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"I Quattro anni che cambiarono il mondo",
a cura di Virginia Pili

Roma, Red star press, 2017, pp. 165, € 15.00.

(22 Luglio 2017)

i quattro anni che cambiarono il mondo

Con la ricorrenza del centenario gli scaffali delle librerie vanno riempiendosi, a volte con scompartimenti specifici, di pubblicazioni sulla Rivoluzione d’Ottobre, tra novità, riedizioni e ristampe. Quella che compie il secolo il prossimo 7 Novembre è, secondo l’impeccabile espressione del politologo nordamericano Chalmers Johnson, la seconda total revolution, dopo la francese e prima della cinese. Rivoluzione totale, o completa, perché si presenta nella sua triplice dimensione politica, socioeconomica e nazionale, modello per il resto del mondo, che ne è uscito giocoforza cambiato, irrimediabilmente. E la Red star, che nel suo catalogo ha già dedicato ampio spazio al periodo storico in oggetto, dando voce a diversi punti di vista, ora edita un titolo parafrasante la più celebre cronaca della Presa del palazzo d’Inverno, a ricordare il fatto che il potere del primo stato operaio al mondo non si fosse istaurato in dieci giorni - durante i quali si era consumato l’evento, per così dire, simbolico -, con il solo rimbombo delle cannonate a salve dell’incrociatore Aurora. Perché ciò avvenisse dovettero passare, almeno, quattro anni, in cui l’Armata rossa si trovò ad affrontare in patria oltre venti eserciti stranieri venuti in soccorso dell’Armata bianca, con una sanguinosa e martoriante guerra civile al fine della quale i vittoriosi bolscevichi, protagonisti assoluti dell’immane sforzo, potevano dimostrare alle masse di tutto il mondo come il potere dei lavoratori, operai e contadini, fosse possibile, che quella dei soviet non fosse l’ennesima effimera repubblica stroncata sul nascere dalla reazione, com’era stato nei decenni, nei secoli, passati. Basti solo quest’elemento per rigettare ogni possibile strumentale confronto o equiparazione di questa esperienza, tragica certo come ogni sconvolgimento realmente rivoluzionario necessariamente è, con i sistemi fascisti coevi e successivi ad essa, al potere grazie alle istituzioni preesistenti e a quei ceti privilegiati di cui erano espressione.

Questo è lo scenario su cui poggia questa breve antologia di scritti curata da Virginia Pili (Cagliari, 1989), due anni perciò quando veniva ammainata la bandiera rossa sul Cremlino, residente a Roma e studiosa di storia e letteratura sovietica. Si tratta della prima edizione in lingua italiana, integrale. Le pubblicazioni in Urss nel corso degli anni avevano subito censure e omissioni in ragione del fatto che alcuni degli autori poi aderiranno all’Opposizione di sinistra, seguendone i destini.
Durante la Guerra civile che fece seguito alla Rivoluzione, ad occuparsi delle cronache dai fronti al fine di informazione, e di propaganda, erano i voenkory, i corrispondenti di guerra, spesso giovani e poco più che alfabetizzati. Gli autori qui presenti, però - precisa Guido Carpi in prefazione -, sono quelli d’estrazione colta, più adulti, che avevano il compito di affiancare i giovani cronisti. Aldilà della provenienza sociale di chi scriveva, l’obiettivo, che potrebbe sembrare ovvio, è quello di dimostrare che “dietro i grandi teorici agisce uno sterminato esercito che nazionalizza le fabbriche, organizza l’economia dei distretti, seleziona il bestiame, i lavoratori, gli esperti per le comuni”, come scrive la curatrice. Questo esercito è il protagonista della pubblicazione, con i suoi valori, le sue contraddizioni e le difficoltà di approccio con il mondo degli intellettuali. Per citare un esempio a riguardo, Lev Semenovic Sosnovskij, ne I Costruttori della Russia, parla dell’espediente di far figurare Lenin presso i contadini come un vecchio saggio patriarca, nella difficoltà di farne conoscere l’opera in tempi brevi. Ed è da questo esercito che proviene la galleria di personaggi su cui gli autori si soffermano. Una figura significativa, descritta dallo stesso Sosnovskij, è quella di Kljuev, anziano operaio delle fonderie, molto malato, che aveva inventato un metodo innovativo per la fusione ad antracite, il cui encomio, però, alla Mostra dell’industria e dell’agricoltura del 1896, era andato al suo padrone. Sul nuovo potere sovietico Kljuev, riporta la cronaca, non dice “niente di particolare, gli sta bene”.

I narratori nello stile sono, superfluo dirlo, eredi della grande tradizione letteraria russa, dai toni più realistici rispetto alle spettacolari avanguardie artistiche della Rivoluzione destinate ad infiammare l’immaginario mondiale. La retorica è presente a giuste dosi, come dimostrano le domande di Larisa Michailovna Rejsner, formulate nell’estate del 1919, nel pieno della Guerra civile: “Quando mai la vita era stata più meravigliosa che in quegli anni gloriosi? Se non si riusciva a vedere nulla in questo momento, se non si riusciva a percepire la pietà, l'ira, la gloria di cui era infuso anche il più triste e più grigio dei giorni di questa battaglia unica nella storia, allora a che serviva vivere? Allora in nome di che cosa si doveva morire?".

Non mancano, infine, episodi curiosi e comici: in uno si racconta di come le Guardie rosse lasciassero un’impronta di unto ovunque si poggiassero. E ciò perché avevano passato con il grasso nero tutte le giacche che avevano in dotazione, originariamente chiare: qualcuno gli aveva detto che scure erano più belle.

Silvio Antonini

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