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(22 Febbraio 2012) Enzo Apicella

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Contro la parola d’ordine di uscita dall’Euro dall’Europa dalla Nato

(9 Aprile 2017)

Sabato 25 marzo si sono riuniti a Roma i capi degli Stati membri dell’Unione Europea per la celebrazione dei 60 anni della firma dei trattati che ne segnarono la nascita.

Parallelamente si sono svolte nella capitale alcune distinte manifestazioni, di cui l’unica con una partecipazione che possa dirsi di massa è stata quella convocata, con la parola d’ordine “No UE, No Euro, No Nato”, da un insieme di partiti, gruppi e movimenti denominatosi Piattaforma Sociale EuroStop.

Un fenomeno tipico dell’imperialismo, cioè della fase ultima del capitalismo, è l’agitarsi inconcludente degli strati sociali intermedi, mezze classi a cui lascia spazio l’effimero benessere e solo la temporanea debolezza della classe operaia. In Occidente dalla fine degli anni ‘60 appesta l’aria attorno alla classe operaia la critica reazionaria del capitalismo, a base di ideologie ancor più dannose di quella dichiaratamente borghese, in quanto travestite di falso radicalismo.

Siamo oggi ancora nel solco delle manifestazioni del “movimento” che non può resistere alla tentazione di andare a corte per “contestare i potenti” intenti nelle loro celebrazioni perché spera di trovare in queste rumorose coreografie la forza e la vitalità che non può trarre dalla sua base sociale, la debole ed informe piccola borghesia.

Si chiama “movimento”, senza aggettivo, perché non è quello operaio, proprio e specifico della classe salariata, ma è composto dai più vari strati sociali, e sogna l’unione, e la sottomissione, di quella a questi.

Le classi non sono mosse dalle ideologie ma dagli interessi economici. Un movimento popolare, cioè interclassista, non può alzarsi e camminare in una direzione nella storia perché paralizzato da contrastanti interessi economici al suo interno. Di riflesso, le pur chiassose manifestazioni del “movimento” vivono lo spazio della giornata. Così fu per il G8 nel luglio del 2001 a Genova, o per la manifestazione “No debito” dell’ottobre 2011, a Roma.

Diverso è per il movimento operaio, omogeneo e accomunato dalla incombente necessità di resistere allo sfruttamento del capitale, con scioperi in grado di durare e di ripetersi, forte di organizzazioni di lotta da pazientemente costruire e ricostruire.

Dopo la Seconda Guerra mondiale imperialista, le classi dominanti della vinta Europa vollero illudere la classe lavoratrice, uscita prostrata e sottomessa, materialmente e politicamente, dalla più atroce carneficina nella storia dell’umanità, di voler impedire che una simile tragedia si ripetesse, fondando una federazione che, sulla base di una sorta di democrazia fra Stati, impedisse il risorgere dei nazionalismi e dei totalitarismi. Questo era falso, perché non si trattò affatto del superamento dei nazionalismi, a cui il capitalismo tende e pone le premesse, ma non può realizzare.

La borghesia è stata una classe rivoluzionaria solo fintanto dovette liberarsi delle pastoie del regime feudale. Le sue rivoluzioni portarono, attraverso sei secoli, alla costituzione dei moderni Stati nazionali. Preso il potere e svolto questo enorme compito progressivo, è divenuta immediatamente una classe reazionaria e la moderna macchina statale da essa costruita è solo la sua principale arma per tenere sottomessa la classe dei lavoratori salariati. Solo la classe operaia ha il comune interesse di unirsi al di sopra dei confini nazionali e solo essa potrà liberare questo ben maturo trapasso storico.

Va detto infatti che l’Unione Europea non è un imperialismo ma una somma di imperialismi fra loro concorrenti, una alleanza fra i capitalismi nazionali del vecchio continente, il tedesco, il francese, l’italiano, ecc, per reggere nella competizione economica mondiale, a fronte di giganti di mole continentale quali gli Stati Uniti, la Cina, un tempo la Russia falsamente socialista.

Sostenere che esiste un imperialismo europeo – secondo la bolsa retorica che nasconde il conflitto degli interessi nazional-borghesi, gli stessi che da più di un secolo mandano periodicamente i proletari a macellarsi sui campi di battaglia – deforma la realtà e serve ad avvalorare la posizione degli EuroStop che sia progressivo “spezzare la gabbia della Unione Europea”.

L’Unione è giunta a darsi una moneta comune, ma è ben lontana da essere uno Stato unico, con un suo sistema fiscale ed un esercito, e ciò si è reso evidente ad ogni crisi internazionale, quando puntualmente ciascun Stato ha agito per sé, secondo i propri interessi, ed è sempre mancata la tanto invocata, da loro, politica estera comune. Ad esempio, a fronte delle ripetute azioni dei gruppi che praticano il terrorismo, i servizi segreti degli Stati europei non collaborano né si scambiano informazioni, perché ciascuno è geloso dei rapporti che intrattiene coi regimi che appoggiano quelle organizzazioni, ammesso che non lo facciano essi stessi direttamente, e quindi ha i suoi terroristi da proteggere, nascondere ed usare. Di comune c’è solo la propaganda contro il vero nemico, che è la classe lavoratrice, che non deve capire chi è il responsabile del terrorismo e delle guerre in atto.

È una Unione fra briganti pronti a pugnalarsi alle spalle, da cui i più forti traggono maggiore vantaggio e a cui i più deboli aderiscono perché – al momento – non hanno alternative. Per questo le alleanze fra gli Stati capitalisti sono sempre instabili, in ragione del mutare dei rapporti di forza e degli interessi.

Ma che imperialismi più deboli o in crisi mortale, come quello inglese o italiano, decidano, a un dato momento, di uscire dall’Unione, ciò non li renderebbe meno imperialisti e meno borghesi. Uscirebbero da un fronte imperialista per, forzatamente, aderire ad un altro. Pensare quindi che scompaginare le alleanze fra Stati capitalisti possa arrecare vantaggi alla classe operaia, o avvicinare la sua rivoluzione è solo una pericolosa illusione e sottomissione al nazionalismo.

Il cartello EuroStop parla invece di “imperialismo europeo”, sia verso l’esterno, col suo affiancarsi, più o meno convinto, alle imprese militari degli Stati Uniti, sia al suo interno, dove un nucleo di nazioni più forti, essenzialmente Germania e Francia, trarrebbero vantaggio dall’assoggettamento delle più deboli, fra cui l’Italia. Il mezzo fondamentale per ottenere tale assoggettamento sarebbe l’Euro, con cui i paesi membri avrebbero perso sovranità economica, con l’accondiscendenza di partiti e di governi anti-nazionali e corrotti.

EuroStop si dà quindi l’obiettivo dell’uscita dall’Unione Europea perché ciò permetterebbe “a noi” di recuperare la “nostra” “sovranità nazionale”. La classe operaia all’interno dello Stato nazionale non dispone di un permille di quella “sovranità”, che è solo della borghesia sulla classe operaia. All’esterno quanto “delegare” o “non delegare” è proporzionato dalla forza di ogni Stato nei confronti dei rivali.

EuroStop accusa l’Unione Europea d’essere fautrice delle politiche di austerità, il cosiddetto neoliberismo. Afferma che questa politica economica non ha risolto la crisi bensì l’ha aggravata, se non persino causata.

In realtà, nell’approvare provvedimenti che hanno aumentato lo sfruttamento della classe operaia, non vi è mai stato alcun vero conflitto fra i vari parlamenti nazionali e le istituzioni europee, entrambi fedeli rappresentanti di classi padronali, in disaccordo su tutto tranne che sulla crescente oppressione del proletariato. Per di più la cosa si presta ad un continuo rimpallo di responsabilità e alla vile propaganda sciovinista.

Tanto che l’attacco alla classe operaia non è stata una peculiarità europea e tutti gli Stati del mondo, colpiti dalla crisi economica, hanno adottato provvedimenti analoghi.

La causa della insicurezza e del peggioramento delle condizioni di vita della classe operaia è il capitalismo. Le classi borghese e fondiaria ne sono la base sociale. Queste classi difendono il loro privilegio economico organizzate politicamente e militarmente nei loro Stati nazionali. Questi, per farsi meglio la guerra, commerciale o armata, si associano in temporanei organismi transnazionali quali la BCE, l’FMI, l’UE. Ma il principale e primo bastione contro cui urta il movimento difensivo, e domani offensivo della classe operaia è il proprio Stato nazionale, nati e mantenuti tutti per sostenere e difendere il capitalismo e le sue leggi economiche.

La denuncia che poi fanno quelli di EuroStop, e tutta la cosiddetta “sinistra radicale”, secondo cui le politiche di austerità non hanno risolto la crisi, dimostra tutto il loro antimarxismo. Definiscono la crisi “sistemica”. Ma non intendono per “sistema” il capitalismo, bensì la “globalizzazione liberista”, e per risolvere la crisi basterebbe una politica “non liberista”. Non è necessario abbattere il capitalismo: per costoro, che si professano comunisti, per evitare di precipitare nelle crisi basterebbe un “capitalismo socialdemocratico”, fatto anche di protezionismo, autarchia, e, magari, regolamentazione dell’immigrazione.

La “sinistra radicale” in Italia è il prodotto della putrefazione del più grande partito falsamente comunista d’Europa, il PCI. Che già era per le “vie nazionali”.

Benché la crisi economica del capitalismo – iniziata nel 1973-74 e che come da noi previsto continua a peggiorare – abbia messo in crisi il miraggio dell’incessante progresso delle condizioni dei lavoratori all’interno del capitalismo, oggi la “sinistra radicale”, che comprende anche i reduci dello stalinismo, continua a propinare illusioni riformiste alla classe lavoratrice.

Difendere le condizioni di vita della classe operaia nel turbine della crisi mondiale del capitalismo significa andare allo scontro frontale con la borghesia e con il suo Stato, perché materialmente si va a palesare l’incompatibilità fra due bisogni: quello del Capitale e quello dei lavoratori. O soccombe il Capitale, con la rivoluzione e la dittatura del proletariato, o la classe operaia, in una nuova guerra mondiale.

EuroStop invece pretende ancora di applicare le formule del riformismo socialdemocratico, parzialmente possibili solo nel ciclo di forte crescita economica seguito al secondo conflitto mondiale, e di poterlo fare senza doversi scontrare con l’apparato statale borghese: sarebbe solo necessario “rompere la gabbia europea”!

Davvero non si capisce perché uno Stato che è borghese, imperialista, capitalista e anti-operaio dentro questa Unione, dovrebbe cessare d’esserlo al di fuori, o cercando fortuna in un’altra lega fra Stati capitalisti. EuroStop crede a questa sciocchezza perché si sottomette alla ideologia borghese della democrazia e sostiene che la costituzione repubblicana del 1948 abbia cambiato la natura dello Stato, negando la fondamentale tesi marxista secondo cui lo Stato è solo e sempre la macchina di dominio di una classe.

La “sinistra radicale” inseguirà sempre la seduzione di un sistema stabile che regoli lo scontro di interessi fra classe lavoratrice e borghesia. Non a caso il principale gruppo politico di EuroStop, che è anche il gruppo che dirige l’Unione Sindacale di Base, sostiene, in buona compagnia con la Fiom di Landini, la necessità di una legge che regoli la rappresentanza sindacale, illudendosi che il regime borghese possa venire a fissare delle regole a difesa del sindacalismo di classe, invece che usare, come fa e farà sempre, ogni mezzo per combatterlo.

Il sodalizio fra le borghesie europee e la Nato, cioè con la borghesia degli Stati Uniti, è poi sempre stato tutt’altro che d’acciaio. Dalla sua nascita si sono contrapposti per l’Europa due modelli di Unione: uno più federale ed egualitario fra gli Stati membri; l’altro che dava più potere ai paesi più potenti, cioè Germania e Francia. Il primo modello era consono agli interessi USA, perché ostacolava il rafforzamento dell’imperialismo tedesco; viceversa il secondo.

In molti paesi l’uscita dall’Unione Europea e dalla Nato è un obiettivo di partiti di destra e di estrema destra, ed EuroStop a questi si accoda. La Nato sarebbe responsabile della maggior parte delle guerre degli ultimi decenni, e i gruppi politici che compongono EuroStop in ciascuna di quelle si sono schierati col fronte antiamericano: ieri con Saddam e Milosevic, oggi in Siria col regime di Assad e nel Donbass coi filorussi. Addirittura i dirigenti di USB – senza alcun mandato del sindacato – hanno partecipato a manifestazioni organizzate in queste zone di guerra dai rispettivi regimi.

Si ostinano a negare l’evidenza che in queste guerre si scontrano due fronti entrambi imperialisti, e ritengono che quello che oggi appare più debole sia meno antioperaio di quello più forte. Ambiscono quindi a portare l’Italia nel campo imperialista russo e spacciano questo per internazionalismo. Così preparano invece il terreno allo schieramento della classe operaia sui fronti del futuro conflitto imperialista mondiale.

Ed è sempre la fede incrollabile nella ideologia democratica a far pensare che il regime borghese di un determinato paese possa cambiare l’assetto delle sue alleanze sotto la spinta di un movimento di massa, senza che questo non prenda il potere con la forza. Cosa che può fare solo la classe operaia. La rivoluzione borghese di febbraio in Russia nel 1917 non riuscì a far uscire il paese dalla Prima Guerra mondiale. Ci riuscirono solo con l’Ottobre i bolscevichi. Finché resta al potere la borghesia è costretta alle sue alleanze, che non determina né sceglie.

Nel 1914-15, per le frazioni di sinistra, essere per la “neutralità dell’Italia” significava battersi per la rivoluzione comunista.

La Prima Guerra passò per il tradimento dei partiti della Seconda Internazionale. La Terza Internazionale ne raccolse la tradizione rivoluzionaria, condannò quella guerra come borghese e imperialista e solo conseguenza del capitalismo, denunciò il riformismo anti-marxista che nei vari paesi aveva spinto i lavoratori ai fronti a combattere per i propri regimi borghesi, sparando sui propri fratelli di classe.

Il partito bolscevico in Russia prese il potere nell’Ottobre del 1917 proprio sulla parola d’ordine “guerra alla guerra”, dell’affratellamento sui fronti fra i proletari. Gli operai e i contadini russi smisero di sparare sui loro fratelli di classe tedeschi e volsero il fucile contro il regime zarista-feudal-borghese e lo abbatterono.

Il movimento operaio mondiale trasse grande vigore dalla vittoria in Russia, ma non ancora sufficiente a distruggere l’influenza su di esso del riformismo: i successivi moti rivoluzionari in Italia, Germania, Ungheria, il grande sciopero generale in Inghilterra, la comune di Shanghai in Cina furono tragicamente sconfitti. La controrivoluzione trionfò nel mostro a tre teste del fascismo, della democrazia e dello stalinismo.

La storia la scrivono i vincitori. Ad essere sconfitto, nel secondo conflitto imperialista mondiale, non fu il nazifascismo, negato solo nei suoi tratti esteriori dai regimi democratici ma da essi accolto nel suo tentativo di controllo statale totalitario sulla società, ma fu il proletariato mondiale, dissanguato e privato del suo partito rivoluzionario. In particolare lo stalinismo, truccato da comunismo, l’ha per oltre mezzo secolo stravolto e infangato e ha falsificato la teoria rivoluzionaria e il programma della futura società senza classi, ridotta a capitalismo di Stato.

Dentro o fuori della Unione Europea, con l’Euro o con la Lira, con lo Stato alleato con gli USA o con la Russia, la classe operaia non vedrà migliorare le sue condizioni di vita né fermarsi il loro peggioramento, perché esso è determinato dalle ovunque dominanti leggi economiche del capitalismo.

La “globalizzazione” non è una “politica”, una scelta sbagliata o malvagia di alcuni grandi capitalisti, ma una ineluttabile necessità storica del capitalismo, che lo segna fin dalla sua ormai lontana nascita. Di più, è una rete di vincoli, di catene che lo condizionano e gli tolgono ogni libertà individuale e nazionale e lo spingono alla rovina e alla rivoluzione. È il capitale la vittima della globalizzazione, non la classe operaia, e la prospettiva del comunismo ne esce confermata e, ad ogni volta del ciclo economico, rafforzata. Evviva la globalizzazione! debbono esclamare i comunisti.

La frapposizione, o l’anteporre, o la sostituzione di obiettivi politici intermedi alla conquista rivoluzionaria del potere da parte della classe operaia è il tratto caratteristico, invariante, dell’opportunismo che lo ha sempre giustificato con l’intenzione di favorire e avvicinare il superamento del capitalismo. Ha sempre ottenuto l’effetto contrario: il puntellamento delle illusioni della classe dominante nella classe lavoratrice.

Lottare per il recupero della sovranità nazionale contro l’Unione Europea non avvicina affatto la classe operaia alla rivoluzione bensì radica in essa l’illusione di poter disporre in regime capitalista di una quota percentuale di potere politico, con cui far valere i propri interessi nei confronti di quelli borghesi, senza che sia invece necessario strapparle il potere, che essa detiene per intero, con la forza.

Compito del partito comunista è battersi contro ogni intermedismo, contro ogni preteso utile obiettivo politico all’interno del regime politico borghese che distragga la classe lavoratrice dal suo compito di abbatterlo per via rivoluziona

PARTITO COMUNISTA INTERNAZIONALE

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