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(25 Giugno 2011) Enzo Apicella

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Il ciclo senza uscita delle riprese e delle crisi economiche del capitale

(13 Febbraio 2017)

Il mondo capitalistico è in questa tornata storica alle prese con una tipica sindrome da dissociazione: quanto più le condizioni generali politiche e militari, la guerra per il controllo di aree di influenza e punti di forza nello scacchiere mondiale si fanno gravi e alla scala internazionale lo scenario dello scontro tra gli Stati si fa sempre più complesso, aspro e sostanzialmente senza vie di uscita, tanto più torna a serpeggiare un tranquillo ottimismo relativamente allo sviluppo economico e finanziario.

Basta estrapolare qualche dato di breve periodo, trasformarlo in tendenziale, misurare gli incrementi degli indici senza depurarli dalle componenti più volatili e stagionali, e le difficoltà, se non la crisi, rimangono alle spalle.

Ecco quindi che la grancassa mediatica del capitalismo, ben sostenuta dagli economisti a libro paga statale, ricomincia a spargere una “moderata speranza” per il futuro, ed informa che l’andamento generale sta migliorando, piano ma progressivo. Sistemato questo fronte da troppo tempo dolente, l’altro, gli sconvolgimenti sul piano mondiale, generati ed amplificati dal procedere della crisi economica, saranno rimessi in sesto e superati dalla buona volontà e da opportuni accordi internazionali.

Assistiamo quindi a rialzi delle Borse che segnano nuovi massimi, mentre le quotazioni del petrolio, dopo i faticosi accordi internazionali tra produttori OPEC e indipendenti per la riduzione delle estrazioni, tornano a salire. Alcune materie prime, in primis il coke che ha triplicato il suo costo, vedono salire i loro prezzi; la disoccupazione tende a stabilizzarsi nelle aree più industrializzate e tra breve cesserà l’acquisto di titoli da parte delle Banche Centrali, con la coda della BCE che dichiara di prolungare ancora per un poco questa pratica: tanto che i programmi di allargamento della base monetaria sono abbandonati, o rallentati.

Pare davvero che il meccanismo infernale, dopo la lunga stasi, si stia rimettendo in moto. La finanza, e questa è la voce che più spinge all’ottimismo, ricomincia a far utili come ai bei tempi prima del fallimento Lehman.

Forse i tassi ricominceranno a salire dopo anni di indici intorno allo zero. E se forse le cose non vanno ancora troppo bene nell’Europa dell’euro, con una presunta prossima ripresa negli Stati Uniti d’America, la nuova dottrina economica del nuovo presidente Trump, che ricalca quella del predecessore Reagan, promette speranze di un aumento delle esportazioni da parte europea. Magari i problemi sempre più gravi economici, finanziari e politici dell’area euro potranno essere tenuti sotto controllo.

Se nel periodo precedente al fatidico 2008 lo spauracchio assoluto era l’inflazione, che rovinava i risparmiatori, strangolava la aziende, falcidiava utili e rendite, dopo quella data è finalmente emersa la dura realtà, la vera situazione critica, l’espressione della malattia mortale del capitalismo: la deflazione.

Ecco quindi l’augurio, la speranza: una moderata inflazione a significare la prossima uscita da una crisi ormai lunga otto anni, evento eccezionale nella storia del capitalismo. Ma i valori sbandierati sono da imputarsi essenzialmente ai prezzi energetici e alimentari, al faticoso risalire delle quotazioni del petrolio, cioè a componenti volatili, mentre l’inflazione in media è aumentata soltanto dello 0,9%, lontana da quel 2% augurato dalla BCE, ritenuto un “lubrificante” essenziale per il processo produttivo.

La notizia recente è che in Germania pare che l’inflazione l’anno appena trascorso sia risalita oltre l’1%. Avviso che ha solo significato “politico” tra i membri della UE, per far cessare l’acquisto di obbligazioni da parte della BCE, agitando l’abusato spauracchio, tutta polemica interna, ma che la dice lunga sugli effettivi rapporti tra gli Stati nella UE.

Inoltre la collazione degli indici industriali e del commercio internazionale che continuiamo a fare da lunghissimo tempo non fornisce certo materia per tutto questo ottimismo. La nostra lettura del processo capitalistico è un termometro chiaro e rigoroso che il Partito usa e rende pubblico e serve ad avere precisa conoscenza, senza infingimenti e mistificazioni. Sono dati riportati in modo chiaro ed esteso alle nostre riunioni, e non abbiamo alcun interesse a mistificarli.

Le cose insomma non vanno come l’ottimismo di maniera pretende che vadano o che andranno.

Tralasciamo le vicende italiche, con la ufficialmente dichiarata deflazione: quelle, nel contesto europeo ed internazionale, contano poco o nulla, non è quello l’epicentro, ma una situazione di crisi locale in un ambito ben più largo.

Ribaltiamo il concetto imperante. Dai segni della forma “mistificata” del capitalismo, quella finanziaria, traiamo ancora più forte la convinzione che il processo deflazionistico di crisi continua il suo percorso. I decimali di aumento percentuale del PIL, il cui calcolo tra l’altro è diverso da Stato a Stato e si basa su rilevazioni statistiche ed aggiustamenti ad hoc, non ci abbagliano: la ripresa del prezzo delle materie prime le correliamo ad accordi di cartello internazionali, e non ad una ripresa decisa delle fasi produttive.

Le mirabolanti salite delle borse, come i crolli, li consideriamo semplicemente indici, e qualche volta nemmeno troppo attendibili, di situazioni in atto, non necessariamente positivi per le salite, o negativi per i crolli. La febbre speculativa, come pure il panico reale o indotto, non danno la misura della situazione reale. Troppi e troppo sofisticati sono i meccanismi che guidano e regolano i processi borsistici per dare affidamento. Al più indicazioni di massima; la crisi borsistica generale è sempre un “dopo” rispetto a quella dell’economia reale o della finanza.

I tanto decantati numeri positivi sull’occupazione che si sarebbe “stabilizzata” nascondono un criterio di calcolo truffaldino nel quale eccellono gli Stati Uniti d’America, presi a paradigma ormai da tutti i sistemi di calcolo degli Stati mondiali, considerando occupato anche chi lavori una sola ora al giorno e non prendendo in considerazione quanti non siano più nelle liste dei non occupati.

Il debito mondiale, cioè la parte di capitale fittizio generato per la mera dinamica finanziaria, che non entra nel processo della produzione-consumo, ha raggiunto la cifra di duecentodiciassettemila miliardi di dollari; cifra in sé che non ci sorprende ma dà una misura, sia pure approssimativa, di un sistema nel quale il meccanismo produttivo è diventato subordinato all’emissione di liquidità virtuale, che serve essenzialmente a mantenere quanto più possibile i livelli di rendimento finanziario; un rendimento virtuale perché non più connesso al ciclo produzione-vendita-consumo.

Le politiche protezioniste cominciano a riprendere vigore, e questo è un sicuro indice politico della crisi in atto.

Non è certo deformazione ideologica il nostro catastrofismo, ma non vediamo alcun motivo di ottimismo o speranza – per chi ci vive e ci ingrassa, ovviamente – nel permanere di questo mostruoso meccanismo.

PARTITO COMUNISTA INTERNAZIONALE

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