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Emergency: testimony scomody

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(16 Aprile 2010) Enzo Apicella
Il consulente alla difesa USA Luttwak a Anno Zero: Emergency sta dove non deve stare e vede cose che non deve vedere

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Imperialismo e guerra:: Altre notizie

Rohingya piccolo popolo stretto fra gli egoismi borghesi di nazioni e di imperi

(18 Febbraio 2018)

rohingya

Dalla fine di agosto all’elenco di atrocità e violenze che quotidianamente caratterizzano l’attuale e mondiale sistema sociale, il capitalismo, va aggiunto quanto accaduto in Myanmar, la ex Birmania, dove l’esercito del nuovo democratico governo ha scatenato la pulizia etnica contro i rohingya, una popolazione che risiede nella regione del Raknhine – una volta chiamata Arakan – Stato occidentale della Birmania che si affaccia sul golfo del Bengala.

I rohingya, di religione islamica sunnita, sono circa un milione e mezzo, presenti, oltre che in Myanmar, anche in Arabia Saudita, Pakistan, Thailandia, Malesia ed India.

La loro provenienza è incerta, per alcuni storici sono presenti in Birmania dal XII secolo. Sicuramente presenti nel 1785, anno dell’invasione birmana quando, insieme ad altre popolazioni indigene, dovettero abbandonare la regione, che rimase praticamente disabitata fino all’arrivo della colonizzazione inglese, nel 1824. Da allora, e con il passare degli anni, l’impero Britannico, avendo bisogno di manodopera agricola, favorì il ripopolamento, in particolare attingendo dal vicino Bengala: migliaia di rohingya si stabilirono così in Raknhine. Censimenti inglesi antecedenti la Prima Guerra mondiale riportano che circa 200.000 musulmani furono impiegati in Arakan. Sempre in quegli anni vi vennero deportati anche molti indiani, aumentando i conflitti nella regione.

Durante la Seconda Guerra mondiale, con l’invasione giapponese, gli inglesi armarono i rohingya, che però vennero sconfitti e in parte scapparono a Chittagong, oggi grande città del Bangladesh.

Prima della indipendenza della Birmania, avvenuta nel 1948, provarono, senza successo, a separarsi per unirsi al Bangladesh, allora Pakistan orientale.

Con la dichiarazione di indipendenza, iniziarono scontri fra governo centrale e comunità rohingya in un crescendo che arrivò ad un massimo negli anni ‘70. Già allora circa 200.000 rohingya dovettero fuggire in Bangladesh, con sofferenze immaginabili.

Scontri e violenze si sono susseguiti negli anni, tanto sotto il governo democratico quanto sotto il regime militare che, preso il potere nel 1962, discriminò duramente i rohingya dichiarati “individui alieni al Myanmar”.

In Birmania oggi sono presenti e riconosciute circa 130 etnie, ma non quella rohingya. Per una legge del 1982 non possono avere la cittadinanza birmana e non è consentito loro possedere terreni né viaggiare senza un permesso ufficiale. Di fatto in Birmania, con il 90% della popolazione buddista, sono considerati immigrati bengalesi irregolari.

Negli anni, per sottrarsi alle persecuzioni, in migliaia sono fuggiti in Bangladesh, Malesia e Thailandia. Nel febbraio 2009 un gruppo di profughi, salvato dalle autorità indonesiane, ha raccontato le violenze subite e l’abbandono in mare aperto di diverse di imbarcazioni. Nel 2015 circa 25.000 rohingya cercarono di fuggire via mare, per dirigersi verso Malesia ed Australia; si verificarono diversi episodi di “imbarcazioni fantasma” su cui trafficanti senza scrupoli ammassavano intere famiglie prima di lasciarle in balia delle onde.

Nel 2013 è nato il movimento Arakan rohingya salvation army (Arsa) costituito prevalentemente da giovani che hanno imbracciato le armi. Adeguatamente equipaggiati nel loro primo attacco, nel 2016, hanno ucciso 9 poliziotti. Nel corso degli anni ARSA, che richiede una generica indipendenza, ha stretto legami con gruppi terroristici pakistani. Alcuni rohingya combattono in Kashmir al fianco dei ribelli pakistani.

In ritorsione ad una serie di attacchi a stazioni di polizia di frontiera effettuati dall’ARSA, nell’ottobre 2016 è iniziata una campagna militare che ha raggiunto il suo apice a partire dal 25 agosto scorso. Da quel giorno l’esercito ha bruciato circa trecento villaggi e ucciso centinaia di civili.

Nel confinante Bangladesh, con il passare delle settimane, sono arrivati oltre cinquecentomila profughi, circa la metà di quella popolazione. Stimata in quanto i rohingya sono stati esclusi anche dall’ultimo censimento fatto dal governo birmano nel 2014. Il Bangladesh che li accoglie in precari campi profughi, attualmente non è disposto a concedere loro la cittadinanza.

La borghese “comunità internazionale” non ha tardato a riempire le pagine dei giornali fingendo di scandalizzandosi, da lontano, per le atrocità commesse dall’esercito birmano.

L’azione dalle forze armate di Min Aung Hlaing, comandante dell’esercito birmano, che di fatto controlla ancora il paese, sono state tollerate e difese da Aung San Suu Kyi, già idolo e grande paladina borghese della non violenza e della democrazia, nominata nel 1991 Nobel per la pace! Altri membri del governo del partito della paladina ex-martire dei “diritti umani”, hanno raccontando che a bruciare i loro villaggi sarebbero stati gli stessi rohingya!

La Birmania è un paese buddista. Quel buddismo, dal 1961 proclamato religione di Stato, che dagli scimuniti piccolo-borghesi occidentali è ritenuto “di pace”, “compassionevole” e “tollerante”. Invece la realtà vuole che ogni religione, in qualsiasi latitudine, si plasmi ad immagine e difesa della classe dominante, ed oggi a sostegno del capitalismo. Ovunque le religioni sono un prezioso strumento di conservazione e di propaganda nazionalista. Non ci stupisce quindi che in Myammar chiese buddiste ispirino e formino squadracce in panni arancione che, in proprio o insieme all’esercito e alla polizia, partecipano alle persecuzioni e a terrorizzare gli “infedeli”, nonostante le buone, sagge e rassicuranti parole del Dalai Lama in mondovisione.

Lo stesso Papa cattolico, francescano, che a molti sinistri piace, quando in terra birmana ha accettato di non pronunciare la parola rohingya in quanto «l’esercito non avrebbe gradito»: d’altra parte era lì per difendere “i suoi”, mica gli altri!

In Birmania, di questi santi bonzi sono tra i fondatori del Movimento 969 mutatosi Ma Ba Tha, Comitato per la Protezione della nazionalità, che predica l’osservanza religiosa, chiede la proibizione dei matrimoni misti e il boicottaggio dei negozi dei musulmani. Uno dei capi riconosciuti, il monaco Ashin Wirathu, col sistematico uso delle reti sociali semina odio tra la popolazione, affermando che «il Paese diventerà musulmano se ci mostreremo deboli, i musulmani controllano l’economia e mirano a cancellare il buddismo e la cultura birmana in pochi anni». Questa incessante propaganda ha dato i suoi frutti: la maggioranza della popolazione birmana teme i rohingya, essendo riuscita così la classe dominante a rinchiudere i proletari e i diseredati dentro il nazionalismo, ferrea prigione per gli oppressi di tutto il mondo.

Se questioni etniche, storiche e di religione hanno sicuramente un peso anche negli odierni avvenimenti, spesso volutamente enfatizzato, le cause veramente agenti vanno ricercate in ineluttabili ragioni economiche, e negli innumerevoli scontri che suscitano tra potenze regionali e tra gli imperialismi, oltre che tra le classi.

Myanmar possiede petrolio, gas ed altri minerali. Nell’ultimo decennio, nonostante la crisi internazionale, è riuscito ad incrementare il suo sviluppo economico soprattutto grazie ad investimenti di capitale straniero, attratti dalle risorse minerarie, agricole e in particolare il legname. I militari hanno espropriato diverse terre, tra cui molte ai rohingya, attraverso una legge ad hoc, la Foreign Investment Law, emanata nel 2012, che ha permesso l’acquisizione di terreni da parte di grandi capitali stranieri.

Inoltre è in una posizione strategica in particolare per l’imperialismo cinese, che da tempo ha messo gli occhi sul Rakhine, poco sviluppato, pertanto più appetito dai capitali. Ma determinante è il fatto che la Nuova Via della Seta passa proprio su quest’area che apre allo Yunnan, provincia cinese che confina con la Birmania, lo sbocco all’Oceano Indiano. La Cina all’interno del suo grande progetto One Belt One Road, ha stipulato un accordo con la Birmania per il porto di Kyauk Phyu, sulla Baia del Bengala, sempre nel territorio dei rohingya. Un’infrastruttura faraonica che permetterà un percorso alternativo per le importazioni di gas e petrolio dal Medio Oriente, evitando lo stretto di Malacca. Quella che una volta veniva chiamata “Burma road” è un percorso terrestre, già oggi percorribile da convogli ferroviari, decisamente più breve e meno costoso del percorso via mare.

La Cina già oggi è il più grande investitore nel paese, anche dopo l’elezione della democratica Aung San Suu Kyi che, contrariamente alle aspettative americane, ha rafforzato i legami con la Cina. Non è un caso che negli ultimi anni diverse compagnie cinesi abbiano vinto numerosi appalti in settori strategici come quello energetico.

Non c’è da stupirsi quindi se la Cina si sia schierata ufficialmente a fianco del governo di Myanmar dichiarando che non voterà alcun tipo di sanzione o provvedimento in sede di Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Alla borghesia cinese si è accodata la russa, coscienti azioni queste a difesa dei rispettivi interessi imperialistici.

Anche il primo Ministro indiano Narendra Modi si è detto disposto a deportare i circa 40 mila Rohingya residenti in India. La costa dello Stato del Rakhine è infatti di interesse anche della borghesia indiana, che anni fa vi ha finanziato la costruzione del porto di Sittwe, terminale del progetto Kaladan Multi-Modal Transit Transport Project (KMTTP), un’infrastruttura che, completata, collegherà via mare il porto di Calcutta in India con quello di Sittwe nello Stato di Rakhine, poi fino a Paletwa sul fiume Kaladan ed infine su strada fino al Mizoram, Stato dell’India nordorientale senza sbocco al mare, stretto tra il Bangladesh e la Birmania.

Ma anche gli Stati Unti hanno cercato di accrescere la loro influenza nel Paese intervenendo attivamente a sostegno di Aung San Suu Kyi, per cercare di controllare, quantomeno parzialmente, la crescente influenza cinese. Da quando, nel 1988, il Myanmar ha riaperto la possibilità di accogliere capitale straniero, gli Usa hanno investito oltre 300 milioni di dollari in decine di progetti. Tuttavia, l’interesse principale degli Stati Uniti sembra esser oggi prevalentemente di carattere strategico, considerando che la Repubblica di Myanmar si trova in un contesto geopolitico importante, in mezzo a due Nazioni che hanno uno sviluppo determinante per gli equilibri regionali e mondiali del capitalismo.

Nessuna soluzione nel capitalismo

È quindi più che evidente che all’interno del capitalismo non solo non vi sono soluzioni per i disperati rohingya.

Quanto sta accadendo in Myanmar non è una eccezione ma la ineluttabile regola posta da questo sistema sociale che è sofferenza e morte per milioni di esseri umani. È sempre più evidente come il capitalismo non può assicurare un reale miglioramento delle condizioni di vita ai suoi “schiavi proletari”, siano essi nel più povero paese africano, nella ricca Los Angeles o sul golfo del Bengala. Il mito borghese e democratico di una crescita graduale ma continua del benessere all’interno della società capitalistica è evidentemente una menzogna, è miseria e guerra permanente. E attende solo guerra mondiale, salvifica per il Capitale.

La forza oggettiva del Comunismo, nuova forma di produzione, preme nel ventre di questo sistema sociale e impone la storia davanti al consueto bivio: o guerra o rivoluzione, l’alternativa che il secolo passato ha posto al proletariato mondiale e che si ripresenterà inevitabilmente nel nuovo.

PARTITO COMUNISTA INTERNAZIONALE

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