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(10 Febbraio 2018)
al-Serraj
Nella scorsa estate sono avvenuti importanti sviluppi nella questione libica, in particolare tra i governi italiano e francese, comitati d’affari dei rispettivi capitalismi, maggiormente interessati alla spartizione delle enormi risorse petrolifere del paese.
Riprendiamo la sintetica descrizione dei fatti dal nostro precedente articolo nel numero 382 di questo giornale.
L’intervento del capitalismo francese allora aveva due importanti obiettivi: il più urgente era impedire il progetto di Gheddafi di sostituire nelle ex colonie africane la moneta unica circolante, il Franco Cfa, legato e controllato dalla Banca di Francia, con una nuova moneta africana. Il secondo era spezzare il quasi monopolio della italiana Eni sugli idrocarburi libici, rafforzato dall’accordo economico tra Gheddafi e Berlusconi stilato nel 2008, mediante il quale il rais libico, già detentore del 7% delle azioni Eni, avrebbe potuto raggiungere quota 10%, fornendo così all’azienda italiana nuovi capitali freschi per intraprendere ulteriori investimenti in Libia e non solo.
Eliminare fisicamente Gheddafi fu nel 2011 infine ritenuto necessario poiché le formazioni degli oppositori e dei ribelli, sostenute da Parigi, non sarebbero mai state in grado di sconfiggere l’esercito libico. Quella politica della Francia è poi continuata. Altri attori sono stati Russia, Regno Unito, Egitto, Usa, e le petromonarchie arabe.
Sul territorio la situazione al momento si è stabilizzata su due poli: quello di Tripoli, riconosciuto dalle autorità internazionali, sotto l’effimera guida del capo islamico Fayez al-Serraj, considerato, non solo dalla sua opposizione interna ma anche da quella esterna, come una marionetta nella mani del governo italiano, e quello di Tobruk, di fatto dominato dalle consistenti milizie del generale Khalifa Haftar, su cui punta la politica della Francia per costituire un governo centrale unico sotto la sua influenza. Vi è anche la proposta francese, sostenuta dall’Onu, di unificare le varie milizie in un unico esercito, il quale sarebbe dominato dalla forte maggioranza delle truppe di Haftar.
L’Eni, secondo le ultime informazioni, detiene ancora il 48% della produzione petrolifera ed il 41% della produzione di gas naturale dai giacimenti nella Cirenaica e nel Fezzan. Ma la recente dichiarazione del governo di Tobruk di vietare l’operatività delle aziende italiane in Cirenaica, di ottenere nuovi contratti, di estendere quelli in essere e di costituire joint venture con aziende locali, mette in serio pericolo l’attività della multinazionale italiana. L’Eni è anche in difficoltà nel confinante Sudan dove detiene ancora dei giacimenti petroliferi, di difficile sfruttamento in quel territorio, controllato da tribù da sempre dedite al contrabbando e al traffico e mercato di schiavi, che si procurano catturando i migranti africani. Questi, attraversato il Sudan, cercano di raggiungere le coste libiche, nel tristemente famoso “tragitto della morte”, e di imbarcarsi sui gommoni per l’Italia.
Per di più il ministro Munir Assar del governo di Tobruk ha dichiarato all’agenzia di stampa libica Lana che la risoluzione numero 37 del 14 agosto «è stata presa a causa dell’aperta ostilità dell’Italia verso il popolo libico (...) I nostri amici che sono al nostro fianco durante questa crisi hanno più diritto a una partnership economica (…) La tecnologia non è monopolio degli italiani». Più chiaro di così!
Nel contrastare l’azione di Parigi, sostenuta da tutti i suoi soci, nella faccenda contro l’Eni, il governo italiano ha mostrato indecisioni, palesi errori di valutazione e decisioni affrettate, tutte nell’italico stile indipendentemente da chi occupa le poltrone romane. Col pretesto di voler bloccare l’immigrazione clandestina, annunciò una missione navale militare italiana, inizialmente richiesta da al-Serraj, in appoggio alla sua guardia costiera, missione che avrebbe sicuramente obbligato i francesi a rispondere adeguatamente. Haftar ha dichiarato di essere in grado di fermare il traffico dei migranti clandestini, ma ha velatamente chiesto all’Italia una decina di miliardi di euro per il servizio.
Al-Serraj, nel tentativo di proteggere la debole coesione del suo governo dagli attacchi del rivale Haftar, ma soprattutto per contrastare quanti lo accusavano di portare le navi militari italiane nelle acque territoriali davanti a Tripoli, ha ordinato alla Guardia costiera sotto il suo controllo di ostacolare gli scafisti, dopo anni di sporchi affari in comune. Questo per dimostrare che avrebbe il controllo del territorio ed efficienti forze fedeli.
Così il 5 agosto la Guardia costiera libica ha fermato due imbarcazioni che stavano uscendo dalle acque territoriali bloccando 826 disperati, riportati indietro e stipati in infernali “centri di accoglienza”, quasi ovunque gestiti dagli stessi trafficanti.
L’effetto sulla borghese “pubblica opinione” dell’Italia in vacanza fu notevole, facendola apparire una “soluzione” che “risolveva definitivamente il problema”. Ma i dati del Viminale parlano di 95.215 arrivi dal 1° gennaio al 2 agosto 2017, quasi gli stessi dei 97.892 dello stesso periodo del 2016. Ben presto le partenze si sono spostate altrove, principalmente dalla Tunisia, dove la Guardia costiera ha recentemente affondato un barcone di sventurati.
Dagli scafisti la lotta si è estesa alle varie Ong dedite al salvataggio dei migranti, alcune delle quali accusate di un qualche coordinamento con questi nel traffico.
Al-Serraj, le tribù beduine della Tripolitania e quelle del Sud sono costretti ad appoggiare la politica italiana per avere una qualche protezione dalla aggressiva politica francese: da sole verrebbero facilmente tolte di scena dalle truppe di Haftar. Questo è ben conscio che al-Serraj non è l’uomo del futuro della Libia, e si presenta, in particolare all’Italia, come il potenziale nuovo rappresentante di una Libia “laica” e unificata. Ma i suoi attuali alleati svolgono tutti una politica contraria agli interessi italiani. La crisi economica acuisce le contraddizioni tra Stati imperialisti e patti ed alleanze, anche pluridecennali, sono destinati ad essere rimessi in discussione.
Le migrazioni dall’Africa
Quella dei migranti non è un’emergenza contingente o legata alla questione libica ma un fenomeno provocato alla generale crisi mondiale del capitalismo. La borghesia italiana da anni ha fiutato l’affare delle decine di migliaia di migranti che, spinti dalla fame, dalle guerre, dalla mancanza di ogni prospettiva di vita, si spostano da varie regioni dell’Africa verso l’Europa. Lo scopo non è certo rendere sicura la civile migrazione di popoli in questa parte del pianeta, ma di farsi attribuire i fondi comunitari e tenere il mercato del lavoro italiano ben rifornito di mano d’opera a basso costo.
Ne uscirono gli accordi del 2014 fra il governo Renzi e l’Unione Europea. In un’intervista del 7 luglio scorso Emma Bonino, all’epoca dell’accordo ministro degli Esteri, riferiva: «Nel 2014-2016, quindi durante il governo Renzi (...) siamo stati noi a chiedere che gli sbarchi avvenissero tutti in Italia, anche violando Dublino (...) che il coordinatore fosse a Roma, alla Guardia Costiera, e che gli sbarchi avvenissero tutti quanti in Italia, lo abbiamo chiesto noi, l’accordo l’abbiamo fatto noi». In particolare si riferiva all’operazione europea Triton, partita nel 2014. Concepita non come operazione di salvataggio bensì di controllo delle frontiere, prevedeva per le navi dei paesi europei in azione nel Mediterraneo lo sbarco dei migranti nei porti italiani. Sarebbero state le navi delle Ong ad operare i soccorsi in mare, all’interno di quegli accordi.
Tutti finsero di non vedere che si trattava solo di un tentativo di razionalizzare questa moderna tratta di esseri umani.
In quella situazione l’Unione Europea propose all’Italia e a Malta di diventare porti franchi per i migranti, in cambio di sostegno finanziario e di un’equa ripartizione degli stranieri all’interno dell’Unione mediante un sistema di quote. Malta rifiutò, invece il governo di Renzi decise di rischiare. Di fatto il sistema si inceppò in breve tempo, per tre principali cause: la prima perché Bruxelles lesinò i finanziamenti; il sistema delle quote incontrò forti ostacoli all’interno dell’Unione, con la chiusura a tempi alterni delle frontiere nel 2016 di Francia ed Austria e di quelle dei paesi nell’area slavo-danubiana di recente adesione all’Unione. La terza perché la pressione dei diseredati che si mettono in viaggio è aumentata, e non certo per responsabilità delle organizzazioni “criminali” dei passatori, che solo rispondono a una domanda effettiva.
Quindi si sono riproposti i respingimenti, senza curarsi della sorte di quelle migliaia di disperati sottoposti ad ogni forma di violenze.
I campi di concentramento
La “soluzione” proposta dalla logica del capitalismo, sostenuta anche dalle varie organizzazioni dell’Onu, è, ovviamente, peggiore del male: costituire dei “centri di accoglienza” dei migranti in Libia, da cui prelevare alla bisogna la forza lavoro necessaria al capitalismo europeo, una sorta di “magazzini” di raccolta e stoccaggio di forza lavoro a bassissimo costo, appena fuori dai paesi europei. Diciamolo: campi di concentramento permanenti in cui si ripete la triste esperienza degli innumeri campi profughi che sorsero durante gli anni Novanta e il primo decennio del Duemila in Africa a seguito delle molte crisi locali, fomentate dagli spietati interessi delle grandi Corporations internazionali, che hanno al loro soldo le fameliche classi dominanti locali.
Questi “campi di lunga permanenza” hanno provocato e provocano danni immensi: hanno distrutto intere generazioni, relegate nelle tendopoli da cui è di fatto impossibile uscire. Decine di migliaia di uomini e donne vengono ammassati in spazi ridottissimi, costretti all’inedia e alla fame, falcidiati dalle privazioni, dalle sevizie e dalle malattie, impediti ad ogni integrazione sociale con la popolazione autoctona. La sola prospettiva di sfuggire a questo tragico destino è quella di vendersi alle organizzazioni criminali che hanno facile arruolamento tra questi disperati.
Questi campi di concentramento non sono una novità. Solo tra Kenya, Tanzania e Uganda vi sono 4 milioni di profughi da guerre dimenticate nei vicini Burundi, Congo e Sud Sudan. Significativo il caso del campo profughi più grande al mondo, quello di Dadaab in Kenya, che ospita ben 350.000 disperati, sorto nel 1991 come soluzione temporanea per quanti con intere famiglie abbandonavano la Somalia a causa della guerra civile. Oggi è diventato una città con tende, casupole, scuole, stazioni di polizia. Qualcuno vive lì da vent’anni. Il 9 febbraio 2017 è stata bloccata dall’Alta Corte di giustizia del Kenya la decisione del governo di chiudere il campo, in cui affermava ci fossero basi di al Shabaab, sanguinario gruppo estremista somalo legato ad al Qaida. Spostare gli occupanti avrebbe comportato un costo eccessivo!
Questi ed altri numeri ci dicono che i proletari che dall’Africa cercano di raggiungere l’Europa sono solo una piccola parte dei senza riserve imprigionati all’interno del continente: altro che invasione!
La seconda “soluzione” al dramma dell’immigrazione prospettata dalle borghesie europee è quella, demagogica, di “aiutarli a casa loro”: investire nei paesi d’origine dei flussi migratori allo scopo di eliminare la causa che origina le ondate migratorie, la miseria del sottosviluppo. Questo programma di un “capitalismo dal volto umano” noi sappiamo che è impossibile: è proprio dall’intervento del capitalismo nel continente africano, col suo seguito di guerre per l’ accaparramento delle risorse naturali di cui è ricco, con la conseguente distruzione delle economie locali più arretrate, che è iniziato per i popoli dell’Africa il drammatico ingresso nell’inferno capitalistico dello sfruttamento, della fame, della guerra permanente. L’unico vero volto del capitalismo è infatti quello del profitto e del profitto ad ogni costo; crescita ed arricchimento per il capitale significano miseria per il proletariato. E se si avrà sviluppo del capitalismo nel continente africano, come sicuramente si avrà, questo non avverrà tramite la “collaborazione” tra i rapaci imperialismi mondiali, europei, statunitense, russo e cinese, ma dal loro scontro violento, sulla pelle del proletariato indigeno.
Solo la rivoluzione internazionale, proletaria e comunista, con la distruzione del potere dei borghesi e della forma economica proprietaria, eliminerà alla base le condizioni di ogni miseria, della guerra e delle migrazioni per necessità. Verranno abbattute le artificiali frontiere nazionali e tutti gli umani saranno nella possibilità di spostarsi liberamente nel pianeta, all’interno di un vasto piano per la più completa e sana realizzazione dell’intera specie umana.
PARTITO COMUNISTA INTERNAZIONALE
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