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(16 Agosto 2012) Enzo Apicella

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La guerra imperialista che si combatte in Siria

(4 Giugno 2017)

Dopo l’Iraq la Siria è divenuta il campo di battaglia degli imperialismi, preda di una guerra civile iniziata nel 2011 a seguito di una sollevazione contro il regime di Bashar al-Assad.

Il Paese è legato tradizionalmente alla Russia e all’Iran. Schiacciato tra la Turchia a nord, il Libano, Israele e la Giordania a sud e l’Iraq ad est, costituisce un passaggio obbligato per gli oleodotti e i gasdotti arabi e iraniani verso il mercato europeo.

Un gasdotto che dovrebbe passare attraverso la Siria è stato progettato dal 2009: dal Qatar, terzo produttore mondiale di gas, riuscirebbe ad evitare lo stretto di Hormuz controllato dagli Iraniani, passando dall’Arabia Saudita, dalla Giordania e la Siria, arriverebbe in Turchia. Ma Bashar al-Assad, alleato della Russia, ha rifiutato il progetto provocando grande irritazione negli Stati Uniti e nei suoi alleati (Qatar, Arabia Saudita e Turchia). Nel 2011 invece ha progettato con la Russia un gasdotto alternativo che, partendo dai campi di gas iraniani, attraverso la Siria raggiungerebbe i porti del Libano, ma la sua costruzione si è poi bloccata a causa della guerra.

La Turchia si barcamena tra USA-Nato e la Russia. Questa le fornisce il 55% del gas di cui ha bisogno (la Turchia è il secondo acquirente di gas russo dopo la Germania). Come l’Europa alla ricerca di alternative per approvvigionarsi di energia, la Turchia si è rivolta verso il gas del Kurdistan iracheno e sono stati presi accordi per la costruzione di un gasdotto tra i due paesi entro il 2019.

In Siria le grandi potenze, gli Stati Uniti con i loro satelliti europei, la Turchia, l’Arabia Saudita e il Qatar, desiderose di sparigliare le carte nella regione, per ragioni d’influenza strategica ed economica, incoraggiarono l’insurrezione del marzo 2011.

Le forze di opposizione al regime si organizzarono in un fronte di 13 partiti di “sinistra”, 3 partiti curdi e diverse personalità politiche sotto il nome di Comitato di Coordinamento per il Cambiamento Democratico Nazionale, mentre i soldati e gli ufficiali “disertori” dall’esercito siriano fondavano in Turchia l’Esercito Siriano Libero (ELS), nazionalista e democratico, che raggruppava una cinquantina di fazioni delle più diverse ideologie. Infatti da un ELS così eterogeneo nel 2013 alcuni gruppi si separarono per unirsi ai jihadisti del Fronte al-Nusra, branca ufficiale di al-Qaeda in Siria. Creata nel 2011 all’inizio dell’insurrezione, divenne nel 2016 Jabhat Fatah al-Sham, e, dalla fine del gennaio del 2017, dopo violenti scontri con il gruppo jihadista concorrente Ahrar al-Sham e in seguito alla fusione con altri gruppi minori, ha cambiato ancora una volta nome assumendo quello di Tahir al-Sham. Questo stesso gruppo dopo aver rotto con Al Qaeda e lo Stato Islamico, combatterà numerose volte a fianco dell’ELS.

Una delle basi dell’ELS si trova in Turchia, ed è dunque controllata dall’esercito turco. Nel 2012 aderì ad una coalizione nazionale di forze dell’opposizione al regime siriano che comprendeva alcuni gruppi jihadisti e salafiti, organizzati dall’Arabia Saudita, dal Qatar e dalla Turchia. Questi gruppi jihadisti, pesantemente armati, diverranno presto la forza armata dominante all’interno del fronte.

Dal marzo 2011 il regime di Bashar, in difficoltà, fece un nuovo appello al PKK, che aveva tradito e perseguitato dal 1998. Il regime siriano ha puntato a lungo sui contrasti tra arabi e curdi per riprendere il controllo delle regioni curde nel Nord del Paese, che si erano sollevate contro l’odiato regime di Assad. Il PKK, con la sua branca siriana, il PYD, come aveva fatto negli anni ‘80, accettò nuovamente di tradire i curdi di Siria e di sacrificarli alle sue insensate ambizioni regionali in Turchia.

Bashar fece liberare 600 quadri e militanti del PYD e accettò l’arrivo di 3.000 combattenti del PKK provenienti dall’enclave di Qandil, nel Kurdistan iracheno. Nel luglio 2012 l’esercito siriano poteva così ritirarsi dalle zone curde del Nord lasciando ai guerriglieri del PKK il compito di controllare i partiti curdi anti-Assad.

Nello stesso mese il Governo Regionale del Kurdistan (GRK), che ha come presidente Mas’ud Barzani, tentava di favorire un accordo tra il PKK/PYD da una parte e il Consiglio Nazionale Curdo anti-Bashar. Ma il PKK preferì accordarsi con Bashar, che gli lasciava l’area della provincia storica di al-Jazira, tra la Turchia e l’Iraq, e la regione attorno ad Afrin, a Nord-Est di Aleppo. Nel novembre 2013 alcuni rappresentanti curdi, tra cui quelli del PKK-PYD insieme con quelli di altre etnie, fra cui anche elementi arabi, formavano un governo nella regione e nel gennaio 2014 proclamavano una Costituzione per il Rojava.

Ma era soprattutto il PKK-PYD che andava progressivamente organizzando un governo; con il suo braccio armato, le Unità di Difesa del Popolo (YPG), si fece portatore di un programma che si richiamava al “collettivismo economico”, al socialismo libertario e al confederalismo democratico. Il potere decisionale e la logistica militare restavano nelle mani del PKK di Qandil, in Iraq, che nominava i comandanti, molti dei quali erano militanti iraniani o turchi.

L’YPG, i cui combattenti sono stimati tra 20.000 e 50.000 (fra cui gran numero di donne), svolge un ruolo essenziale nel conflitto siriano; non affronta che sporadicamente le forze del regime e si è alleato tatticamente nel 2011 con l’Esercito Siriano Libero e con il suo paravento islamista sunnita, considerato allora accettabile dall’opinione pubblica occidentale.

I nemici principali del PYD sono sempre più i gruppi armati islamisti, lo Stato Islamico, il Fronte al-Nusra o i salafiti vicini alla Turchia.

Nel maggio 2013 l’Alto Consiglio Curdo – costituitosi nel 2011 ad Erbil, in Iraq, sotto l’egida di Barzani e formato da una dozzina di partiti curdi siriani di cui il PYD è il più importante – è invitato alla Conferenza di Pace di Ginevra, a cui partecipano gli USA, la Russia, l’Unione Europea e alcune delle forze di opposizione al regime siriano. La Conferenza però non dà risultati concreti.

Ma il valzer delle alleanze di circostanza non finisce qui.

Coalizione anti-Stato Islamico o anti-proletaria?

Nel 2014 lo Stato Islamico è diventato un incomodo per Washington e per Mosca, gli interessi dei quali in Siria sono divergenti ma possono ritrovarsi momentaneamente per combattere i nemici comuni. Ma quali sono i loro comuni nemici?

Lo Stato Islamico, come Al Qaeda e altri gruppi islamisti sunniti, si è formato e sviluppato con l’aiuto degli USA e dei suoi sbirri europei e medio orientali, come la Turchia, l’Arabia Saudita, il Qatar, con il fine di destabilizzare prima la Russia in Afghanistan e nei suoi territori abitati da musulmani, poi la Siria e l’Iran sciita, legati a Mosca. I gruppi jihadisti hanno ricevuto notevoli flussi di combattenti stranieri dal Maghreb, dall’Europa, ma anche dalla Russia e dalla Cina; questo flusso è terminato dopo il 2015. La creatura mostruosa aveva ormai raggiunto lo scopo per cui era stata generata e adesso era necessario contenerla.

Ma l’altro scopo fondamentale dei compari russo e statunitense, che alla bisogna sanno stringersi la mano all’ONU, è anche quello di impedire ogni sollevamento popolare nella regione siriana ed irachena. Se si verificasse un’insurrezione contro un qualche regime medio orientale, il rischio per le classi dominanti arabe e per l’imperialismo sarebbe che, a causa delle guerre, della miseria, di tutte le immani sofferenze cui attualmente sono sottoposte quelle popolazioni, essa potrebbe estendersi a tutto il Medio Oriente e al Maghreb, dove le popolazioni sono ovunque sottomesse a turpi tirannidi militari o religiose.

Quindi, come abbiamo visto in Iraq nel 2003, lo scopo degli USA non è quello di sbarazzarsi di dittatori come Bashar, con cui si può sempre discutere e che è sempre stato utile per tenere sottomesse le masse dei diseredati, ma di evitare ogni sollevamento della piccola borghesia e del proletariato, anche solo teso a rivendicare una maggiore democrazia. La riluttanza degli Stati Uniti e dell’Europa a sostenere i partiti democratici di opposizione in Siria lo dimostra, perché dietro ogni movimento popolare si cela il rischio di un sollevamento proletario, l’incubo delle borghesie del mondo intero.

È lunga più di un secolo la storia delle continue lotte interimperialiste per la conquista dei mercati mondiali e il controllo delle materie prime ed energetiche, tra cui il petrolio, e per conseguenza delle regioni strategiche, da un punto di vista economico e militare, come del confronto russo-americano in Medio Oriente dopo la Seconda Guerra mondiale e del caos mantenuto da decenni nella regione dalla potenza economica militare dominante, gli Stati Uniti.

Il controllo Usa del Medio oriente si realizza dal 1945 con una politica di accerchiamento dell’URSS, poi della Russia, e prosegue ancora. Ma quando oggi il loro maggior avversario, la Cina, si avvicina a sorpassarli economicamente, appoggiano discretamente ma fermamente il compare russo. L’imperialismo statunitense da qualche anno è in trattative con l’Iran, l’ex-alleato passato nel 1989 nel campo “nemico”.

La Russia conduce anch’essa il suo cinico gioco imperialista. La metà della bilancia commerciale della Federazione è coperta dalla vendita di gas e petrolio; la dipendenza energetica degli Stati acquirenti ne accresce la forza diplomatica.

La corsa all’energia per nutrire il mostro capitalista resta ancora una delle ragioni fondamentali di tutti questi conflitti interimperialisti e interstatali. Le grandi potenze imperialiste necessitano di fonti di energia, che sia il carbone nel XVIII-XIX secolo o il petrolio dalla fine del XIX. Il controllo degli approvvigionamenti energetici resta il punto centrale dello scontro tra le grandi potenze per il dominio del mercato mondiale, coscienti che nei decenni a venire saranno le regioni del Pacifico e dell’Asia le maggiori consumatrici di prodotti energetici, in particolare la Cina. Alcune analisi prevedono che nel 2030 tutto il fabbisogno in petrolio del Giappone e della Corea del Sud proverrà dal Medio Oriente, così come il 90% dell’India e l’80% della Cina. Quest’ultima potrà infatti rivolgersi anche verso gli Stati dell’ex URSS in Asia centrale.

Anche per questo la Siria è importante per Mosca. Le buone relazioni e la vendita di armi russe alla Siria datano dal 1946 e si sono rinforzate dal 2003. La Russia, ormai sorpassata dalla Cina come grande potenza imperialista, ha un obbiettivo militare e strategico da raggiungere nella regione: consolidare il potere di Damasco in Siria, dove i russi dispongono di due basi sul Mediterraneo, e che intendono assolutamente conservare: una marittima, il porto di Tartus nel Nord del Paese, e una base aerea a Hmeimim a sud-est di Latakia. L’imperialismo russo teme che una frammentazione della Siria potrebbe fargli perdere le basi, il controllo dei flussi petroliferi e di gas e uno dei suoi più importanti acquirenti di armi. D’altra parte la caduta del potere siriano e le mani americane sul paese rafforzerebbero il concorrente e i suoi sbirri, in primo luogo l’Arabia Saudita e il Qatar. Inoltre Putin teme una crescita degli integralisti dello Stato Islamico nel Caucaso e in Cecenia.

In queste condizioni le battaglie diplomatiche e militari per il controllo degli oleodotti e dei gasdotti in Medio Oriente saranno sempre al centro dei giochi di potere internazionali.

La coalizione arabo-occidentale

Dal 2015 il nemico comune dichiarato ufficialmente è lo Stato Islamico.

Questa coalizione dispone ufficialmente di 7.500 uomini. Fra questi 4.600 militari statunitensi, che forniscono anche l’80% dell’aviazione, e 500 francesi, incaricati della “formazione” delle forze irachene e dei peshmerga, con l’appoggio aereo dalla portaerei Charles de Gaulle. Inoltre ne fanno parte soldati inglesi, canadesi, australiani, belgi, tedeschi e giordani. La coalizione è appoggiata dalle forze irachene e dai peshmerga curdi (numerose migliaia di combattenti provenienti dal Nord dell’Iraq) ai quali fornisce materiale bellico e l’indispensabile appoggio aereo.

La Russia, la Turchia, l’Iran e la Siria non partecipano alla coalizione, ma l’Iran aiuta i curdi di Barzani.

La Turchia, snodo tra l’Europa, il Medio Oriente, la Russia, nel Caucaso e in Georgia, resta un elemento strategico fondamentale per i due campi, russo e statunitense, che se la contendono. Aderisce alla NATO. Gli USA e la NATO la utilizzano come scudo anti-russo e come punto d’appoggio per il controllo della regione (nella base di Izmir, sulla costa sud-ovest della Turchia, si trova un importante Quartier Generale della NATO e una base militare degli USA; dalla base aerea NATO di Incirlik, nel Sud del Paese, partono gli aerei della coalizione per bombardare in Iraq.

La Turchia tenta di giocare su diversi tavoli e fra i suoi numerosi alleati: l’UE, gli USA, la Russia. Per l’Unione Europea la Turchia è un partner importante a seguito dell’accordo firmato a Bruxelles sulla questione dei migranti nel marzo 2016, in base al quale il governo turco ha accettato di sbarrare il flusso migratorio verso l’Europa. Inoltre gli scambi economici della Turchia con l’UE (soprattutto la Germania) e gli USA restano molto importanti. Ma la Russia occupa già dal 2008 un solido secondo posto (dopo la Germania) per quanto riguarda i volumi del commercio bilaterale e sono notevoli gli investimenti turchi nell’economia russa, e russi nell’economia turca (telefonia, siderurgia).

Aggiungiamo, per comprendere la complessità dello scacchiere turco, che questo Paese sosteneva gli insorti ceceni contro Mosca. I mercanteggi e le pedine da spostare sono molte e varie!

La Turchia ha anche l’ambizione di diventare un importante centro di smistamento per il mercato energetico internazionale. Russi e americani hanno evidentemente presente che l’accesso alla costa mediterranea siriana permetterebbe all’Iran e all’Iraq, con il progettato del gasdotto Iran-Iraq-Siria, di far arrivare i loro idrocarburi in Europa. Il governo regionale del Kurdistan, che esporta sia in Turchia sia in Iran, sta invece negoziando con l’Iran la posa di un oleodotto che porterebbe il petrolio del Kurdistan iracheno verso gli oleodotti iraniani per arrivare alle raffinerie dell’Iran settentrionale. Questo permetterebbe uno sviluppo del Kurdistan iraniano, e il Kurdistan iracheno diventerebbe così meno dipendente della Turchia. Gli interessi di Teheran, di Baghdad, di Erbil, di Ankara e di Mosca alimentano un gioco diplomatico serrato che potrebbe maturare in nuove tensioni, principalmente tra Erbil e Baghdad.

La Russia combatte le velleità della Turchia di rendersi autonoma dalla sua dipendenza energetica: utilizza quindi le truppe del PKK per far saltare gli oleodotti con i quali la Turchia riceve il petrolio dal Kurdistan iracheno. Da parte sua il PKK aspira in Siria all’autonomia del Kurdistan siriano, limitrofo alla Turchia, e passa dal sostegno americano a quello russo, con grande scorno di Ankara. Il PKK, dopo la rottura delle trattative di pace con la Turchia, è intervenuto nel luglio 2015 per far deragliare un treno che trasportava materiale per la costruzione del Trans Anatolian Natural Gas Pipeline (TANAP), la cui costruzione è iniziata nel 2015, che dovrebbe permettere il trasporto del gas del Mar Caspio dall’Azerbaigian alla Turchia e di là in Europa, che in questo modo potrebbe ridurre la propria dipendenza energetica dalla Russia. Il PKK ha anche organizzato un altro sabotaggio al gasdotto dall’Azerbaigian verso la Turchia attraverso la Georgia.

Gli USA dal 2015 forniscono aiuto militare al PKK-PYD, nonostante sia stato a lungo alleato di Mosca e nonostante sia nella loro lista di organizzazioni “terroristiche”. D’altronde né il PKK né gli USA sono al loro primo cambio di alleanze. Per i gruppi curdi del PKK si tratta evidentemente di ottenere il sostegno statunitense per ritagliarsi un territorio autonomo ai confini meridionali della Turchia. Ma questo gioco tra David e Golia è possibile solo perché i due ladroni, il russo e l’americano, hanno alcuni obiettivi convergenti, come quello di sbarazzarsi di certi gruppi di opposizione al regime siriano, e in questo senso l’aiuto dei combattenti curdi è loro utile. Ma non è affatto detto che il PKK, in questo gioco tra Washington e Mosca, alla fine ci guadagnerà davvero.

La battaglia di Kobanê

Nella città curda-siriana a ridosso della frontiera turca si è combattuto tra il settembre 2014 e il giugno 2015. La lunga battaglia si è conclusa con la vittoria sui miliziani dello Stato Islamico di una coalizione che ha visto insieme le truppe del PKK-PYD, le brigate dell’Esercito Libero Siriano e i peshmerga di Barzani, con l’appoggio aereo degli USA. La vittoria però non è stata gradita da Ankara che vi ha visto un rafforzamento del PKK.

I media occidentali presentano le forze curde-siriane come il miglior strumento militare contro lo Stato Islamico, mettendo in secondo piano i gruppi guerriglieri islamisti, compresi quelli sostenuti dai Paesi occidentali tramite la Turchia, l’Arabia Saudita o il Qatar. Soprattutto omettono il fatto che queste forze curde-siriane non combattono il regime siriano ma puntano a negoziare con esso per arrivare ad una Siria federale, nel seno della quale la regione del Rojava disporrebbe di una larga autonomia politica e amministrativa, come probabilmente hanno fatto balenare le diplomazie di Russia e Stati Uniti per ottenere il loro sostegno sul campo di battaglia.

La Turchia da parte sua deve arginare imperativamente il problema del PKK perché essa è strutturalmente e storicamente opposta ad ogni forma di autonomia curda, anche in ambito federale. Da qui il suo accanimento contro i curdi turchi e siriani. Benché abbia sostenuto gli islamisti dello Stato Islamico in passato, nel 2015-2016 ha cambiato strategia: dopo gli attentati sul suolo turco attribuiti al PKK, Ankara nel luglio 2015 ha rotto i negoziati di pace con esso e ha bombardato le sue basi nel Kurdistan iracheno. Dopo il tentato colpo di Stato in Turchia del 15 luglio del 2016 si è riavvicinata al nemico-amico russo proclamando apertamente la sua ostilità verso lo Stato Islamico. Questo cambiamento di strategia di Ankara nei confronti del PKK si può spiegare con l’azione offensiva del PKK nel nord della Siria al confine turco e con le ambizioni autonomiste del Rojava.

Il rafforzamento del PKK-PYD in questa regione si è effettuato a spese dello Stato Islamico, e grazie al sostegno degli USA, che hanno chiuso gli occhi su certe azioni del PKK per ripulire la regione dalle popolazioni non curde e per far tacere le voci dissidenti provenienti dai gruppi curdi che si oppongono al regime siriano, o anche dall’interno stesso del PKK.

In effetti in questo partito si stanno affrontando da molti anni due tendenze: quella di Öçalan, da 18 anni in prigione ma favorevole al processo di pace col regime turco, e quella del Quartier Generale di Qandil il quale al contrario appoggia il rilancio della lotta armata in Turchia approfittando della guerra in Siria.

D’altra parte la crescita alle elezioni legislative del giugno 2015 del Partito Democratico del Popolo, filo-curdo, ha fatto perdere al partito di Erdogan, l’AKP islamico-conservatore, la maggioranza assoluta in Parlamento. Adesso Erdogan punta a cambiare la costituzione in modo da rinforzare i suoi poteri presidenziali (accesso al potere esecutivo, alla nomina dei ministri ecc.).

L’oscuro “colpo di Stato” del luglio 2016 a Istanbul gli ha permesso di sbarazzarsi di una buona parte degli oppositori nell’esercito e nell’amministrazione dello Stato. Per Putin ed Erdogan questo “colpo di Stato”, che stupisce per la mancanza di preparazione e per l’assenza di un sufficiente sostegno militare, sarebbe stato incoraggiato, se non promosso, dagli Stati Uniti, ma si può constatare come sia servito soprattutto ad Erdogan. Il 21 gennaio 2017 il voto del Parlamento turco ha sancito la vittoria politica del presidente turco fautore del cambiamento della costituzione.

L’intervento russo

Nel settembre 2015 la Russia è apertamente intervenuta in Siria, chiamata dal governo siriano, per lottare, afferma, contro lo Stato Islamico e al-Nusra. Le reazioni occidentali sono state modeste, tranne le incessanti denunce di massacri di civili siriani da parte dell’Esercito siriano e dei bombardamenti effettuati dai russi. La Turchia, che era ancora ostile al regime siriano, rivendicava una zona di sicurezza lungo la frontiera, minacciando di mettere fine al blocco dell’immigrazione verso l’Europa.

Gli Stati Uniti, da parte loro, hanno dato l’impressione di voler restare in disparte, e quando nel settembre 2013 si è trattato di dover decidere se intervenire militarmente o meno dopo che era stato denunciato l’uso di armi chimiche da parte del regime siriano, hanno scelto di rinunciare, costringendo ad accodarsi anche la Francia, la quale era invece per l’intervento. A questo proposito nello stesso mese di settembre 2013 fu firmato a Ginevra un accordo pubblico tra il Segretario di Stato John Kerry e il Ministro russo per gli Affari Esteri Lavrov, che assegnava alla Russia il compito di smantellare gli arsenali chimici siriani. Certamente questo accordo ha previsto anche altre clausole tenute segrete.

La pacificazione della Siria venne affidata all’Esercito regolare siriano, appoggiato dalle forze russe e da quelle iraniane (alcuni reparti di élite e gli hezbollah libanesi) con il sostegno della Turchia, malgrado le reticenze di Damasco che temeva le ambizioni turche sui territori siriani di confine. La riconquista dei territori iracheni da Mosul verso il nord della Siria fu invece affidata alla coalizione a guida statunitense.

Ma quando occorre il Pentagono sa anche mettere a posto i suoi momentanei alleati, come dimostra l’attacco aereo dell’ottobre 2016 che ha portato all’uccisione di uno dei capi più importanti di al-Nusra, ostile ad Assad.

In effetti l’accordo con la Russia, tenuto segreto, prevederebbe la liquidazione, oltre dello Stato Islamico, dei gruppi jihadisti anti-Assad, tra cui al-Nusra, e anche la neutralizzazione dell’Esercito Libero Siriano. Così, dopo la loro entrata ufficiale nella guerra, i bombardieri russi si sono concentrati sui gruppi ribelli ostili al regime di Damasco, benché questi fossero ancora ufficialmente sostenuti dagli Stati Uniti, dall’Europa e dalla stessa Turchia.

Nel giugno 2014 la presa di Mosul da parte dello Stato Islamico fu seguita da una campagna di sterminio contro i curdi yazidi (una popolazione curdofona che professa una religione correlata con lo zoroastrismo persiano). I combattenti del PKK-PYG, venuti dalla Siria e dalla Turchia, iniziarono allora, nel dicembre 2015, una audace operazione che spezzò l’assedio jihadista alla montagna di Sinjar, nel Nord-Ovest dell’Iraq, vicino al confine con la Siria. Gli Stati Uniti li sostennero di nuovo dando luogo ad una collaborazione sempre più stretta tra le forze speciali statunitensi e i guerriglieri del PKK, nonostante le proteste di Ankara, che rispose mandando alcuni reparti del suo esercito ad appoggiare i peshmerga di Barzani nella lotta contro lo Stato Islamico, per far evacuare 100.000 profughi yazidi.

Il 17 febbraio 2016 il PKK ha fatto saltare nel tratto in Turchia il gasdotto che trasporta il gas iracheno e curdo verso il porto mediterraneo di Ceyhan. Ha così fatto perdere al governo regionale del Kurdistan, in preda ad una grave crisi economica, circa 300 milioni di dollari. Questo sarà dunque costretto a trattare con il PKK o a trovare altre vie per vendere il suo petrolio, magari rivolgendosi all’Iran. Il PKK, al soldo degli interessi russi e, se questo gli venisse utile, degli americani, è utilizzato per mantenere la pressione sulla Turchia. Infatti il PYD nel febbraio 2016 ha potuto aprire a Mosca il suo primo Ufficio di rappresentanza all’estero.

La battaglia di Aleppo

La situazione ad Aleppo nel gennaio e febbraio 2016 ha dimostrato un riavvicinamento tra PKK-PYD e il regime siriano. Le truppe dell’YPG, con l’appoggio di ”consiglieri” statunitensi, hanno assediato i quartieri tenuti da quegli stessi ribelli che gli occidentali affermano di aiutare in funzione anti-Assad. Ma ormai è evidente che tutti i campi borghesi vogliono sbarazzarsi dei gruppi ribelli anti-Assad.

Le truppe siriane, appoggiate dall’aviazione russa, e i combattenti sciiti iraniani, iracheni e libanesi a fine luglio del 2016 erano riuscite a tagliare una delle due strade che permettono ai ribelli islamisti di al-Nusra e ai gruppi salafiti di congiungere Aleppo con la frontiera turca. La battaglia di Aleppo è stata un vero pantano di interessi contrapposti. L’aviazione di Mosca ha bombardato centri di soccorso, ospedali, riserve alimentari, provocando le grida d’indignazione del campo americano e dei suoi sbirri. Nel frattempo gli Stati Uniti si occupavano della città di Mosul, in Iraq, e quando bombardano gli ospedali lo fanno, a sentire John Kirby, il rappresentante del commercio degli USA in Medio Oriente, “in conformità col diritto internazionale” e proteggendo i civili!

Mentre scriviamo la battaglia di Mosul è ancora in corso, anche se i miliziani dell’Isis controllano soltanto alcuni quartieri della parte occidentale della città. Il 19 marzo le truppe regolari irachene sono arrivate a poche decine di metri dalla Moschea di Nouri, dove nel giugno del 2014 Ibrahim al-Baghdadi proclamò solennemente il “califfato” dello Stato Islamico e nominò se stesso califfo, assumendo il nome di Abu Bakr, il primo successore del profeta Maometto.

Sulla frontiera turco-siriana

La cooperazione tra l’Esercito siriano e le truppe dell’YPG è stata molto fruttuosa per il regime di Damasco, come per i curdi siriani, la cui ambizione di autonomia politica e amministrativa necessita che le tre province di Afrin, di Kobanê e di Jazira si congiungano lungo tutto il confine settentrionale, progetto che fa infuriare Ankara. Tutto sembra contraddittorio: la Turchia gioca su più tavoli. All’inizio del 2016 si riavvicina alla Russia, che manovra il PKK, nemico del regime turco. Gli Stati Uniti sostengono egualmente il PKK-PYD siriano, considerato ufficialmente un’organizzazione terroristica, e cooperante con l’Esercito siriano, sotto la protezione dei russi.

La carta curda è nuovamente utilizzata da tutti gli attori della politica mediorientale, il cui unico scopo è quello di spartirsi la regione e impedire ogni possibilità di insurrezione armata autonoma della popolazione.

Il PYD ha sempre avuto un orientamento non particolarmente conflittuale verso il regime di Assad, ha sostenuto l’intervento russo in Siria, all’inizio del 2016 ha profittato dei bombardamenti russi sui dintorni di Aleppo per conquistare nuovi territori a detrimento delle forze dell’opposizione islamica e dell’Esercito Siriano Libero. In breve, il fine dell’autonomia giustifica ogni mezzo, ogni alleanza e tradimento.

Nel marzo 2016 il PKK-PYD, che insieme ad alcune fazioni arabe controlla ormai la quasi totalità della frontiera turco siriana tra l’Eufrate e la frontiera irachena proclama la creazione di una regione federale nel Nord della Siria, a cui si oppongono i gruppi anti-Assad, il regime di Damasco, gli USA e, ovviamente, la Turchia.

Intanto in Iraq l’esercito di Baghdad, con l’appoggio di milizie sciite, aiutate dal sostegno aereo della coalizione occidentale e delle milizie iraniane, incomincia la riconquista della città sunnita di Falluja, vicino a Baghdad, che era nelle mani dello Stato Islamico dal gennaio 2014 e che sarà ripresa totalmente dalle truppe governative a fine giugno.

Dall’estate del 2016 l’esercito turco interviene dunque in Siria, senza collaborare apertamente con le truppe russe, iraniane e gli hezbollah libanesi, che sostengono il regime di Bashar al-Assad. Erdogan ormai non insiste più per le immediate dimissioni del dittatore siriano, ma l’Iran resta per la Turchia una potenza regionale concorrente.

Gli interventi turchi in Siria puntano soprattutto contro i gruppi curdi legati al PKK, mentre il governo Erdogan e i suoi uomini d’affari intrattengono eccellenti relazioni con i curdi iracheni di Barzani. Il suo riavvicinamento con la Russia è anch’esso di circostanza. Questo riavvicinamento turco-russo della metà del 2016 non può farsi che a detrimento dei curdi siriani.

In precedenza, nel novembre 2015, la distruzione di un aereo da caccia russo da parte dell’aviazione turca, nei pressi della frontiera siriana in una zona controllata dalle milizie dei turcomanni alleati di Ankara, aveva provocato una crisi diplomatica tra i due Paesi, con ritorsioni economiche russe sulle importazioni di frutta e verdura dalla Turchia. Ma un riavvicinamento era ricercato da Mosca, anche se i due Paesi avevano opposte posizioni sul mantenimento o meno al potere di Bashar al-Assad. In cambio del sostegno militare turco in Siria, Putin ha dovuto promettere di non sostenere più il PKK e la sua emanazione siriana, il PYD-YPG, che per la Turchia restano nemici da abbattere.

Per i protagonisti più potenti, i russi e gli americani, è necessario mettere un freno alle ambizioni autonomiste del PKK, rafforzati dalla vittoria della loro azione ad Aleppo e nel Kurdistan siriano. Per questo i russi stanno per lasciare il posto alla Turchia, mentre negli negli ultimi tempi gli USA stanno giocando con grande spregiudicatezza la carta curdo-siriana.

Lo “Scudo sull’Eufrate”

A fine agosto 2016 l’esercito turco, con la copertura aerea degli Stati Uniti, interviene direttamente nel Nord della Siria per cacciare dalla regione prossima ai suoi confini le milizie dello Stato Islamico. Per Ankara si tratta soprattutto di impedire che il PKK-PYD unisca i differenti cantoni della regione del Rojava, con l’obbiettivo di creare una regione cuscinetto lungo tutta la sua frontiera. Il PKK-YPG è così stato rigettato ad oriente dell’Eufrate grazie alla pressione del suo “amico” americano.

Nell’ottobre 2016 Russia e Turchia firmano un accordo sulla realizzazione del gasdotto Turkstream, sotto il Mar Nero; la Russia riprende la costruzione di 4 reattori nucleari nella provincia di Mersin, sulla costa in Cilicia, e la Turchia è nuovamente autorizzata ad esportare la sua frutta e le sue verdure in Russia. In contropartita la Turchia accetta di mantenere al potere Assad, rinuncia ad appoggiare i suoi oppositori islamisti, gli stessi sostenuti da Arabia Saudita, Qatar, USA, Gran Bretagna e Francia.

La Turchia minaccia anche di ritirarsi dalla coalizione anti-Stato Islamico, il che significherebbe il divieto di utilizzo della sua base aerea di Incirlik, principale base operativa delle forze aeree della coalizione ed utilizzata da Stati Uniti, Germania ed Arabia Saudita per bombardare obbiettivi in Iraq e in Siria. L’altra base aerea utilizzata dalla coalizione è quella di al-Azraq, in Giordania, dove sono dispiegati aerei del Bahrein, dei Paesi Bassi, del Belgio, della Francia e degli Usa. Evidentemente la Turchia intende proseguire le sue incursioni aeree sul territorio curdo siriano contro le truppe dell’YPG, che sono sostenute dagli USA, dalla Gran Bretagna, dalla Francia e dalla Germania.

Nell’ottobre 2016 comincia l’offensiva “comune” verso Mosul in Iraq, condotta dall’esercito iracheno con la sua “divisione d’oro”, composta dall’80% di sciiti, equipaggiata ed addestrata da consiglieri statunitensi per il combattimento urbano, da reparti dell’esercito iraniano e dai peshmerga curdi di Barzani. Ma ognuna di queste componenti combatte per i suoi scopi e diffida degli alleati.

Nell’aprile 2016 si erano verificati scontri tra milizie sciite irachene e l’Unione Patriottica del Kurdistan Iracheno (UPK). Nel novembre al parlamento iracheno i deputati sciiti e curdi votano una legge che ufficializza le milizie sciite e dà loro una immunità quasi assoluta, malgrado l’opposizione dei deputati sunniti. In questo modo ancora una volta ogni speranza di riconciliazione nazionale viene sepolta. I partiti borghesi sunniti iracheni hanno perduto, dopo quella di Saddam Hussein, la carta dello Stato Islamico. Immediatamente le milizie sciite hanno organizzato delle rappresaglie contro la popolazione sunnita; questi episodi sono stati denunciati da Amnesty International ma negati dalle autorità di Baghdad e di Erbil. Quanto ad Ankara, che si presenta come protettrice dei sunniti, il suo obbiettivo primario resta quello di lottare contro la sua bestia nera del PKK.

Nel febbraio 2017 lo Stato Islamico, che ha perduto terreno su molti fronti, in Iraq, in Siria, in Afghanistan e in Libia, chiama i suoi seguaci ad effettuare attentati nei paesi occidentali e rafforza la sua presenza in Africa occidentale e nel Sahel, in Nigeria, nel Niger, in Burkina Faso.

Nuovi elementi di instabilità si aggiungono in una situazione di caos globale determinato e alimentato dalla crisi mondiale del capitalismo.

I negoziati di Astana

Per Putin e Trump si tratta di negoziare in segreto un accordo politico globale e una nuova spartizione della regione. Le potenze regionali come l’Iran, la Turchia e l’Arabia Saudita cercano anch’esse di fare il loro gioco, mentre l’elemento curdo, la cui efficienza guerriera viene utilizzata su tutti i fronti, non ha mai pesato nei mercanteggi interimperialisti e sarà ancora una volta abbandonato al suo destino e le promesse fatte saranno ancora una volta tradite. Lo stesso discorso vale d’altronde per le truppe ribelli siriane.

Fatto sta che ai negoziati tenutisi ad Astana, la capitale del Kazakistan, il 23 e 24 gennaio 2017, tra Russia, Turchia, Iran e Governo siriano, hanno preso parte alcuni gruppi scelti dell’opposizione siriana: capi di gruppi combattenti vicini alla Turchia e all’Arabia Saudita, alcune unità dell’Esercito Libero Siriano sostenute dagli USA, l’Esercito dell’Islam (Jaysh al-Islam, un gruppo salafita filo-saudita), ma nessun rappresentante della società civile né dei dissidenti in esilio, né alcun rappresentante del PKK-PYD; mentre gli USA, l’UE e l’ONU erano presenti come osservatori. Le Forze Democratiche Siriane (SDF), una coalizione curdo araba guidata dal PYD, non è stata invitata per non offendere la sensibilità di Ankara.

Intanto Ankara e Baghdad si erano già riavvicinate, in senso ostile al PKK. Il primo ministro turco il 7 gennaio 2017 si era recato in visita ufficiale a Baghdad e a Erbil allo scopo di risolvere il contenzioso tra i due paesi riguardante la presenza militare turca nel Nord dell’Iraq e la presenza di formazioni armate organizzate dal PKK e dal PYG sul monte Sinjar. Il governo Barzani ha dato assicurazione all’emissario turco che anch’egli desidera che il PKK abbandoni quelle zone.

I negoziati di Astana, che anticipano quelli di Ginevra organizzati dall’ONU, previsti per il 23 marzo, sono rivelatori dei nuovi rapporti di forza. Ne risulta che la Russia è determinata a mantenere uno Stato centrale siriano suo alleato e a rafforzare l’asse Mosca-Teheran-Damasco. Teheran rinnova il suo sostegno incondizionato a Damasco, suo alleato in Medio oriente e indispensabile tramite verso gli Hezbollah libanesi. L’Iran tenta così di rafforzare la sua posizione per poi mercanteggiare con gli USA e Israele. La Turchia allarga l’influenza diretta sul Nord della Siria ed ottiene l’arresto dell’avanzamento del PYD.

Il progetto di Costituzione siriana elaborato dal Cremlino lascerebbe alla componente curda un ruolo importante nel futuro politico del Paese. Federalista, prevede una forte decentralizzazione, con riferimenti espliciti a una “autonomia curda”, e il ritiro dell’aggettivo “araba” dalla denominazione della Repubblica. Questo evidentemente non è accettato dalla componente araba dell’opposizione al regime, né la legalizzazione dell’insegnamento delle lingue regionali, come il kurmanji dei curdi di Siria. Ma questo progetto dovrà ottenere l’avallo sia dei negoziatori di Ginevra, sia del governo di Bashar al-Assad, che vorrà basarsi sulle componenti demograficamente maggioritarie, dopo che la fuga della popolazione siriana sunnita, a causa dei combattimenti, ha cambiato la situazione precedente la guerra.

Attorno a Mosul si accentuano le tensioni per il controllo delle zone liberate dallo Stato Islamico. Così le milizie del signore della guerra Atheel al-Nujaifi, ex governatore di Ninive e vicino alla Turchia, le cui truppe si trovano a nord di Mosul, hanno ricevuto l’ordine dell’esercito iracheno di abbandonare le funzioni di polizia su queste zone.

Ad oggi

Lo scacchiere del Medio Oriente rappresenta il teatro complesso e instabile della lotta tra i grandi Paesi imperialisti per dividersi il mondo. Per la spartizione strategica ed economica della regione Mosca e Washington si danno spallate tramite questi combattimenti dalle componenti variabili, con trattative diplomatiche, manipolando formazioni islamiste e curde, con minacce militari ed economiche più o meno discrete sulle potenze secondarie e rivali tra loro come la Turchia, la Siria, l’Iraq e l’Iran, prese tra due fuochi.

Nella fornace siriana sembrerebbe che il campo russo abbia rafforzato la sua posizione in Medio Oriente, facendosi indispensabile interlocutore degli Stati Uniti per la spartizione della Siria; la sua “alleanza”, benché fragile, con la Turchia è anche una minaccia per il controllo americano sulla regione.

Resta prioritario per la Turchia dotarsi di una fascia di sicurezza nel nord della Siria, liberata dai jihadisti e dai separatisti curdi del PYD; sia la Russia sia gli Stati Uniti mantengono un atteggiamento ambiguo al riguardo.

Se in un primo tempo Mosca ha giocato la carta della destabilizzazione della Turchia, sostenendo attivamente il PKK, l’alleanza con Ankara è ad essa favorevole in ragione degli interessi economici comuni e della sua posizione strategica. Da parte sua la Turchia tenta di giocare la carta russa a causa dell’avvenire incerto, ormai fortemente improbabile, del processo di integrazione della Turchia nell’Europa (aggravato dalle critiche dell’UE e degli USA riguardo alla repressione attuata da Erdogan dopo il colpo di Stato militare del luglio 2016) e come mezzo di pressione verso lo schieramento euro-americano. La Turchia non pensa di lasciare la NATO e la sua strategia di contenimento dell’influenza russa, né può rinunciare ai suoi legami economici con l’Europa, con la quale ha in progetto la costruzione dell’oleodotto dall’Asia centrale per l’Azerbaijan evitando la Russia. Un vero rompicapo per la diplomazia turca!

I clan curdi si ritrovano così una volta ancora utilizzati, manovrati, ingannati da promesse che non vengono mantenute, da parte di borghesie imperialiste che usano e abusano delle loro imponenti forze militari ed economiche quando si cerca di venire a patti con esse.

L’8 marzo ad Antalya si è tenuta una riunione alla quale hanno partecipato i vertici militari di Stati Uniti, Russia e Turchia e si sono definiti i termini dell’attacco finale alla principale roccaforte dello Stato Islamico in Siria, il quale è stato affidato a forze curdo-siriane e statunitensi, mentre ai russi è stata lasciata carta bianca nella lotta alle forze jihadiste nelle regioni nord-occidentali del paese. Un accordo che prefigura una spartizione della Siria in due sfere di influenza russa e americana.

L’attacco contro Raqqa è iniziato a metà marzo. Alla testa dei 30 o 40.000 uomini della coalizione a guida curda delle Forze Democratiche Siriane, si trova un battaglione di artiglieri dei marines americani di circa 400 uomini. Gli Stati Uniti forniscono anche la copertura aerea. Gli aerei della coalizione il 22 marzo colpiscono una scuola nei pressi di al-Mansoura, nella zona controllata dall’Isis, uccidendo una trentina di bambini. Negli stessi giorni l’aviazione statunitense ha ripreso ad attaccare gli uomini di Ahrar al-Sham, cioè i vecchi alleati di ieri, dimostratisi inservibili nell’attuale fase di sparigliamento delle carte, nella quale l’amministrazione americana fa assegnamento soprattutto sulle forze curde. Il 16 marzo nei pressi di Idlib decine di fedeli sono morti fra le macerie di una moschea bombardata dall’aviazione statunitense in un’operazione che il comando americano ha affermato fosse mirata a colpire un edificio in cui si trovavano non meglio precisati “uomini di al-Qaeda”: un altro indizio che l’obiettivo del raid erano gli ex alleati di Tahrir al-Sham.

In seguito gli USA colpivano anche la base aerea dell’aviazione siriana di Shayrat. Si trattava di dare un avviso al regime di Damasco il quale, dopo la riconquista di Aleppo, non doveva tentare di trarre ulteriori vantaggi dall’indebolimento del fronte ribelle dell’Esercito Libero Siriano e dei suoi alleati jihadisti. Il bombardamento della base avveniva con modalità che lasciano spazio a qualche perplessità: al di là del baccano mediatico che voleva dare ad intendere che si trattasse di una ritorsione per il bombardamento di Khan Shaykhun del 4 aprile, in cui alcune decine di persone sarebbero morte a causa della dispersione di gas letali (non sappiamo se lanciati dall’aviazione di Damasco o fuoriusciti dai depositi di armi chimiche in loco appartenuti alle forze ribelli), i danni del bombardamento apparivano limitati nonostante l’uso di 59 missili Tomahawk lanciati da unità navali nel Mediterraneo. Poche ore dopo il bombardamento gli aerei di Damasco riprendevano a utilizzare la base la cui pista era rimasta intatta per compiere nuovi attacchi contro le postazioni dei ribelli, comprese quelle di Khan Shaykhun. La base era stata in gran parte evacuata poco prima dell’attacco e non sono stati colpiti aerei o militari russi: evidentemente i comandi russi e statunitensi si scambiano informazioni in uno scontro che è sempre più evidente una guerra contro il proletariato.

Un altro aspetto è la rivalità fra gli Hezbollah e l’Iran da una parte e Israele dall’altra. Il 27 aprile l’aviazione dello Stato ebraico ha compiuto un raid contro un deposito di armi e munizioni degli Hezbollah nei pressi dell’aeroporto di Damasco provocando una fortissima esplosione. Un fatto questo che fa seguito alle frequenti incursioni israeliane in Siria volte a colpire l’organizzazione degli sciiti libanesi alleata dell’arcinemico Iran.

Anche il fronte interno palestinese, con un cambio di alleanze, sembra muoversi in una direzione che spariglia ancora le carte, in un gioco in cui la somma finale sembra essere sempre la conferma sostanziale degli equilibri regionali. Hamas ha reso nota la rottura del suo legame con i Fratelli Musulmani rendendo possibile un riavvicinamento con l’Egitto del generale al-Sissi.

Intanto nel momento in cui scriviamo sul fronte settentrionale la annunciata avanzata delle forze curde e statunitensi su Raqqa, la capitale siriana della Stato Islamico, sembra ancora in attesa. Pesa il complesso gioco delle alleanze e l’opposizione turca a un’operazione che creerebbe un’ampia zona a egemonia curda. Mentre sembra che la Turchia stia ammassando truppe al confine con la Siria, la questione pare che sia stata affrontata anche nell’incontro fra il presidente statunitense e quello turco svoltosi a Washington il 17 maggio durante il quale Trump avrebbe confermato l’intenzione statunitense di continuare a considerare le milizie dell’YPG come alleate, richiamando all’ordine le velleità interventiste di Erdogan.

Mettendosi agli ordini degli imperialismi, i gruppi armati e i partiti curdi, che rappresentano interessi borghesi, si schierano nella lotta delle classi dominanti curde e mondiali contro il proletariato, fonte della loro potenza e della loro ricchezza, e non per l’emancipazione del “loro” popolo e della “causa nazionale” dei curdi.

La sola uscita da questo combattimento ineguale è la realizzazione dell’unione delle forze delle classi sfruttate a scala internazionale, e non il loro raggrupparsi in illusorie identità culturali, razziali o religiose, o peggio ancora nazionali, miti tenuti in vita solo dalla propaganda borghese. La storia non la fanno più le nazioni ma è matura la lotta tra le due grandi classi nemiche, la borghesia e il proletariato, di cui l’una vive come parassita del sangue e del sudore dell’altra. La sola chiave del dramma siriano e del medio oriente è la lotta di classe!

PARTITO COMUNISTA INTERNAZIONALE

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