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(18 Marzo 2011) Enzo Apicella

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I proletari della “Nuova Russia” fra guerra e sfruttamento di classe

(24 Febbraio 2017)

Le separatiste Repubbliche Popolari di Lugansk (RPL) e di Donetsk (RPD) sono due entità politiche, assimilabili a Stati de facto, nate nel 2014 dal conflitto armato che da circa due anni sta lacerando l’Ucraina orientale. Il conflitto, sviluppatesi a seguito del moto nazional-populista di Euromaidan del 2013, e che, a giudicare dalle frequenti scaramucce e dagli scambi di tiri di obice è ancora lontano dall’essere del tutto sopito, vede da un lato l’esercito ucraino, sostenuto di alcuni paesi europei e degli Stati Uniti, dall’altro il cosiddetto esercito popolare appoggiato dalla Federazione Russa.

Queste due minuscole repubbliche tentano di proporsi, attraverso un’incessante opera di propaganda, come una sorta di terra promessa per i nostalgici della guerra fredda. Così le partigianerie dell’imperialismo russo, affasciate da sentimenti nazionalistici e slavofili, trovano una nuova causa comune di impronta, a scelta, stalinista o fascistoide rossobruna. Nel racconto di parte delle correnti “di sinistra”, nella Nuova Russia, come si autodefiniscono le entità separatiste, sarebbe in corso una guerra “popolare” che vedrebbe protagonista il proletariato.

Nella realtà questo conflitto riguarda gli storici interessi nazional-borghesi-capitalistici della Russia, in concorrenza con le potenze europee. Il proletariato, sia in Ucraina sia nelle Repubbliche separatiste, lo paga con conseguenza tragiche. Per quanto entusiastici siano gli animi della partigianeria slavofila, la borghesia russa non è nuova a iniziative che sembrano inserirsi nel solco della vecchia tradizione stalinista, tesa ad ingannare il proletariato con parole d’ordine attinte alla tradizione del movimento operaio e socialista, mentre conduce una politica ferocemente reazionaria.

Oggi, come abbiamo già argomentato nel n. 309 di questo giornale, la regione della cosiddetta Nuova Russia altro non è che l’ennesimo vasetto di coccio fra due imperialismi di ferro, nel quale per i proletari è ancora più difficile che altrove difendere i propri interessi. Nei distretti controllati dalle milizie locali, infatti, non vi è alcuna tolleranza per qualsiasi forma indipendente di organizzazione proletaria. Bande armate scorrazzano liberamente per la regione al fine di reprimere qualsiasi forma di dissenso, ogni accenno di protesta e ogni manifestazione, per quanto timida, di lotta classista.

Fra le gesta di questa teppaglia ricordiamo un episodio verificatosi già nell’ottobre de 2014. Un concentramento di lavoratori aveva inscenato una protesta davanti alla questura di Sverdlovsk contro il mancato pagamento dei salari, la mancanza di cibo, i saccheggi e le ladronerie dei paramilitari. La risposta delle autorità della piccola repubblica non si fece attendere: in piena notte vennero lanciate bombe a mano contro le case degli organizzatori della protesta.

Nel mese di settembre dello stesso anno un assembramento di lavoratori si era riunito nella piazza principale di Antratsit per rivendicare aumenti di salari e pensioni e un miglioramento dei servizi. Le richieste dei lavoratori, accolte subito dal nuovo governo separatista, ma non furono mai mantenute. Il rinfocolarsi della protesta venne fronteggiato con l’arrivo di un comandante militare il quale rivolgendosi ai manifestanti disse testualmente: «Se tornate qui di nuovo spareremo a tutti. Dimenticate il vostro salario di minatori, le vostre pensioni e ovviamente i servizi». In quell’occasione i militari distribuirono a ciascuno dei presenti carne in scatola e una busta di cereali.

Prima della protesta i padroni della miniera di Komsomolskaya avevano fatto una serrata. In seguito a questo atto di forza della direzione aziendale, ai minatori venne offerto un salario di 100 euro, molto più basso di quello che percepivano precedentemente. Il giorno seguente a questo diktat padronale, nonostante il clima di terrore, i lavoratori si assentarono dal lavoro.

Nonostante questi episodi di dura lotta, i circa 300.000 minatori della regione di Nuova Russia con la guerra hanno perso molta della loro forza sindacale. Il conflitto ha impedito l’unità del fronte operaio, imponendo una frattura di carattere nazionale. Far la guerra può diventare un “secondo lavoro”: dei minatori si sono arruolati nei battaglioni ucraini, altri in quelli separatisti filorussi. Alcune miniere sono state bombardate, col risultato di spingere i minatori a scegliere da che parte mettersi.

Alcune organizzazioni sindacali dei minatori come il NGPU, che si sono schierate contro l’intervento russo, hanno fatto richiesta al governo di Kiev affinché acquisti il carbone della regione. Ma il governo non ha sostenuto questa organizzazione sindacale, che pure vanta una costante fedeltà allo Stato ucraino e aveva collaborato alla repressione degli scioperi del 1989, i più importanti dal 1920.

Nella Repubblica di Lugansk ben 5.000 prigionieri, catturati nella “terra di nessuno”, fra il territorio controllato dalle milizie filorusse e l’esercito ucraino, sono costretti ai lavori forzati. Le loro condizioni sono estremamente dure e ogni atto di disobbedienza è punito con crudeltà. I prigionieri lavorano principalmente nelle industrie metallurgiche, in quelle alimentari e in piccole unità produttive di vario tipo. Grazie al loro sfruttamento si stima che i militari a capo della repubblica di Lugansk si approprino di una cifra stimata attorno ai 500 mila euro al mese.

Nelle cosiddette Repubbliche Popolari le tasse, fisse al 13% del reddito, non sono progressive, come nella Federazione Russa, nonostante quella borghesia si atteggi a progressista e addirittura a “socialista”.

La guerra in Ucraina non contrappone uno schieramento reazionario ad uno progressista, o addirittura socialisteggiante, essa fa parte dello scontro in atto tra opposti blocchi imperialisti che, spinti dalla generale crisi economica, stanno preparandosi ad una nuova guerra mondiale. Il proletariato deve dunque rifiutare ogni coinvolgimento in questo scontro, in cui esso non ha nulla da guadagnare. Solo ritrovando la loro unità ed organizzazione su obbiettivi di classe, i lavoratori potranno mobilitarsi per scongiurare un nuovo macello imperialista e aprire la strada alla rivoluzione comunista internazionale.

Partito Comunista Internazionale

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