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Occhio all'imperialismo umanitario!

La "nuova frontiera" di Walter l’Africano.

(29 Maggio 2005)

Dal 17 maggio è in corso, a Roma, una manifestazione dal titolo Italia Africa 2005: lo sviluppo vince la povertà. Essa avrà il suo culmine proprio oggi nel grande concerto a Piazza del Popolo. Sulla edizione speciale del magazine Vita, Veltroni spiega il senso della iniziativa, volta a “sensibilizzare e mobilitare l’opinione pubblica nazionale ed internazionale affinché il continente africano possa essere sostenuto sulla via dello sviluppo”. Il primo cittadino di Roma, poi, sottolinea i progressi compiuti dal continente africano – legati al fatto che in molti paesi si sono avute libere elezioni – e si riferisce criticamente al fatto che al prossimo G8 in Scozia, ove si discuterà dei problemi dell’Africa, i delegati africani saranno presenti solo in qualità di ospiti e non di protagonisti del dibattito. Insomma, ancora una volta l’esponente diessino sembrerebbe dimostrare di avere l’Africa nel cuore, ponendo il suo operato in continuità con la ormai notissima spedizione umanitaria degli studenti dei quattro più prestigiosi licei romani (Visconti, Virgilio, Tasso, Mamiani) a Maputo, in Mozambico, nell’ottobre del 2004. In quella circostanza, i giovani delle suddette scuole andarono nella capitale mozambicana a sincerarsi del buon uso dei fondi da loro raccolti su invito del sindaco, destinati alla costruzione di una scuola alla periferia della città. Alcuni di loro sono rimasti colpiti dal viaggio e, desiderosi di continuare a muoversi sul terreno della cooperazione ed anche, così dicono, di conoscere meglio la realtà africana, hanno dato vita all’associazione Kanimambo. La quale, infatti, ha già avviato concreti progetti con la Organizzazione non governativa Movimondo. Dunque, sembrerebbe che la passione di Veltroni lo abbia condotto a fare centro, raggiungendo intanto l’obiettivo di sensibilizzare e mobilitare settori giovanili. E chissà che anche le giornate di maggio per l’Africa non sortiscano effetti positivi, spingendo alla mobilitazione popolare per il raggiungimento degli obiettivi sottoscritti, seguendo una indicazione delle Nazioni Unite, dai capi di governo di tutto il mondo nel settembre 2000. Si tratta di obiettivi ambiziosi: l’eliminazione delle forme più estreme di povertà, l’istruzione primaria garantita a tutte/i, la riduzione di due terzi del tasso di mortalità infantile ecc. Ora, si dirà che chi, come Veltroni, si adopera per il perseguimento di queste finalità, deve godere della stima e del sostegno di tutte/i. Sennonché le iniziative e gli eventi promossi dal sindaco di Roma – peraltro beneficiari di una notevole copertura mediatica - presentano a nostro avviso risvolti decisamente negativi.

Ma come – dirà qualcuno – in nome del vostro furore critico, riuscite a mettere in discussione perfino un fenomeno nel suo complesso così positivo? Non si è forse avuta una preziosa testimonianza della spinta solidaristica degli studenti dei licei romani? Non si è poi di fronte ad un sindaco che, promuovendo manifestazioni come Italia Africa, si stacca dalle piccolezze della vita politica italiana, abbracciando grandi ideali ed uno spirito sinceramente umanitario? Ora, il problema sta proprio qui. Cioè, nel fatto che ogni volta che sentiamo parlare di slanci umanitari, più che dallo scetticismo – che comunque non ci risparmia – siamo presi dall’angoscia. Chissà, forse è il risultato d’un trauma. Quello rappresentato, nel 1999, dall’infinita pioggia di bombe che da devastato la Serbia. Non era quello un atto umanitario? Così almeno ce lo hanno presentato, in particolare “loro”, gli uomini politici della sinistra, quelli che vogliono amministrare lo sviluppo, gestire la modernità – in poche parole governare un presente dato per insuperabile – però concedendo attenzione pure ai poveri. Quelli, insomma, di cui Veltroni è, in Italia, tra i più significativi ed emblematici esponenti. A partire dai riferimenti culturali: Veltroni critica, peraltro in modo sommesso, l’America dei Neocons, ma ama in modo viscerale quella di John Fitzgerald Kennedy, ossia del presidente che parlava della nuova frontiera.

Già, la nuova frontiera. Essa, patrocinava l'aiuto allo sviluppo dei paesi poveri, attraverso il sostegno finanziario e l’assistenza tecnica, ma nella precisa ottica del mantenimento del predominio statunitense nei paesi "beneficiati" da tanta generosità. In sostanza, Kennedy muoveva dalla consapevolezza che il potere non si mantiene solo col bastone, che ci vuole pure la carota, cioè un imperialismo dal volto umano. Ora, qualcuno dirà che si sbaglia nell’accostare l’attuale interesse veltroniano per l’Africa a simili precedenti, pur evocati dallo stesso sindaco di Roma. Il motivo che potrebbe essere addotto dai nostri eventuali critici è il seguente: l’Africa oggi non sarebbe veramente dominata dall’occidente, anzi le principali potenze non farebbero altro che disinteressarsi delle sue drammatiche vicende. Ciò viene ribadito di continuo da personalità importanti del mondo cattolico: il missionario Piero Gheddo ed il fondatore della Comunità di Sant’Egidio Andrea Riccardi (tra i promotori della manifestazione Italia Africa). Ma è proprio così? A noi risulta che la spoliazione delle straordinarie risorse di quel continente da parte delle multinazionali continui, così da impedire che le popolazioni traggano qualsiasi vantaggio dalla presenza nei loro territori di oro, diamanti, petrolio, uranio. Anzi, proprio qui sta l’origine di tante tragedie, come la guerra che dilania da anni la Repubblica Democratica del Congo: uno scontro tra diverse fazioni che, oltre ad essere fomentato da tutti gli Stati confinanti, ha ricevuto una spinta decisiva pure da Stati Uniti e Francia.

Cioè dai due stati occidentali più presenti in Africa, in competizione tra di loro per il dominio su terre che – proprio in virtù delle immense risorse che vi si trovano– sembrano tutt’altro che dimenticate. Lo comprovano diversi fatti. Si pensi, all’intervento militare francese in Costa d’Avorio, che nel novembre del 2004 ha portato la potenza d'oltralpe a scontrarsi direttamente con il governo di Gbagbo e con le folle che lo sostengono. Tale iniziativa militare si è presentata in principio come difesa dei cittadini francesi residenti nella terra del cacao, poi come tentativo di risolvere - con il contributo dell'ONU e dei suoi caschi blu - una grave crisi interna, determinata da scontri tra le forze governative ed i ribelli. Ma ormai risulta chiaro a tutti che si tratta di una missione il cui fine precipuo è quello di mantenere quel controllo su un tradizionale avamposto francese in Africa che risulta minacciato dalla situazione di caos generatasi nell'autunno del 2002 ed ancora in atto, nonostante i vari tentativi di mediazione, tra cui quello recentissimo del Sudafrica .

Insomma, è chiaro che le potenze occidentali sono molto meno indifferenti di quanto non si dica al destino dell’Africa. Così come è chiaro - o dovrebbe esserlo - che, anche a prescindere da eventuali interventi delle grandi potenze a tutela dei propri interessi, questo continente rimane comunque interno al Mercato Mondiale. E soggetto a quelle leggi della divisione internazionale del lavoro che gli assegnano il ruolo passivo di fornitore di materie prime da lavorare altrove e di braccia – per estrarre le stesse – a costo contenutissimo. Che gli impongono, ancora, alcune coltivazioni in luogo di altre, di quelle, cioè, più legate ai bisogni delle comunità, all’idea di nutrire tutti in loco prima di esportare ciò che piace all’occidente.

Quindi, quando si parla di disinteresse verso l'Africa, nella peggiore delle ipotesi si è in malafede e si sta cercando un pretesto che possa legittimare una presenza occidentale dal carattere più esplicitamente coloniale, nella migliore non si capisce qual è il cuore del problema africano. Non si capisce, cioè, che porre i presupposti per risolvere i drammi di un continente, richiede il ribaltamento degli equilibri dati a livello planetario, la messa in discussione delle regole del mercato mondiale e la creazione di una autentica barriera all'azione delle multinazionali. In sostanza, si tratta di creare almeno le basi perché le comunità locali prendano in mano il proprio destino, perché conquistino autonomia nelle decisioni relative all'uso delle proprie risorse, al cosa, come, quanto produrre. Ora, tale discorso non rimanda alla presenza dei governanti africani al G8, poiché, anche nell’ipotesi più ottimistica, nel caso, cioè, che ad essi sia fatta recitare la parte – stridente con la realtà dei rapporti di forza a livello internazionale – dei protagonisti, non si perseguirebbe altro obiettivo che non quello di rabbonirseli e di stringerli più fortemente all’occidente. No, ciò che può mutare le cose veramente è la ripresa della parola da parte delle masse dei paesi africani, l’avvio di nuovi percorsi di liberazione che - al contrario di quanto asseriscono gli afropessimisti – non sono improbabili. Se ne avvertono le avvisaglie, ad esempio in una lotta come quella svoltasi in Nigeria nel novembre del 2004 contro il rincaro del carburante, nella quale i lavoratori hanno direttamente indicato le multinazionali del petrolio come la Shell come nemiche, senza peraltro fare sconti ad un esecutivo che vuole limitare la possibilità di fare sciopero. E non mancano, poi, precedenti storici ad indicare le capacità di riscatto che contraddistinguono le popolazioni africane. Anche in un passato recente, infatti, gli africani hanno ampiamente dimostrato dove può portare la loro spinta a liberarsi dalla tutela occidentale. Lo testimoniano tutte le lotte che hanno portato alla liberazione dal giogo coloniale delle potenze europee, a partire da quella svoltasi in Mozambico. Ora, la esemplarità di questa battaglia anticoloniale è data dal fatto che essa non si limitò a liberare - nella metà degli anni '70 - il paese dal feroce dominio portoghese, fece molto di più. Assieme alle coeve lotte che agitavano l'Angola e la Guinea Bissau, contribuì a minare la stabilità del Portogallo, a far crollare l'infame dittatura che vi imperversava da decenni.

Poi, certo, il Mozambico è stato strangolato da difficoltà in parte analoghe a quelle incontrate da altri paesi africani che avevano vissuto la esperienza della decolonizzazione, in parte legate al peculiare contesto geopolitico in cui si collocava. Un contesto inizialmente caratterizzato dall’azione di due paesi vicini allora governati da minoranze bianche e razziste, come la Rhodesia, presto emancipatasi e diventata Zimbabwe, ed il Sudafrica. I due pericolosi vicini, hanno sostenuto una guerriglia, la Renamo, al principio priva di qualsiasi programma politico - foss'anche di segno conservatore - e specializzata in una attività volta a distruggere le infrastrutture del paese. A questo problema, indubbiamente enorme, se ne deve aggiungere un altro, che rimanda alla scelte sbagliate adottate dal Frelimo, la forza che ha liberato il paese. Essa, nel corso della lunga lotta anticoloniale, ha avuto modo di evolversi politicamente, di abbracciare con chiarezza una ipotesi anticapitalista. Quindi, subito dopo l'indipendenza, la sua azione ha mirato in modo deciso verso la costruzione del socialismo. Ciò, però ha comportato l'adozione di uno specifico modello sociale, quello sovietico, sostanzialmente estraneo alla realtà mozambicana, perché legato ad un contesto socio-economico di partenza ed a vicende storiche assai differenti. E’ evidente che ciò non poteva che portare a degli insuccessi. Così, dopo l'accordo di pace conseguito nel 1992 con la Renamo, da quel momento reinventatasi come forza politica, il Mozambico si è instradato sulla via del risanamento, sottomettendosi a quei consigli del Fondo Monetario Internazionale che, al solito, ne hanno aumentato la dipendenza dall'occidente senza risollevarlo dalla miseria.

In pratica, la vicenda del paese su cui maggiormente, nei mesi scorsi, si è riversata l'attenzione umanitaria del buon Veltroni, è di quelle su cui bisognerebbe riflettere per capire meglio cosa accade nel continente più sfortunato del pianeta e per evitare di fiancheggiare impostazioni tutt'altro che condivisibili, come quella propugnata proprio dal primo cittadino di Roma. Il quale, nel mese di ottobre intervistato, dopo la inaugurazione della scuola elementare di Maputo, su una importante emittente televisiva locale (TeleRoma 56), ha sostanzialmente detto che certi gesti generosi servono anche ad impedire che un'Africa troppo povera diventi culla del mostro terrorista. Ora, se si analizza bene questo discorso, se ne capirà l'autentica natura, il legame con una ipotesi di imperialismo umanitario. E' evidente che il nostrano erede di Kennedy non si riferisce tanto al pericolo rappresentato da un possibile radicamento di Al Qaeda - peraltro, nell'Africa australe, assai improbabile - quanto a qualcosa che turba i sonni di molti occidentali. Ossia alla esplosione dell'Africa, al fatto che i suoi popoli alzino finalmente la testa, portando avanti la propria istanza di indipendenza anche, come sarebbe legittimo, con la forza, da usare contro quelle potenze che sempre meno si preoccupano - a distanza di decenni dai processi di decolonizzazione - di mascherare i propri intenti.

Sì, è questo che si vuole prevenire, muovendosi in una ideale continuità con quella nuova frontiera di Kennedy che aveva tra le sue finalità anche quella di impedire l'ascesa delle forze rivoluzionarie nei paesi più sfruttati dall'imperialismo. Nel momento in cui la Francia in Costa d'Avorio mostra le sue autentiche finalità e gli States allungano esplicitamente le proprie mani su quei paesi africani ricchi di petrolio che non fanno parte dell'Opec e che quindi non hanno alcuna capacità negoziale, occorre che l’imperialismo lanci anche un segnale diverso, almeno all'apparenza. Occorre che alla palese rapacità, si affianchi da un lato l’ostentazione pubblica di carte di intenti ambiziose e illusorie, dall’altro una certa capacità di intervenire non per risolvere ma per lenire i problemi, così da impedire o da ritardare l'esplosione delle contraddizioni.

In quest'ottica, peraltro, vanno valutate non solo le spinte umanitarie di Veltroni, ma anche quelle della già citata Movimondo, sostenitrice, come del resto altre Ong, della cosiddetta responsabilità sociale delle imprese. Cosa vuol dire ciò? Semplice: secondo Movimondo, le multinazionali non sono un male in sé, purché cerchino il "dialogo" con le comunità locali, dosando un poco la loro azione di sfruttamento delle risorse e sostenendo le buone opere delle Organizzazioni non governative. Insomma, ce n’è abbastanza per confermare il discorso portato avanti dal marxista statunitense James Petras, sulle Ong come strutture che promuovono il liberismo dal basso. Per giunta, nel caso in questione, il capitalismo dal basso si coniuga in modo immediato con l’imperialismo umanitario. Per questo dispiace che ad essere coinvolti in simili discorsi ed impostazioni, siano, in qualche modo, giovani che, pensiamo, da tutt'altre spinte sarebbero animati. E' evidente che le/i ragazze/i che hanno raccolto i soldi nelle scuole, ottenendo risultati ben superiori a quelli sperati, e che ora hanno dato vita alla associazione Kanimambo non si preoccupino né di impedire una possibile riscossa africana, né di promuovere l'ambigua teoria delle multinazionali responsabili.

A loro interessa intervenire in un contesto oltremodo segnato dalla miseria, fare qualcosa di positivo per chi non vive i nostri privilegi e magari sono convinti che la scuola creata con i loro fondi rappresenti pur sempre una opportunità per i bambini della periferia di Maputo. Ma è bene ricordargli che, perché sia una opportunità vera, deve cambiare il contesto di riferimento. Che non può, non deve più essere quello dell'impossibilità per le popolazioni africane di decidere il proprio destino. Qui sta il punto. Chi ha partecipato alla raccolta dei soldi, ora deve distanziarsi dalle dichiarazioni di Veltroni, deve rimarcare una impostazione propria. Una impostazione che - possibilmente - non contrasti con l'idea di un vero e proprio riscatto africano, che ribadisca che il destino dell’Africa non può essere deciso né a Washington né a Parigi e che prenda in considerazione l'appoggio ad eventuali, future, spinte di liberazione. Anche perché gli scenari a cui ci prepariamo rischiano di essere di straordinario interesse. L'incredibile ricchezza sociale del continente in questione – contraddistinto dalla persistenza di tessuti di vita comunitaria dove predominano i vincoli di solidarietà, come ha sottolineato Jean-Léonard Touadi nel suo interessante libro Africa, la pentola che bolle - potrebbe questa volta non andare perduta, diventare la linfa della lotta contro i dominatori occidentali. Ciò, proprio perché ad essa non possono più sovrapporsi modelli sociali esterni, come quello a suo tempo "proposto" da Mosca e dal blocco del cosiddetto socialismo reale. Parliamoci chiaro: se le loro più autentiche spinte non saranno imbrigliate, le società africane, riconquistando l'indipendenza, contribuiranno ad emancipare pure noi, facendo nuovamente vacillare quella gabbia d'acciaio che ci si ostina a chiamare "regno delle libertà".

Roma, 28 maggio 2005

Corrispondenze Metropolitane - Collettivo di controinformazione e d'inchiesta.

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