato, una formazione sociale come USB, non si rassegnerà mai a gestire il gestibile, alla politica della riduzione del danno.
Noi questa società e questo mondo vogliamo cambiarli! Chi ci sta?

31/10/2016

USB

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