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    Sulla Riforma Costituzionale

    Lettere dell’Istituto n. 20

    (29 Novembre 2016)

    L'attuale campagna referendaria è gravata da una pesante cappa propagandistica fatta di spot elettorali quando non di veri e propri imbrogli. Questo ci costringe a fare un breve excursus sulle principali modifiche che questa riforma introdurrà per poi passare ad una più approfondita analisi.
    La riforma costituzionale Renzi-Boschi riscrive 47 articoli della seconda parte della costituzione con l'effetto di modificare sia la forma di governo che dello Stato.
    Su questo gli italiani sono chiamati ad esprimersi.
    Attraverso la modifica del Titolo V si sottrae autonomia finanziaria e legislativa a regioni, comuni e città metropolitane neo costituite, secondo gli obblighi del Pareggio di Bilancio già in Costituzione; con il superamento del Bicameralismo perfetto, si restringe il Parlamento alla sola Camera dei Deputati, assegnando a questa la quasi totalità dell'azione legislativa su tutti i temi più importanti inerenti la gestione dello Stato e sui quali il Senato non avrà più competenza. Questa camera, quindi, diventa “tutto” il Parlamento per come noi oggi lo conosciamo. Ai futuri senatori -nominati fra 74 consiglieri regionali e 21 sindaci e non più eletti direttamente dai cittadini- che chiedessero, a maggioranza, di esaminare le leggi della Camera dei Deputati, sono concessi tempi strettissimi per l'espletamento delle proprie prerogative tali da rendere impossibile un'azione reale sia di controllo che di “mitigazione”di questa Camera nei confronti dell'altra. È prevista, inoltre, una “clausola di supremazia” che consente alla Camera dei Deputati di scavalcare il Senato anche sulle poche materie di sua competenza. Basterà infatti una maggioranza assoluta dei componenti la Camera dei Deputati. Il funzionamento stesso del nuovo Senato non è ancora chiaro sia per la composizione dei sui membri che verrebbero ad avere due incarichi: quello regionale per il quale sono stati eletti e uno nazionale al Senato; sia per la reale funzione di coordinamento del nuovo Senato con la già esistente Conferenza Stato Regioni, che resta; sia per la ridotta autonomia che le Regioni avranno rispetto allo Stato e che riporta il paese ad un assetto statale quanto meno precedente al 1948. Attraverso l'istituzione del disegno di legge “a data certa”, poi, il governo può imporre al neo Parlamento di discutere le proprie priorità inserendo, in via obbligatoria, un disegno di legge che egli ritiene fondamentale per l'attuazione del proprio programma ed in questo caso i tempi di una eventuale verifica (se richiesta) da parte del Senato sono addirittura dimezzati.
    Fin qui la riforma costituzionale. Se poi aggiungiamo l'effetto degli ultimi sistemi elettorali fondati sul premio (truffaldino) di maggioranza, si ottiene di mettere la Camera dei Deputati “interamente” sotto il controllo dell'esecutivo, ovvero di una sola forza politica o coalizione. Tale partito o forza politica si trova, così, a controllare di fatto l’intero Stato (anche con percentuali elettorali bassissime nel caso della legge Italicum) realizzando una impropria sommatoria dei poteri esecutivo e legislativo e ponendo, per questa via, serie pregiudiziali riguardo l’autonomia dello stesso potere giudiziario e del presidente della repubblica, relativamente all’atto della sua elezione.
    Ci si potrebbe fermare qui per capire che questa legge non può essere considerata una “riforma” della Costituzione italiana ma piuttosto la sua cancellazione giacché si presenta quale ritorno ad una forma di Stato e di governo liberale autoritario e centralizzato precedente alla Repubblica Democratica Parlamentare, di cui si conserva solo il nome; oltre ad essere alterazione degli stessi principi democratici costituzionali fondati sulla distinzione ed autonomia dei tre poteri dello Stato: esecutivo, legislativo, giudiziario. Si delinea già qui il senso della riforma e di quella “democrazia decidente” tanto sbandierata dai promotori del “si”: l'annullamento della normale dialettica democratica parlamentare tale da consentire ad un esecutivo -espressione di una parte nemmeno maggioritaria del paese- di realizzare un pesante condizionamento sull'unica Camera deputata a legiferare delle sorti dell'intero paese.
    Le ragioni immediate di questa riforma sono chiarite dagli stessi promotori. Dal fronte del “si”, infatti, ci viene chiaramente detto che i cambiamenti apportati servono per raggiungere una maggiore “competitività” del paese ed appetibilità rispetto ad investimenti di privati, fondi, aziende, ecc. Fare la riforma costituzionale, ci viene detto, vale più punti di pil di una manovra economica. Il riferimento è sia al Piano Junker e ai 11 miliardi previsti per l'Italia, di cui 7 al Sud, che a presunti investimenti statunitensi. Da qui il martellante ritornello degli investimenti da agganciare. Investimenti senza i quali tutti i grandi progetti annunciati dal governo Renzi non si attueranno: da Industria 4.0 al Ponte sullo stretto.
    Questa riforma, dunque, altro non è che lo strumento per garantire l'ingresso di capitali e grandi gruppi economico finanziari, che avranno nel governo il loro unico interlocutore, e rendere commerciabile la costituzione e l'intera vita sociale del paese. Tutte le chiacchiere sull'ammodernamento delle istituzioni, la stabilità dei governi, la velocità ecc, ecc servono a coprire questo stato delle cose. Il quadro allora è quello di un paese a sovranità ridotta sia per effetto delle normative europee varate dal 2009 ad oggi, sia per la sua condizione materiale di desertificazione industriale e conseguente impoverimento sociale.
    Tutta la riforma, in definitiva, si riduce alla semplice trasposizione delle principali decisioni assunte dalla Commissione Europea, a partire dal 2009, in materia di stabilità dei bilanci pubblici e Mercato Unico Europeo (Europlus, fiscal compact, six pack, two pack, ecc), garantita da un controllo diretto del governo su tutta l'attività amministrativo economica del paese. Essa scaturisce direttamente e necessariamente dalla legge sul Pareggio di Bilancio imposta da Monti nel 2012 e dalla stessa legge 234 del 2012 emanata in sua attuazione -i cui punti chiave sono equilibrio di bilancio e ciclo economico. Mentre la riduzione dei poteri regionali in capo allo Stato, funge da potente acceleratore per i traffici e gli interessi dei grandi gruppi sul territorio nazionale il cui unico interlocutore diventa appunto il governo.
    Per attuare questo disegno complessivo occorre, necessariamente, sottrarre legittimazione democratica e potere decisionale ai territori, e dunque ai cittadini. Ne avevamo avuto chiara avvisaglia con il referendum sulle trivelle. La materia del contendere lì era esattamente l'azione di scavalco da parte del governo a danno delle leggi regionali e del volere democratico espresso dai territori al fine di favorire alcuni gruppi petroliferi; abbiamo avuto, cioè, una anticipazione dell'effetto della riforma che si voterà il 4 dicembre. Ma su queste normative europee e la loro trasposizione secca in costituzione, in Italia come in molti altri stati europei, non c'è condivisione; esse non rappresentano una scelta e neppure un orientamento di una parte maggioritaria del popolo italiano o europeo (come i pochi referendum indetti hanno ben dimostrato dal 2004 ad oggi). Ben altri sono stati gli orientamenti e le decisioni assunte da una larghissima maggioranza del paese, anche di diversa natura culturale e politica, sui temi inerenti la crisi, il mercato, il futuro sviluppo della società (come quelle sui Beni comuni, l'acqua, ecc).
    L'attuale progetto di riforma costituzionale si presenta, pertanto, quale fatto imposto al popolo italiano presentato sotto la falsa veste di un ammodernamento istituzionale che, invece, stravolge la costituzione e abbassa drasticamente i livelli di democrazia nel paese ad uso e consumo degli interessi privati di grandi gruppi e fondi di investimento. Il tutto gravato da una pesante retorica futurista, di nuovismo, delle sorti gloriose del paese che diventerà più forte e più efficiente.
    Ora è evidente che sul corpo della costituzione si stanno giocando tensioni e scontri che riguardano due punti chiave che i quadri devono comprendere e sui quali devono attrezzare risposte: la crisi dello Stato nazionale nella fase di ristrutturazione capitalistica e le nuove forme del Lavoro e delle forze produttive che alimentano la crisi capitalistica.
    La riforma in discussione cerca di imporre una nuova forma e un nuovo assetto dello Stato nazionale, determinando un più rigido controllo sul Lavoro e sulla società quale risposta, miope, allo sviluppo delle forze produttive e della crisi capitalistica.
    La crisi economica e finanziaria e la conseguente ristrutturazione capitalistica spingono ad un generale ridisegno della produzione su scala mondiale modificando non solo la mappa di imprese e gruppi ma anche la vocazione di interi territori, di interi conteniti sotto la spinta dello sviluppo scientifico e tecnologico. Dal 2009 va a completamento una nuova divisione internazionale del lavoro (tutt'ora in atto) all'interno della quale si formano, attraverso processi contraddittori mai lineari, nuove aree di mercato trans nazionali e trans oceaniche (Mercato Unico Europeo, TTIP, CETA, TPP) al fine di creare condizioni più favorevoli per i vari gruppi e società, in guerra fra loro. Queste modifiche materiali impattano sulla società, sulle sue forme istituzionali, sulle sue leggi determinando una grave crisi dei sistemi democratici e sociali esistenti, aprendo ad una nuova e più intensa fase di crisi dello Stato nazionale e dei partiti politici che lo compongono.
    Un punto chiave della discussione sull'attuale riforma è, allora, la crisi dello Stato nazionale e dei partiti della seconda repubblica.
    Il livello più alto di questa crisi politica profonda è segnato dalla nascita del governo Monti e l'affermazione del Movimento 5 stelle con le lezioni del 2013. Tra il 2011 ed il 2012 l'intera classe politica italiana viene precettata e messa a rimorchio di un uomo garante delle istituzioni finanziarie Europee e statunitensi, Mario Monti. L'intero paese commissariato e le sue istituzioni democratiche sospese. Monti, console d'Italia, avvia una stagione inedita nella storia dalla Repubblica democratica italiana. Con la defenestrazione del governo Berlusconi eletto nel 2008 si apre nel paese un vuoto di potere che le altre forze politiche italiane non proveranno a gestire. Esse lasceranno campo libero alla soluzione voluta dalla Bce e dal Fmi mostrando tutta la loro subalternità e incapacità ad essere soluzione alternativa. Con Monti ed i due ultimi governi non eletti avviene un salto di qualità nel processo di svuotamento della funzione e ruolo dei partiti politici esistenti ed un conseguente salto in avanti sulla via di un irreggimentamento della vita politica italiana, aprendo così a vere e proprie forme di cesarismo e bonapartismo -ben espresse nella sostanza e nel metodo delle leggi del governo Renzi: Jobs Act, Buona scuola, ecc. Fino a ieri, infatti, erano i partiti a tenere costantemente in ostaggio o sotto pressione l'azione di governo determinandone l'instabilità. Oggi con il Letta-bis e poi Renzi si verifica un fatto nuovo: è il Governo che diventa centro e assume sempre più la forma di governo-partito, l'unico vero partito esistente oggi in Italia. Al quale si cerca di dare anche una forma definita: il partito della nazione. Il controllo dello Stato si concentra allora tutto sul controllo del governo e di questo sul paese. La riforma Napolitano-Renzi eredita questo stato delle cose e vi dà una sistematizzazione costituzionale assegnando, appunto, al governo il pieno controllo dello Stato.
    La forma del governo-partito o del partito della nazione va ben compresa. In Italia, la crisi economica ha selezionato nuovi blocchi di potere, modificando e trasversalizzando i precedenti schieramenti che, quindi, non sono più utili a leggere il movimento delle classi e loro organizzazione. I settori interessati sono quelli bancari, delle assicurazioni ma anche delle imprese (vedi associazione piccole e medie imprese), il controllo dei cda dei grandi gruppi pubblici, le cooperative (l'Alleanza).
    Questi nuovi gruppi di potere si riorganizzano all'interno della rappresentanza politica ed istituzionale e spingono per il controllo dello Stato ovvero dei finanziamenti pubblici (nazionali ed europei: piano Junker che rimanda al cosiddetto new deal europeo, al nuovo Libro Bianco dell'Europa sulla linea di quello redatto da Delors alla metà degli anni '80). Il cuore dello scontro è sempre il controllo dei nuovi settori produttivi (green, informatica, iot, digitale, automazione, industria 4.0, biogenetica, aerospaziale, ecc). In questa modifica degli equilibri fa gruppi e famiglie, una parte della classe politica italiana viene fatta fuori e così il blocco di potere che la sosteneva. Di qui va letta e spiegata la grande conflittualità nel Pd, in FI e in altri partiti di centro, così come l'enorme trasformismo di questi anni. Il governo Renzi è allora espressione di una nuova classe politica, specchio dei nuovi equilibri di potere, che fa fuori la vecchia e questa che si difende. La nuova è, in parte, frutto della trasversalizzazione dei vecchi poteri, in parte diretta influenza di gruppi finanziari soprattutto americani. Il governo Renzi è poi anche il problema della gestione dello scontro politico fra diverse fazioni e del consenso popolare nella fase di ulteriore decadimento dei partiti e della rappresentanza politica e dunque degli stessi livelli di democrazia, ben espressa dal voto del 2013 che ha dimostrato l'assoluta perdita di consenso e di tenuta dei partiti della seconda repubblica. Altro che problema del bicameralismo! La tesi secondo la quale i mali delle istituzioni stanno nel bicameralismo o nel regionalismo è semplicemente falsa. È vero, invece, che la condotta scellerata delle classi politiche italiane, tutte, dall'89 ad oggi ha condotto il paese ad uno stallo. Litigiosità e assenza di progettualità politica, le cause. Sono le tare storiche della borghesia italiana che vengono esasperate con lo scoppio della crisi del 2007-2008. Per quasi dieci anni il parlamento è stato di fatto svuotato e bloccato dai continui ricorsi alla fiducia, dai maxi emendamenti, dai mille proroghe, dai decreti d'urgenza, ecc. La corruzione e l'affarismo sono diventati strutturali. La progettualità politica è sostituita da una ininterrotta campagna elettorale, i programmi dei partiti politici ridotti a programmi elettorali di brevissimo periodo, fatti e disfatti continuamente a seconda dell'altalenante sorte dei governi.
    Il dato da registrare è allora che la classe politica italiana, scaturita dal nuovo scenario internazionale precedente e seguente la caduta dell'Urss, ha fallito e consegnato il paese alla rovina. Quell'esperienza, venduta come un nuovo ordine mondiale di successi e ricchezze per tutti, ha mostrato tutta la sua inconsistenza e falsità. Oggi si prova a coprire questo fatto scaricandone la responsabilità sulle istituzioni, sulle regole, sul loro funzionamento. Anzi si cerca di alterare pericolosamente le regole democratiche di un paese per barare ancora , per cercare di resistere un secondo in più. Ma è pura demagogia, un imbroglio e nulla più. Tutta qui anche la questione della instabilità dei governi. Essa origina da una debolezza dei partiti e dunque dello Stato rispetto alle misure imposte dal capitale europeo. La stabilità dei governi è pertanto funzione di una più grave subalternità dell'Italia a queste misure. Il dato da fissare è che questo processo di perdita della sovranità nazionale e di assalto allo Stato si risolve tutto a danno dei pariti politici esistenti -che vanno letteralmente in frantumi- e del loro consenso.
    L'altro punto chiave della riforma è che l'assalto allo Stato si realizza attraverso l'assalto al Lavoro.
    Come è avvenuto negli anni '80, si ripropone oggi la tesi dell'adeguamento della costituzione italiana e dell'assetto dello Stato al mercato, all'andamento dell'economia, al succedersi periodico delle crisi economiche e finanziarie per migliorare le performance dello Stato e dell'economia nazionale. È questa, poi, la visione del grande capitale internazionale che legge i vari sistemi democratici nazionali quali “intralci” alle proprie scelte (discusse solo all'interno dei propri CdA); visione attuata attraverso la tesi, mai dimostrata, della centralità d'impresa su lavoro e sulla società.
    In Italia lo scoglio è sempre stato il superamento della Costituzione e l'abbattimento delle forze del movimento operaio: partiti e sindacati. Lo scoglio era ed è la centralità del Lavoro sancita dalla Costituzione e dalle lotte del movimento operaio italiano. Essa rappresenta un'eredità scomoda per l'occidente capitalista ed una eccezione nel panorama europeo all'indomani della caduta dell'Urss e dei paesi socialisti. L'attacco al lavoro, alla contrattazione, al dritto del Lavoro, pensioni, alle organizzazioni sindacali più in generale, al diritto di sciopero, ecc fanno parte dell'attacco all'impianto complessivo della costituzione italiana, al suo carattere di “costituzione sociale”, ai “diritti sociali” lì previsti. Decontrattualizzazione (del lavoro, ecc) e decostituzionalizzazione sono due facce della stessa medaglia e costituiscono l'assalto tanto alla prima quanto alla seconda parte della Costituzione condotto sulla base delle tesi della centralità d'impresa e del mercato.
    Questa tesi si è, tuttavia, dimostrata fallimentare in tutto il mondo. Frutto della propaganda del capitalismo libero di muoversi senza impacci dopo l'89, ha sistematicamente prodotto instabilità, acuito i cicli di crisi economica, provocato impoverimento materiale e sociale di tutti i paesi. Le cosiddette “evidenze scientifiche” che si citano a sostegno di questa tesi hanno tutte mancato ogni previsione. Più in generale, tutte le teorie economiche prevalenti si sono dimostrate fallimentari; le loro categorie non sono in grado né di prevedere né di comprendere la realtà economico produttiva in atto. La base teorica di questa riforma si fonda, dunque, su una lunga fila di fallimenti e viene spacciata per la soluzione alla crisi. Ed ancora una volta, dal periodo di Craxi, si torna a parlare di uomo forte, di governo forte e di adeguamento della Costituzione per coprire l'inconsistenza di quelle tesi. Ma un Governo forte ai tempi di Craxi era una cosa...dopo Maastricht, il trattato di riforma costituzionale della Ue, la crisi e direttive UE dal 2009 in poi, quello Stato nazionale non esiste più. Non può più agire sulla moneta, né sull'indebitamento per investimenti, né sulla leva del Fisco (già elevatissimo). Lo stesso sviluppo delle forze produttive, del Lavoro, della Conoscenza gli sfugge perché mondiale. Lo stravolgimento costituzionale proposto, pertanto, non è un ritorno dello Stato forte, diretto da un centro forte, come pure si sostiene, ma è momento di ulteriore penetrazione del grande capitale internazionale nella direzione dello Stato.
    Il dato da fissare è che un simile stravolgimento costituzionale avviene in Italia. Francia, Germania, Usa, Olanda, ecc, ecc ugualmente attraversate dalla crisi, non modificano mezza costituzione per farvi fronte. Anche in Spagna non avviene, eppure per mesi non si è riusciti ad eleggere un governo, creando uno stallo istituzionale senza precedenti. In Grecia si è stravolto lo Stato e la costituzione de facto attraverso il ricatto della “bancarotta”, ma non si è avuto un progetto organico di revisione costituzionale come da noi. Perché in Italia allora? Perché qui la crisi dello Stato nazionale e dei partiti politici post '89 ha caratteri particolari e la soluzione che l'Italia adotterà peserà sul più complessivo orientamento degli stati europei. L'Italia riveste ancora un ruolo centrale nello scontro di classe sullo scacchiere europeo e nell'area del mediterraneo. La sua modesta classe borghese, per lo più bottegaia e arraffona, la particolare condizione delle classi, la presenza di un movimento operaio le cui conquiste hanno prodotto un difficile terreno da riassorbire e modificare sia sotto il profilo politico che teorico, ne fanno ancora un problema aperto per la grande borghesia internazionale. È questa la transizione “mancata” che tutta la classe politica (internazionale!) lamenta. Mentre in Polonia..., mentre in Romania......in Lettonia. In un momento in cui molti paesi sono governati da forze e partiti di destra -sia essa legata al grande capitale europeo come la Germania o a forme ultra-nazionalistiche e fasciste come quelle di alcuni stati dell'Est Europa- dove penderà l'Italia è decisivo per il futuro assetto dell'intera Europa e dell'intero movimento progressista e di sinistra europeo.
    Difendere la costituzione italiana assume oggi il senso di difendere una frontiera comune in tutta Europa per tutte le forze progressiste.
    Va pertanto riaperto da subito un ampio dibattito fra tutte le forze progressiste e di sinistra sulle nuove forme di Stato e di direzione dei processi economici e politici. In questo dibattito la carta del 48 mantiene non soltanto tutta la sua forza ed attualità ma assume una specifica centralità.
    La costituzione italiana del 48 va applicata e non stravolta. Non per ragioni di bandiera o affettive. Solo nella normale dialettica democratica prevista dalla carta costituzionale italiana può essere ritrovato un reale spazio di rappresentanza di tutte le classi e frazioni di classe esistenti e quindi delle loro istanze. Essa realizza un bilanciamento, il più avanzato rispetto alle carte costituzionali esistenti, fra alcuni temi chiave quali: i diritti ed i bisogni del cittadino rispetto allo Stato; i diritti individuali rispetto ai diritti sociali; l'interesse e l'intrapresa privata rispetto all'interesse pubblico, sociale, collettivo del paese (ovvero di tutte le sue classi e frazioni di classi); i beni extra commercium, ovvero come oggi vengono definiti beni comuni, rispetto al mercato. È l'unica carta costituzionale in occidente che ha affrontato e risolto questo complesso fascio di questioni. Essa è pertanto punto avanzato da mettere a base di una più ampia discussione.
    La carta costituzionale nasce dalla Resistenza ovvero da quel processo storico che ha portato, per la prima volta nella storia d'Italia, le grandi masse popolari alla direzione dello Stato, attraverso la lotta di liberazione dal nazifascismo. Il vecchio Stato liberale, autoritario e monarchico, espressione di una sola classe: la ricca borghesia italiana, legata al grande capitale finanziario internazionale e nazionale, viene superato. La grande partecipazione del popolo italiano -attraverso l’azione dei partiti di massa- fa emergere per la prima volta nel dibattito politico italiano quegli interessi, aspirazioni, bisogni, aspettative della stragrande maggioranza del popolo da sempre repressi e combattuti dalle classi dirigenti liberali. L’emergere di queste forze alla direzione dello Stato nazionale richiede e produce un grande sforzo di mediazione e di sintesi avanzata sia sul piano del diritto che su quello della scienza della politica che conduce alla scelta della forma di repubblica democratica parlamentare ed alla Carta del '48 (si rimanda qui interamente alla Lettera n 14 dell'Istituto). L’intero corpus della costituzione risponde di fatto a questa esigenza storica che per la prima volta, dalla nascita dello stato liberale, si pone nei paesi occidentali.
    È allora per effetto di questa sua particolare natura e storia che la repubblica democratica italiana è fondata sul Lavoro, giacché in contrapposizione al dominio e agli interessi economici del grande capitale e delle classi dirigenti liberali. Il lavoro al centro dello sviluppo del paese, dunque, in quanto espressione di quelle grandi masse mobilitate, per la prima volta dal Risorgimento, per dirigere lo Stato italiano. In quanto momento di direzione dello Stato. Il Lavoro posto al centro della Costituzione italiana non è pertanto espressione ideologica di una parte, ma collante di tutte quelle aspirazioni e interessi, per la prima volta saliti alla politica italiana, democraticamente; l'unico vero terreno sul quale quelle istanze possono trovare espressione.
    Il Lavoro è l'unità di misura della democrazia della repubblica italiana e della società moderna.
    È allora da qui che occorre ripartire per ridisegnare l'intero assetto delle future forme di organizzazione sociale. In questo senso, allora, la Carta costituzionale italiana è punto avanzato in occidente e base di una futura discussione ed elaborazione. Il movimento operaio e le forze progressiste occidentali hanno raggiunto questo punto avanzato.
    Il 4 dicembre deve allora essere visto come una tappa di questo percorso.
    L'intera sinistra italiana ed europea non ha un progetto e va a rimorchio dell'offensiva capitalistica. Oggi contro questa riforma domani contro un'altra e pesano già ora quelle sul lavoro, pensioni, banche, stato sociale, ecc. Senza contare il tema drammatico degli immigrati da tutte le zone di guerra e di disperazione che il capitale ha generato. In Italia abbiamo visto quali sono i rischi concreti di questo processo: i governi Monti, Renzi, la sospensione degli assetti democratici collegata alla crisi partiti: partito-governo e cesarismo. In questo sta la deriva autoritaria del paese, di cui la riforma costituzionale è solo una parte. Occorre uscire dall'angolo. Trovare elementi comuni di fondo da cui partire. La carta costituzionale italiana, in quanto costituzione-programma, può offrire molti spunti e temi al dibattito e costituire una base minima programmatica di riferimento.
    Come Istituto rimettiamo al centro, quale contributo, la proposta lanciata nel documento “Programma” che mantiene, a nostro avviso, ancora tutta la sua validità teorica.
    In breve lì si coniuga il livello raggiunto dallo sviluppo scientifico e tecnologico con l'esigenza di un nuovo piano del lavoro e si recuperano gli articoli 43, 45, 46 della Costituzione quali asse di questo Piano.
    In chiusura riportiamo un breve passo del Programma che ci auguriamo possa essere un momento di coagulazione delle forze progressiste italiane:

    (..) “Noi quindi poniamo da un lato il
    ripristino integrale della Carta Costituzionale al 1° gennaio 1984.
    Riteniamo il 1984 spartiacque, da cui erano partiti gli attacchi ed il ridimensionamento degli spazi sostanziali e formali della democrazia, e quindi anno da cui ripartire.
    Si tratta, cioè, di riprendere il cammino interrotto dall’offensiva capitalistica mondiale contro i lavoratori, il socialismo, la democrazia, la pace e la libertà.
    Riteniamo valida a tutt’ora la tattica del lungo cammino dentro le istituzioni elaborata dal Partito Comunista dalla svolta di Salerno e per tutti gli anni Sessanta-Settanta: Togliatti-Longo-Berlinguer.
    Poniamo, quindi, la Carta Costituzionale come punto di non–ritorno, da cui partire, per far avanzare la via al socialismo in Italia, nelle nuove condizioni determinate dalle innovazioni scientifiche e tecnologiche:
    dalla Carta Costituzionale al Socialismo”.


    22 novembre 2016

    ISTITUTO DI STUDI COMUNISTI
    Karl Marx - Friedrich ENGELS

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