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Elezioni politiche italiane del 2018:
No alla rincorsa delle destre nazional-sovraniste

Respingiamo l’offensiva capitalistica
rilanciando il programma di classe

(1 Marzo 2018)

Sul quadro politico italiano all’approssimarsi del 4 marzo incidono, combinandosi, tendenze generali comuni all’intero Occidente capitalistico e magagne specifiche del “bel paese”. Uno sguardo ampio alle più recenti tornate elettorali ci restituisce ovunque il segno di un forte spostamento a destra dell’asse politico, con lo squagliamento dei partiti della sinistra tradizionale e il giganteggiare più o meno improvviso di formazioni di nuova destra che raccolgono consensi nei settori sociali già bacino di riferimento dei primi. Gli esempi abbondano (Francia, Germania, etc.) e ne abbiamo trattato.


Frantumazione politica fin dentro le coalizioni: il centro-destra
Le elezioni italiane si svolgono in un contesto di particolare confusione, con preoccupazioni dell’establishment -talvolta rese esplicite – per l’esito del voto.

La campagna elettorale si è trascinata per settimane nella noia (preludio di una corposa astensione), vieppiù depressa dalle promesse mirabolanti dei candidati (abolizione della Fornero, del Jobs Act, delle tasse universitarie, del canone Rai, Flat Tax, etc. etc.), promesse che nessuno ha preso sul serio, mentre i poteri che contano, europei e nazionali e tra essi Confindustria, hanno messo in chiaro che non si scantona dalle politiche di rigore, dal sostegno alle imprese, dalle “riforme” anti-proletarie.

A rendere ancor più penoso il marasma ci hanno pensato le divaricazioni sguaiate tra alleati della medesima coalizione, tra militanti degli stessi partiti, il tutto alla faccia della necessità di una centralizzazione politica e della stabilità di governo pure rivendicate dai poteri capitalistici come attrezzaggio minimo per navigare nel mare grosso della crisi e della competizione globale.

I partiti del centro-destra hanno espresso posizioni divergenti su ogni punto di programma (Europa, Fornero e quant’altro), con Salvini anti-europeista e Berlusconi a promettere che “l’Italia rispetterà gli impegni con l’Europa”, con la Meloni a indire manifestazioni “contro l’inciucio” disertate da entrambi i suoi alleati, etc. etc.. Non è un caso se all’approssimarsi del voto aumentano le tensioni tra Berlusconi e gli alleati, essendo opinione diffusa che Berlusconi abbia dato la sua adesione a un governo di “responsabilità nazionale”, di “larghe intese”, “tecnico” o come lo si vorrà chiamare, scaricando gli alleati con i loro sacri furori patriottici e sovranisti.

Mentre il leader di Forza Italia recita più di una parte in commedia in attesa di capire quale sia quella giusta per la sua banda, lo spazio che le dinamiche della crisi schiudono al programma della revanche nazionale è stato preso in carico dalla Lega salviniana, dai “Fratelli d’Italia” e da altri raggruppamenti più destri (minori ma in crescita).

La coalizione di centro-destra, pur nel contesto di una consultazione che non partorirà una maggioranza di governo, è data come favorita. La destra nazional-sovranista ha il vento in poppa grazie a una “sinistra” che ha dismesso clamorosamente la tutela (compatibile) degli interessi delle classi più disagiate, essendosi rivendicata all’occorrenza (e così con Monti) come la forza “più responsabile e fedele” a sostegno del capitalismo nazionale. Ciò consente alle destre di agitare con indiscutibile appeal le sirene del nazionalismo come prospettiva di soluzione per le crescenti difficoltà di ampie fasce popolari, mentre la questione di classe è omessa dai “sinistri radicali”, e (per quel che incidono, e poco non sarebbe a condizione che…) melassata dagli stessi “rivoluzionari” in chiave di prevalente ecumenismo democratoide e antifascista. Inoltre a tenere il banco è la aggressiva campagna anti-immigrati con cui le destre prendono in carico i problemi connessi all’immigrazione che realmente peggiora le condizioni di vita di quanti proletari ne ricevono l’impatto, mentre il buonismo dell’ “accoglienza” che connota in genere la sinistra, anche quella più “radicale”, edulcora le situazioni e nega i problemi, così precludendosi l’ascolto dei proletari cui vorrebbe rivolgersi.

Berlusconi è di nuovo in campo, ma non più come capo politico che unifica il centro-destra, tanto meno come portatore di una visione di prospettiva per il capitalismo italiano. Il centro-destra è favorito, ma, a parte il fatto che non avrebbe i numeri per governare, la compagine Salvini/Meloni/Berlusconi non è del tutto affidabile per il capitalismo. Chi non ricorda in quali condizioni il centro-destra, che pur aveva vinto le elezioni del 2008, dovette cedere lo scettro al “tecnico” Monti? Berlusconi e Tremonti denunciano ancora il golpe dell’Europa, che, nel vortice della crisi degli spread, impose da Bruxelles “il cambio”, ma sarebbe sbagliato omettere che il centro-destra nell’autunno del 2011 giunse all’appuntamento cruciale con la crisi penosamente sfaldato e ridotto all’impotenza di suo. Sorvolando sui divertimenti privati del Cavaliere incapace – questo il punto – di dare seguito alla promessa di dare all’Italia capitalistica una sua unitaria coesa rappresentanza politica, la Meloni che “non tradisce” è l’ultimo volto presentabile della vecchia destra missina (poi Alleanza Nazionale) logoratasi nella sequela di scandali che hanno affossato tutti i suoi leader, mentre finanche la Lega Nord (ora non più tale) è stata squassata da vicende molto poco edificanti che hanno lambito molto da vicino il “leader maximo”.


La nuova Lega di Salvini
Berlusconi, inscenando una aggressiva campagna contro Monti (dopo averlo sostenuto) e in chiave anti-Europa (l’esatto contrario dell’odierna vulgata di “responsabile europeismo”), compì un mezzo miracolo alle elezioni del 2013 conseguendo una sorprendente rimonta e azzoppando la “vittoria” del PD di Bersani, costretto poi a cedere il testimone prima a Letta e poi a Renzi. Oggi Berlusconi, forte delle sue clientele, confida in un risultato elettorale che non consenta a Salvini di metterlo nell’angolo.

Salvini, proseguendo l’opera di ricostruzione già intrapresa da Maroni, ha indubbiamente rilanciato la Lega, non senza compiere una clamorosa virata che ne ha ridefinito, se non stravolto, i connotati delle origini. Il rimaneggiamento del nome, non più Lega Nord ma “Lega per Salvini premier”, segna l’abbandono del programma di radicale autonomia del Nord da “Roma ladrona” (figuriamoci poi del secessionismo), tematiche lasciate cadere dal segretario nazionale, e coltivate invece dai governatori del Veneto e della Lombardia con i referendum sull’autonomia, timidamente sponsorizzati da Salvini, che ha inteso leggerli entro una cornice di assoluta legalità costituzionale, ridimensionandone l’impatto potenzialmente dirompente (e scomodo in vista del voto nazionale, dove Salvini aspira a conquistare consensi sull’intera penisola). Con Salvini la Lega si candida al governo della nazione, vira dal programma della Padania al nazionalismo classico, quello che rivendica gli interessi e la sovranità dell’Italia, denuncia le partnership internazionali che “ci” penalizzano, mette in discussione i dogmi europei fino a paventare l’uscita dall’Euro, promette la difesa dei confini nazionali contro il flusso di immigrati. Da “prima il Nord” a “prima agli italiani”. Bossi parlava a nome del Nord, Salvini parla a nome dell’Italia. La piazza leghista da verde è diventata blu. Su questi “nuovi” assi la Lega salviniana ha trovato più ampie sintonie programmatiche con i residui post-fascisti di Alleanza Nazionale e con le formazioni neo-fasciste (Casapound, Forza Nuova e Fiamma Tricolore, associate il 4 marzo le ultime due), un tempo nemicissimi tutti costoro del secessionismo nordista; mentre in Europa si gemella con il Front National. Salvini lega il suo movimento a questi compagni di strada, ma anche contende ad essi uno spazio politico che appare un campo aperto al successo di chi saprà più credibilmente rappresentarlo. Non mancano i malumori alla base. I militanti storici, Bossi – ma anche Maroni – tra essi, non vedono di buon occhio la linea del segretario nazionale. Si contesta lo snaturamento della Lega che abbandona il riferimento alla Padania, e si registrano posizioni diverse su svariati temi. Sulla Catalogna Salvini ha ribaltato la posizione, rivolgendo critiche a Madrid ma giammai sponsorizzando e piuttosto spernacchiando le istanze secessioniste catalane. Si contestano le eccessive aperture di Salvini ai fascisti: con la premessa che “il fascismo non c’è più”, Salvini offre copertura “dall’alto” al radicamento delle formazioni neo-fasciste. Beninteso, anche la Lega di Bossi era aperta a fascisti e “comunisti” padani (e “comunista padano” è stato lo stesso Salvini…), ma allora l’accento unificante era sul programma “per la Padania”, di tal che potevano aderire alla Lega tutti quanti si rivendicassero padani, quand’anche – ma rigorosamente in secundis – fascisti e “comunisti” (decisamente sui generis). D’altra parte il ribaltamento di linea operato da Salvini, senz’altro spettacolare, è pur sempre parziale. Da sempre diciamo che federalismo e secessionismo sono varianti del nazionalismo: il programma di unità interclassista, che espunge la lotta di classe e con la retorica comunitaria punta a sottomettere i lavoratori alle esigenze di competitività delle “nostre” aziende, è sostanzialmente il medesimo, mentre per le leadership di via Bellerio si tratta di misurarsi la palla se oggi convenga applicarlo alla scala padana o non piuttosto alla nazione storica.


Il Movimento Cinque Stelle gioca la sua carta decisiva

Nel decorso avuto dai 5 Stelle, e nell’accelerazione indotta dall’approssimarsi del voto, troviamo la conferma di molte cose scritte a tempo debito. Il grillismo è indubbiamente figlio della crisi che ha terremotato le precedenti condizioni di stabilità e di relativo benessere, determinando nel corpo sociale un tentativo di rivolta e di risposta a un esistente divenuto sempre più difficile e insopportabile. In assenza dell’insorgere di un antagonismo di classe con coefficienti di un qualche ponderabile peso, non può sorprendere se la rivolta di massa è andata a catalizzassi su surrogati (e personaggi) transitori, prendendo la china di un movimento di nuovo conio dai tratti borghesi e indefiniti. Nel grillismo la rivolta di massa contro gli effetti della crisi scarta la petizione di un’alternativa di sistema, e rivendica il correttivo al sistema esistente, la ripulitura del marcio incrostato per una “sana” amministrazione, locale e nazionale, del capitalismo, da purificarsi le une e l’altra con il “bollino blu” dell’ “onestà” M5S. La rivolta grillina nega decisamente lo scontro di classe, raccoglie e alimenta la contrapposizione, insufflata alle origini da autorevolissimi organi della stampa borghese (oggi attestati a denunciare i rischi del populismo e dell’antipolitica), tra il “movimento degli onesti”, armati delle migliori intenzioni “riformatrici” ma a corto di idee su cosa e come “riformare”, e la “casta politica” conservatrice e pappona. Si può concordare che in Italia la protesta non ha messo finora le ali a movimenti dichiaratamente di destra come il Front National in Francia, l’Ukip inglese (al quale peraltro Grillo si è gemellato in Europa), la AfD tedesca, e ad altri movimenti ancor più spinti a destra, grazie al confluire della protesta nel contenitore grillino. Peccato che il grillismo, pur non essendosi sgonfiato subito dopo il primo successo così dimostrando una certa tenuta, resta comunque più che esposto al rischio di rivelarsi contenitore transitorio, soprattutto se in questa sua seconda legislatura non riuscirà a conseguire obbiettivi concreti. Di tal che occorre vedere verso quali lidi il grillismo avrà traghettato la protesta alla fine della sua corsa. Noi, senza aver mai sottovalutato né svillaneggiato la protesta positiva che sale dal basso, al tempo stesso mai abbiamo accreditato il movimento Cinque Stelle di inesistenti coefficienti “rivoluzionari” (come pure si è visto fare nei nostri ambienti), né nutriamo dubbi che, nel perdurante ritardo dell’antagonismo di classe, sarebbe la destra borghese a catalizzare pro domo sua la protesta “contro la casta politica” già da essa coltivata, dopo aver disinnescato la bomba grillina, sbarrando ad essa la strada verso Montecitorio e in ogni caso pilotandola verso un approdo senza sconquassi. Chi non ricorda che il movimento Qualunquista del grillino ante litteram Giannini, già da noi richiamato in precedenti scritti, finì la sua corsa nelle DC e nel MSI (con la differenza, quanto a capacità di penetrazione del “movimento degli onesti”, che allora la classe operaia era organizzata e strutturata nel riformismo PCI/PSI, mentre oggi è permeabile da tutte le sirene borghesi in circolazione)? La campagna elettorale dei grillini ha dato più di un segnale anticipatore di come gli originari furori di contestazione, approssimandosi alla soglia del potere, vengano indirizzati verso un approdo soft: annotiamo in particolare le marce francigene di Di Maio verso i santuari del capitalismo mondiale, e l’adattamento grillino alla regola italica del più volgare trasformismo, in particolare con la inversione a U sulla questione dell’Europa (replicando le giravolte del “traditore” Berlusconi). Il M5S che si candida al governo del paese non sbraita più contro Bruxelles come ha fatto nel suo apprendistato di “opposizione”, e così scarta dal programma il referendum sull’Euro. Ci spiega Di Maio che oggi non esiste più l’asse franco-tedesco che domina le istituzioni europee comandando a bacchetta sulla truppa, sicché per l’Italia si sarebbe creato uno spazio utile per far valere la sua voce e coltivare i suoi interessi (cosa che noi pensiamo l’Italia abbia sempre fatto, ovviamente con voce – la sua come quella degli altri – proporzionata al peso del rispettivo capitalismo). Ora è ben vero che le ultime elezioni tedesche hanno lasciato quel paese senza governo (senza un governo “operativo” direbbe Juncker), ma il maggiore spazio che si sarebbe creato in Europa, a causa della transitoria assenza di un governo in Germania, dimostra esattamente il contrario di ciò che pensa Di Maio, e a governo nazionale ristabilito la Germania non mancherà di riprendere i fili e tirare strette le redini (anche perché il suo corpo elettorale ha assestato uno scossone a destra votando “Deutschland uber alles” e reclamando più severità e rigore con i partners europei, soprattutto se furbi e arruffoni). Questa evidenza è francamente alla portata di tutti, anche di Di Maio, che intanto però ci offre un saggio di opportunismo: quando si trattava di cavalcare la protesta si agitava a gran voce il referendum sull’Euro, adesso si lascia scivolare con una scusa la questione.


La nuova “sinistra” di Renzi
Per quanto si possa avere ripulsa a considerare “sinistra” il PD, occorre dire che il PD può rivendicarsi a buon diritto tale, se la più gran parte di quanti si posizionano alla sua sinistra fino all’altro ieri votavano in parlamento le leggi di Renzi, e ora, gratta gratta, balbettano niente di più che un “renzismo senza Renzi”. L’operazione promossa da Renzi è di azzerare la sinistra di lontana derivazione terzinternazionalista e accreditare come “sinistra” la sua proposta di un “liberalismo sano e illuminato”, super-allineato ai diktat del capitale, aperto alle ragioni del centro-destra in chiave di ricompattamento nazionale, definitivamente affrancato dalla palla al piede di un sindacato cui dover dare conto. Una “sinistra liberal” che possa contendersi l’asse di equilibrio della politica nazionale con una destra chiamata a sostituire la sinistra riformista nell’inquadrare l’insofferenza popolare in programmi che titillano vie di fuga nazionaliste, prospettando in questo quadro la presa in carico del disagio sociale. Questa è la sostanza dello spostamento a destra dell’asse politico del paese, già iscritto nei risultati del 4 marzo. Né l’affermazione dei grillini, privi di un vero programma e soprattutto di una prospettiva, potrà deviare da questa sostanza. Il voto del 4 marzo restituirà l’ipoteca di tantissime destre (piddina e grillina comprese) in lotta tra loro e tutte in lotta contro il proletariato, con residue frattaglie pseudo-“sinistre” all’ennesimo tentativo di improbabili rimonte. Il disegno di Renzi è di cancellare la sinistra, rivendicandosi l’unica “sinistra” data. Poiché la galassia frantumata del “sinistrismo anti-renziano” più o meno “radicale” giammai si sogna di orientare il proprio zenith verso il programma di classe, valga per quelli di Liberi e Uguali che mai ci hanno pensato e che hanno portato Renzi al punto in cui si trova, ma anche – in modo diverso – per le cosiddette “sinistre radicali”, noi crediamo che il disegno renziano di fare il deserto a sinistra abbia ottime chances di riuscita.

Al tempo stesso Renzi ha pochissime chances di ottenere consensi sufficienti per confermare il PD alla guida del paese, se non nelle forme dell’inciucio denunciato dalla Meloni e temuto da Salvini. Inoltre, per quanti sforzi di recitazione faccia Renzi, non tira un’aria distesa neppure nella sua coalizione (quella formata – terminata la pantomima di Pisapia, poi uscito di scena – con Verdi, Socialisti, lista Lorenzin e lista Bonino), se è vero che Renzi ha cominciato a masticare amaro per i sondaggi favorevoli alla Bonino, il cui successo limitato potrebbe essere sufficiente a togliere al PD anche la medaglia d’argento del partito più votato.

Tra la coalizione di centro-destra, il Movimento 5 Stelle e il PD, quest’ultimo rischia di fermarsi alla terza posizione. Si annunciano per il PD consensi molto difficilmente superiori al 25% di Bersani alle politiche del 2103. Il Renzi che nella primavera del 2014 ottenne alle europee oltre il 40% (23% reale considerate le astensioni) non aveva ancora presentato il Jobs Act e il (residuo) “popolo della sinistra” tuttora ancorato al PD poteva ancora dare fiducia a un giovane esponente finalmente capace di concretizzare i risultati attesi. Visti dipoi risultati opposti alle attese, Renzi sembra aver bruciato in breve tempo le sue glorie di governo, e appare avviato sin dal suo secondo giro al destino finale dei vari Blair, Hollande, Schulz… Alle “sinistre” gradite e promosse dai capitalisti la crisi non lascia margini per poter attirare consensi su ampia scala in quello che è stato in passato il serbatoio elettorale delle sinistre storiche.


La sinistra antirenziana e quella “radicale”
Più a sinistra le liste sono un’infinità e infiniti i sotto-gruppi che le compongono, un Arcobaleno al cubo: Liberi e Uguali (MdP/SI/Possibile), Potere al Popolo (RC/Eurostop/PCI/Sinistra Anticapitalista/alcuni centri sociali), Sinistra Rivoluzionaria (PCL/Falce e Martello), Partito Comunista (Marco Rizzo). C’è ancora la Lista del Popolo di Giulietto Chiesa e del redivivo Ingroia (già rimasto fuori dal Parlamento e dalla Magistratura…).

I fatti di Macerata occorsi nella prima decade di febbraio hanno gettato un masso nello stagno, innescando in qualche modo la mobilitazione di piazza (in una campagna elettorale fino a quel momento stancamente mass-mediatica), dando visibilità alla “sinistra radicale” e alla lista Potere al Popolo. I fatti di Macerata hanno costretto tutti gli attori elettorali a fare i conti con la rabbia anti-immigrati esplosa nell’attentato di Traini e nei consensi catalizzati da quell’attacco criminale, senza dimenticare – per quanto ci riguarda – la miccia di innesco della delinquenza degli immigrati africani implicati nello spaccio di droga e protagonisti nell’atroce morte della giovanissima romana (faccenda non rubricabile alla esclusiva voce “femminicidio”, come invece abbiamo letto in un comunicato postato su Contropiano: femminicidio sì, ma anche altro…). La manifestazione di Macerata del 10 febbraio ha raccolto indubbiamente una significativa e positiva partecipazione, pur in assenza di un adeguato orientamento di classe in una piazza appiattita sull’unità antifascista a difesa della democrazia contro il “fascio-leghismo”.

A partire dal 10 febbraio il clima sociale si è andato scaldando ed è cresciuta la partecipazione. Il nostro riferimento va non tanto alle scaramucce contro i comizi di Forza Nuova e Casapound, che comunque si sono ripetute quasi quotidianamente da un capo all’altro della penisola, quanto – ad esempio – alla manifestazione nazionale tenuta dal SI Cobas a Roma il 24 febbraio “contro sfruttamento, razzismo e repressione; per un fronte di lotta anticapitalista”: una partecipazione significativa di svariate migliaia di lavoratori immigrati e non, e particolarmente significativa poi in quanto il SI Cobas non ha chiamato a raccolta per tirare la volata a questa o quell’altra lista, ma ha mobilitato le sue modeste ma non insignificanti forze per porre correttamente nella campagna elettorale l’istanza di un fronte di classe che si doti di un suo programma antagonista di classe.

Dopo i fatti di Macerata gli strateghi del voto ovviamente si sono dati da fare per volgere a proprio favore la nuova situazione, utilizzando l’attentato terroristico di Traini e altri episodi minori ma non meno gravi (in particolare il militante di Potere al Popolo accoltellato a Perugia) per raccogliere l’allarme e accreditare il PD e il governo Gentiloni-Minniti-Renzi come baluardo di stabilità a petto del riesplodere degli “opposti estremismi”. Da allora ogni anche modesta contestazione di manipoli di “antagonisti” contro le sortite elettorali dell’estrema destra è stata enfatizzata dai media, mentre PD e centro-destra hanno rilanciato ciascuno la propria campagna securitaria contro l’invasione degli immigrati da respingere e contro la violenza dei centri sociali da reprimere (“opposti estremismi”, ma repressione piuttosto a senso unico secondo antico copione).


Frantumazione del sistema politico
A inizio degli anni ’90 Berlusconi aveva preso in carico l’impegno di unificare il centro-destra per dotare il capitalismo e la borghesia d’Italia di un suo unitario e coeso partito politico. Era un progetto serio, pienamente rispondente alle necessità del capitalismo italiano, strettamente legato alla progettata “riforma” della macchina politica dello stato in chiave di centralizzazione e rafforzamento del potere esecutivo. L’impresa fece all’inizio dei buoni passi in avanti, sdoganando e coinvolgendo i post-fascisti, contenendo e depotenziando la patata bollente del secessionismo nordista. Poi sono prevalse le spinte centrifughe (ovvero le debolezze strutturali del capitalismo nostrano con i veti incrociati e le guerre per bande delle sue infinite camarille) e tutto è naufragato.

Renzi ha raccolto la bandiera delle riforme costituzionali abbandonata nel fango dal leader di Forza Italia, ma anch’egli ha bucato. Entrambi gli schieramenti, centro-destro e centro-sinistro, hanno varato consimili programmi di “riforme”, trovando argomenti e motivazioni per promuoverle o sabotarle a seconda che fosse la propria banda o quella avversaria ad averne tra le mani il pallino.

Il marasma che abbiamo sotto i nostri occhi è il frutto in particolare della bocciatura delle riforme renziane nel referendum del 4 dicembre del 2016. Chi glielo spiega alle “sinistre radicali”, pseudo-“rivoluzionarie” e finanche “internazionaliste”, che si sono spese dapprima a difesa della Costituzione repubblicana contro la “gravissima manomissione” renziana e poi hanno esaltato la vittoria del “NO sociale”? Noi ci abbiamo provato, con scarsissimo risultato, per “ultra-sinistre” che sembrano anch’esse recitare a soggetto, preferendo cancellare la realtà, pur di inventarsi un proprio protagonismo nel pantano della politica borghese! Il NO che ha condannato le riforme di Renzi, e Renzi stesso, appartiene in misura preponderante alle destre e al M5S che lo hanno promosso presso i propri elettori, e solo in modesta residua parte alle sinistre anti-renziane. Che la paternità della vittoria non appartenga all’ “Arcobaleno al cubo” che va da MdP alla “Sinistra Rivoluzionaria” sarà il voto del 4 marzo a metterlo in chiaro, ma siamo certi che anche questo pugno sul muso verrà letto al contrario.

Oggi il centro-destra con l’immarcescibile Berlusconi sta per vincere le elezioni (senza conquistare – con ogni probabilità – il governo). Chi non ricorda che prima del 4 dicembre 2016 il centro-destra, stracciato da Renzi il patto del Nazareno, appariva del tutto fuori partita con consensi ai minimi termini e con la sola Lega in risalita? Chi vuole negare che il centro-destra è ritornato in partita grazie alla vittoria del cosiddetto “NO sociale” promosso e capitalizzato politicamente dalla destra (anche dalla destra sociale, certamente)? Cos’è? Non si vuole ammettere che le destre possano “difendere la Costituzione”, sicché assiomaticamente quel NO sarebbe di sinistra (una “sinistra sociale”, ulteriore taroccamento che dimostra la consapevolezza della realtà e comunque necessario per mascherare che di sinistre politiche con quel consenso di numeri non se ne vede da quel dì)? Perché non si va a leggere il programma di Casapound che rivendica “una reale applicazione della Costituzione”, oltre ai tre NO di Eurostop (all’Euro, all’Unione Europea e alla Nato)? Leggere per credere. E allora? Non ci sarebbe qualcosa da riflettere per i “sovranisti antifascisti” di Eurostop e per l’intera sinistra che condivide con Casapound “l’applicazione reale della Costituzione”?

Beninteso la riforma costituzionale di Renzi, come già quella di Berlusconi, puntava a riorganizzare in chiave ancor più reazionaria lo Stato capitalistico per rafforzare il potere di ricatto del capitalismo contro la classe lavoratrice. Noi siamo i primi a dare battaglia a siffatte riforme. Il punto è che la battaglia va data sul terreno della lotta organizzando le forze proletarie e schierandole per affermare il programma antagonista di classe. In questo modo si oppone alla centralizzazione del capitale la centralizzazione antagonista del proletariato. Tutt’altra cosa è “mobilitarsi” per deporre una scheda nell’urna agitando la retorica della difesa della costituzione, accodandosi alle fazioni borghesi che contrastano le riforme per i propri borghesissimi scopi. A queste condizioni si debilita la forza di classe sotto ogni punto di vista. A queste condizioni il NO referendario che cancella le riforme rafforza soltanto la camarilla borghese che vi si è opposta per i propri calcoli di potere, mentre il proletariato subisce la prosecuzione dell’offensiva capitalistica nell’accentuato marasma del quadro politico (che giammai lo avvantaggia) avendo indebolito e non corroborato le proprie forze.

A queste condizioni del tutto reali la sconfitta referendaria di Renzi ha sancito non già “la vittoria del NO sociale” bensì un ulteriore spostamento a destra del quadro politico nazionale, rimettendo in partita un centro-destra già fuori gioco e ora in testa nei pronostici del voto.

Da quel momento la situazione è andata a rotoli e il PD è tornato a concertare con il centro-destra una legge elettorale che va in direzione opposta alla centralizzazione politica, con l’obbiettivo dichiarato di mettere il bastone tra le ruote alla corsa grillina. Ce ne vuole di fantasia per accreditare questo marasma come “la vittoria del No sociale”, e di scorgere nella situazione attuale un terreno più favorevole per la partecipazione al voto da parte di quella sinistra “anti-renziana” che già avrebbe vinto il 4 dicembre del 2016!


Le magagne della “sinistra sinistra”: Potere al Popolo

Di MdP si è detto l’essenziale: renzismo senza Renzi che millanta una discontinuità a chiacchiere. Registriamo peraltro che Sinistra Italiana non ha avuto remore ad azzerare le ragioni della scissione del 1991, ricongiungendosi con chi ha sostenuto Monti e poi Renzi/Gentiloni, e nel 1999 ha guidato con D’Alema il governo che ha bombardato per mesi la Jugoslavia.

Potere al Popolo è la formazione che raccoglie la partecipazione di una congerie di partiti e partitini e comunque di energie disponibili a mobilitarsi (aspetto che non sottovalutiamo affatto), tra l’altro dichiarando di volerlo fare oltre il 4 marzo. Il punto di caduta sta nella estrema debolezza del programma politico e, a conti fatti, nel nullismo del programma dal punto di vista di classe, a cominciare dal nome. Ciò non aiuta a mettere in campo un fronte di lotta schierato su un programma antagonista di classe, che è quello di cui c’è bisogno, sicché le energie presenti in PaP rischiano lo sfarinamento e l’ulteriore dispersione. Basta leggere le prime pagine del programma per capire di cosa si tratta. PaP vuole costruire “un’alternativa alle politiche degli ultimi tre decenni”, battendosi “contro il capitalismo che oggi si presenta con il volto della barbarie del neo-liberismo”… Se le parole non vengono scritte a caso, qui è scritto che la lotta non è contro il capitalismo come sistema, ma contro il “capitalismo neoliberista”, contro “politiche precise”, quelle “degli ultimi trenta anni”, rispetto alle quali si tratta di ”ri-appropriarsi…ri-affermare…ri-conquistare”… Insomma negli anni che vanno dal dopoguerra fino agli ultimi ’80 il capitalismo italiano non era neo-liberista e andava più che bene a quelli di PaP che se lo rivendicano nel programma (peraltro è palesemente falso che nei “trenta gloriosi” fosse assicurata “la sovranità popolare” e si avesse “un lavoro liberato dallo sfruttamento”: bestemmie che nessun capitalista, pur volendo magnificare il capitalismo, oserebbe dire… lo fanno invece dei “comunisti”!). Ovviamente si legge ancora che “il referendum del 4 dicembre ha dimostrato la chiara volontà del popolo italiano di difendere la carta costituzionale”, etc. etc. etc..

Si può concordare con PaP sulla necessità di opporre un antifascismo militante all’antifascismo istituzionale e formale del PD e quant’altri, ma un conto è l’antifascismo che dà battaglia sulla trincea di classe, altra cosa è quello che brandisce la carta costituzionale “nata dalla Resistenza” reiterando l’illusione della democrazia borghese e “l’unità di tutti i sinceri democratici”. Combattere il fascismo è un dovere, farlo nell’alleanza ciellenistica sotto i comandi alleati, con Luigi Longo che riceve la medaglia dai generali americani, è il rinnegamento del programma di classe. La repubblica che ne è seguita non è stata il bengodi di cui straparla PaP, ma una repubblica fondata sull’oppressione di classe e sullo sfruttamento del lavoro, laddove nella fase espansiva del capitalismo il proletariato ha strappato lottando tutta una serie di conquiste, mentre il successivo venir meno della crescita sostenuta dell’accumulazione ha spinto il capitalismo a rilanciare a 360 gradi l’attacco anti-proletario.

Nota di colore (ma non tanto): leggiamo nel programma di PaP della lotta alla violenza contro le persone LGBTQI – e ignoriamo parzialmente di cosa si parli e se in futuro verranno aggiunte anche tutte le altre lettere dell’alfabeto – , e inoltre che “vanno vietate le mutilazioni genitali su bambini intersessuali prima che possano capire e sviluppare la loro identità di genere” e non riusciamo a interpretare quella che, rigirata da ogni lato, appare come una oscura bestialità.

Osserviamo poi che anche in PaP, e prima ancora nella Piattaforma Eurostop confluita in PaP, è presente quel PCI ex-cossuttiano che con i propri voti sostenne il governo D'Alema bombardatore della Jugoslavia. Leggiamo con interesse sul manifesto le note di Manlio Dinucci, del quale apprezziamo le denunce dei programmi bellicisti dei comandi NATO, e al riguardo chiediamo ai fans delle “liste unitarie della sinistra” e in primis al manifesto quale coerenza possa mai esserci tra la battaglia anti-NATO che tutti si appuntano al petto e il sostegno a LeU cioè a D’Alema che sotto comando Nato bombardò la Jugoslavia, o a PaP dove hanno trovato riparo gli ex-cossuttiani macchiati della medesima infamia! Non sarebbe un requisito di decenza minima chiudere per sempre la porta in faccia a “compagni” di tale risma, piuttosto che dimenticare i crimini di cui si si sono macchiati e presentarsi tutti insieme appassionatamente al voto?


Le aporie di Sinistra Rivoluzionaria

Ma nelle liste di sinistra non c’è solo lo sdoganamento dei bombardatori della Jugoslavia (oltre a quelli citati, anche la lista del Partito Comunista di Marco Rizzo, altra scheggia del partito cossuttiano che sostenne il governo D’Alema). C’è anche a pesare in negativo il “sovranismo di sinistra”, le cui componenti più sbilanciate verso un approdo “nazionalista di sinistra” (effettivamente di destra) si trovano in Eurostop (anche se nel programma di PaP il sovranismo di Eurostop risulta parzialmente mitigato nella “mediazione” con le altre componenti), e nella Lista del Popolo presentata da Giulietto Chiesa e Antonio Ingroia (anch’essa “a difesa della Costituzione violata”, per l’uscita dall’Euro e dalla Nato, e dichiaratamente “in nome dell’unità nazionale”, tirandosi fuori dal “coro ipocrita dei lamenti contro il populismo” e anzi rivendicando la “rivolta del popolo contro la sovranità lesa e che deve essere ripristinata”: tanto per capire dove si va a parare quando si inizia ad accreditare “da sinistra” il sovranismo).

Un quadro deprimente e ancor più tale se in PaP, coordinamento di forze prevalentemente tardo-staliniste con tutto quel che ne consegue quanto a contenuti programmatici visti, confluiscono pezzi di “trotzkismo” come Sinistra Anticapitalista. Possiamo quindi dare merito agli altri trotzkisti (Partito Comunista dei Lavoratori e Falce e Martello) per la decisione di presentare una lista separata, con l’obiettivo di demarcare un programma “anticapitalista, rivoluzionario, comunista, classista, internazionalista”. La differenza è netta: PaP verga frettolosamente a programma il minimo comune denominatore di posizioni confusamente affastellate (pessime all’inizio e alla fine della mediazione), per dedicarsi anima e core alla contesa in vista di risultati concreti (con gli ex-rifondaroli di RC e PCI in crisi di astinenza parlamentare ormai da due legislature); PCL/FeM puntano l’attenzione sul programma e rinunciano, come invece non fa Sinistra Anticapitalista, a giocarsi il “piatto ricco (si fa per dire) mi ci ficco”. Resta il fatto che anche il “programma rivoluzionario” di Sinistra Rivoluzionaria presenta non piccole contraddizioni e aporie che ne inficiano la coerenza e la credibilità rispetto alle premesse dichiarate. Corretta la denuncia di PaP che si contrappone alle “politiche liberiste” ma non al capitalismo; apprezzabile la critica sempre a PaP sulle “illusioni nella Costituzione” con la nota citazione di Calamandrei utile a ristabilire la verità storica sulla “Costituzione nata dalla Resistenza”; ma poi iniziano le incertezze e gli inciampi. L’impressione è che, dovendosi distinguere da PaP, Sinistra Rivoluzionaria per l’occasione ha demarcato meglio alcune posizioni, ma l’occhio attento legge ugualmente tra le righe punti di caduta non dissimili dalle voragini presenti nel programma di PaP. Prima si argomenta che la difesa a spada tratta della Costituzione equivale a difesa dell’ordine esistente (giusto!), poi si sottilizza che PaP rivendichi non già la “Costituzione originaria del 1948” ma “genericamente la Costituzione nata dalla Resistenza” e quindi la Costituzione nel suo testo attuale (?); si accenna a criticare il “sovranismo” anti-Euro in particolare di Eurostop e PCI, ma poi si critica la piattaforma di PaP perché “propone una riforma dell’Europa”, mentre occorre battersi per “la rottura dell’Unione Europea capitalista” che è “irriformabile” (quindi sarebbe Sinistra Rivoluzionaria e non PaP a schierarsi coerentemente per la rottura dell’UE… ma senza sovranismi); si rivendica l’internazionalismo “fuori e contro ogni forma di sovranismo”, ma poi si legge dei “diritti di autodeterminazione di ogni nazione oppressa” e si iscrive tra queste la capitalistissima Catalogna assumendone le istanze di indipendenza. Abbiamo peraltro letto un intervento di Falce e Martello a un recente convegno della Rete dei Comunisti sulla “questione nazionale”, dove il merito, anti-marxista, era ed è la rivendicazione della questione nazionale non putacaso riferita alla Palestina o al Kurdistan, ma ai paesi capitalistici più avanzati, finanche imperialisti, e – in soldoni – all’Italia. Il compagno di Falce e Martello è stato fin troppo concessivo con questa impostazione, tutto l’opposto che “rivoluzionaria e internazionalista”, accreditando – via Catalogna – la “questione nazionale” nei paesi del centro capital-imperialista, limitandosi a prendere debolmente le distanze dalle “torsioni sovraniste” (!?) di Eurostop. Troppo poco, ed effettiva dismissione della battaglia frontale che va data contro il “sovranismo di sinistra” di Eurostop e di chiunque altro.


Non rincorriamo le destre sul loro terreno di iniziativa,
rilanciamo invece il nostro programma di classe!


Il quadro tratteggiato non è affatto esaltante.

Vediamo peraltro che Contropiano dalla buona riuscita della manifestazione di Macerata trae argomenti per riconfermare vieppiù l’antifascismo come cardine assoluto della propria iniziativa. In tal modo, noi reputiamo, si continuano ad accreditare armi spuntate e pericolose: la difesa della Costituzione, l’antifascismo inteso come union sacrée a difesa di una generica democrazia di tutti (cancellata la prospettiva della dittatura proletaria), la rivendicazione della sovranità popolare e nazionale dell’Italia contro la supposta usurpazione delle istituzioni europee. Oltretutto appare ridicola la grande enfasi sulla battaglia antifascista, se poi gli antifascisti ripetono gli stessi contenuti sovranisti delle destre.

Ammettiamo senz’altro che quanti si organizzano in PaP si propongono di andare oltre la risposta sfiatata di Sinistra Italiana che si ricongiunge con MdP, e che in PaP confluiscano energie positivamente disposte a dare battaglia. Noi ad esse ci rivolgiamo per richiamarle ai punti sopra esposti. Nessuna battaglia “più a sinistra” può essere data unendosi a compagini stra-marce che hanno sostenuto il governo che bombardò la Jugoslavia. Nessuna battaglia “più a sinistra” può essere data sposando i contenuti sovranisti che appartengono alla destra, perché in tal modo, pur sventolando la bandiera dell’antifascismo, si porta acqua al mulino delle destre nazionaliste. Un corto circuito pericoloso.

Il nostro pronostico del 4 marzo, dove non abbiamo liste da votare, è che né MdP né PaP mieteranno messi di voti. Ma il punto veramente importante è aprire gli occhi per tempo, denunciando con l’indignazione che merita il riciclaggio in MdP (ma anche in PaP) dei carnefici imperialisti della Jugoslavia rottamati da Renzi (rottamati giustamente: a cosa serve un servo quando non serve più?), e fermando la china suicida intrapresa da quella “sinistra radicale” che ricalca contenuti (costituzional-democratici, interclassisti, sovranisti: tutto fuorché il programma di classe) appartenenti alla borghesia e alle sue variegate destre. In tal modo, lungi dal cogliere inesistenti scorciatoie per la vittoria del proprio vagheggiato “blocco sociale”, si favorisce la vittoria della borghesia, e, quand’anche – in futuro – si dovessero cogliere su quelle basi eventuali seguiti elettorali, al momento decisivo quei seguiti si rivelerebbero privi di forza effettiva, destinati a soccombere al nemico di classe la cui vittoria si sarebbe concorso a preparare e favorire. Oggi la necessità è quella di costruire un fronte di classe e di orientare l’organizzazione e le lotte in direzione del programma antagonista di classe, senza minimamente accreditare e anzi contrastando le derive costituzional-democratiche e nazional-sovraniste.

27 febbraio 2018

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APPENDICE
Pubblichiamo l'appello del SI Cobas per la Manifestazione nazionale a Roma del 24 febbraio, in cui la lotta per la conquista dei propri obiettivi viene correttamente indicata quale strumento essenziale, contrapposto ad ogni illusione elettorale.

CONTRO SFRUTTAMENTO, RAZZISMO E REPRESSIONE
PER UN FRONTE DI LOTTA ANTICAPITALISTA

La legislatura Renzi-Gentiloni si avvia al termine lasciando dietro di sé una vera e propria mattanza nei confronti della classe lavoratrice e di tutti i settori oppressi. La crisi capitalistica, tuttora irrisolta, è stata usata dai padroni e dai loro governi nazionali, locali e continentali al fine di sopprimere ogni conquista dei lavoratori, civile e sociale, e di imporre la legge ferrea del profitto utilizzando sempre di più l'arma del manganello, della repressione e della messa in stato di illegalità o di clandestinità forzata di migliaia di lavoratori e proletari che vivono e vengono sfruttati quotidianamente sui nostri territori.

Misure come il Jobs Act, il decreto Minniti-Orlando, il Piano Casa e la "Buonascuola" (solo per citare i principali interventi governativi) sono il frutto dello stesso, organico disegno perseguito da diversi decenni dalla classe dominante con costanza certosina: affermare, per favorire ovunque, in ogni ambito e aspetto della vita sociale, la dittatura del capitale e dei suoi meccanismi di accumulazione; meccanismi che, con l'avanzare della crisi, sono sempre più impermeabili ad ogni velleità di riforma o di miglioramento per via istituzionale o parlamentare.

Il peggioramento generalizzato delle condizioni di vita, di lavoro e di reddito per milioni di lavoratori, disoccupati, pensionati non ha prodotto quell'esplosione sociale necessaria ad invertire i rapporti di forza, ma ha al contrario in larga parte alimentato un senso diffuso di rassegnazione e di impotenza, e un rigurgito delle pulsioni razziste, securitarie e xenofobe in ampi settori colpiti dalla crisi. L'ondata di licenziamenti e la condanna di un'intera generazione di lavoratori a un futuro di precarietà per mezzo di "riforme" del mercato del lavoro e di tagli alla spesa sociale hanno prodotto in gran parte dei settori sfruttati un duplice fenomeno: da un lato, la passivizzazione e il riflusso delle lotte; dall'altro, il rifiuto radicale verso le forme tradizionali di rappresentanza sia a livello politico che sindacale (con la crisi verticale di popolarità e di consenso dei partiti di sinistra borghese e dei sindacati confederali integrati nello stato).

Questo enorme vuoto, solo in piccola parte colmato e recuperato dai 5 stelle, aiuta a comprendere come mai, secondo illustri sondaggisti, circa il 70% dei giovani non si recherà alle urne alle prossime elezioni politiche del 4 marzo. Un dato che non ci sorprende, tenuto conto che ai giovani studenti il futuro che viene prospettato è quello della precarietà perpetua, del lavoro gratis spacciato per "alternanza scuola-lavoro", degli stages non retribuiti nel mentre a migliaia di lavoratori viene propinato come unico orizzonte possibile il modello "Marchionne –Amazon" ossia accettare di essere spremuti come limoni dai padroni e subire ricatti e minacce di ogni tipo per poi essere buttati via quando non si serve più. D'altra parte, di fronte a questo tipo di "offerta politica" abbiamo assistito anche a dei segnali di ripresa delle lotte e del conflitto sui luoghi di lavoro e sui territori; esperienze che, per quanto sporadiche e non ancora generalizzate, hanno in questi anni rappresentato veri e propri focolai di resistenza ai piani padronali e alle politiche di macelleria sociale.

L'ondata di scioperi nella logistica organizzati da noi del SI Cobas assieme all'ADL Cobas, gli scioperi nel trasporto pubblico, le lotte per la casa e le occupazioni a scopo abitativo (in particolar modo a Roma e Bologna), le molteplici iniziative di lotta a difesa dell'ambiente e contro le nocività, le mobilitazioni di migliaia di lavoratori immigrati contro lo sfruttamento e per l'ottenimento del permesso di soggiorno: questi solo alcuni esempi di come dal deserto e dalla barbarie della crisi capitalistica emerga una nuova generazione di proletari capace di lottare a testa alta contro le mille forme dello sfruttamento e dell'oppressione.

La nostra esperienza soprattutto nel movimento dei facchini della logistica, le migliaia di scioperi, picchetti e battaglie campali che questi lavoratori da quasi un decennio conducono dentro e fuori a quei magazzini (riconosciuti finanche dai media padronali come il "tempio" del capitalismo avanzato e del nuovo modello di sfruttamento e di schiavitù salariata), ci insegnano ed indicano che con la lotta è possibile non solo resistere ma persino sconfiggere i piani di padroni e governi.

Mentre in campagna elettorale si chiacchiera di abolizione e superamento del Jobs Act per via parlamentare, la lotta viva di migliaia di lavoratori ha già imposto questo obiettivo in centinaia di posti di lavoro, in ultimo alla SDA dove le mobilitazioni e la compattezza dei facchini organizzati dal SI Cobas hanno sconfitto sul campo le manovre padronali e del PD tese a criminalizzare e cancellare le conquiste strappate con anni di lotta.

Nel silenzio quasi totale dei media asserviti e malgrado l'aperta ostilità del sindacalismo confederale e di quel che resta della "sinistra" orfana delle poltrone parlamentari, una nuova generazione di proletari si è riappropriata di forme di lotta per la difesa delle condizioni salariali.

Non è un caso se i facchini della logistica, per difendere le proprie condizioni di vita, abbiano dovuto scontrarsi innanzitutto con quel sistema delle cooperative considerato da sempre un totem della sinistra politica e sindacale e che, dietro la maschera di un finto mutualismo, nasconde le forme più spregiudicate di sfruttamento nei luoghi di lavoro; non è un caso se le lotta per il diritto al soggiorno e alla cittadinanza degli immigrati debba spesso fare i conti con il "business" dei cosiddetti "centri di accoglienza", funzionali alla politica di gestione dei flussi e utili a ingrassare le coop legate ai partiti istituzionali (PD in testa ma nessuno escluso) e alla criminalità organizzata, come emerso in numerose inchieste, tra le più eclatanti quella di “mafia capitale”; non è un caso che queste mobilitazioni e lo stesso movimento per il diritto all'abitare vedano sempre più in prima fila schiere di lavoratori immigrati in fuga dalle guerre e dalla fame.

Sulla base dei risultati raggiunti attraverso la lotta, negli ultimi anni il movimento della logistica si è esteso a macchia d'olio, continuando a unire le sue forze con quelle di chi lotta per la casa, degli studenti in lotta contro il lavoro gratuito, dei braccianti in lotta per il permesso di soggiorno e un salario pieno, dei lavoratori del trasporto e degli autoferrotranvieri, dei metalmeccanici che resistono alla dittatura del "modello-Marchionne", dei disoccupati organizzati ecc...

Collegare, estendere e rafforzare le lotte esistenti, in quest'ottica anticapitalista e antimperialista non può ridursi a un astratto appello all'"unità" ma piuttosto alla reale e quotidiana convergenza di percorsi.

La richiesta di forti aumenti salariali uguali per tutti, la riduzione dell’orario di lavoro, l'eliminazione del Jobs Act, la difesa della salute e della sicurezza sul lavoro, l'affermazione del diritto di sciopero e di rappresentanza: su questi temi, in centinaia di magazzini, grazie alle lotte operaie sono stati già ottenuti risultati importanti e in netta controtendenza col quadro attuale, che richiamano la necessità di convergenze e mobilitazioni ampie, capaci di allargare il fronte di lotta e generalizzare le rivendicazioni.

Ciò significa anche far fronte alla repressione e al controllo sempre più asfissiante dello stato nei confronti di chiunque disturba il manovratore. Il decreto Minniti-Orlando è da questo punto di vista l'esempio più limpido del salto di qualità operato in chiave securitaria e reazionaria. Lo sgombero dell'occupazione di Piazza Indipendenza dello scorso agosto è da questo punto di vista un evento quantomai emblematico e indicativo: dopo che centinaia di famiglie, composte in larga parte da rifugiati e richiedenti asilo, vengono caricate, picchiate brutalmente e arrestate a sgombero già avvenuto e con la complicità dell'amministrazione Raggi, l'intera area circostante viene trasformata in una "zona rossa" in cui è vietato persino indire una conferenza stampa...

Un quadro che fa il paio coi teoremi repressivi contro il sindacalismo di base, culminati con l'arresto del coordinatore nazionale del SI Cobas in risposta alla lotta degli operai addetti alla macellazione carni all'Alcar Uno di Modena.

L'obiettivo che padroni e governanti (di ogni colore) si propongono è quello di rendere la loro democrazia sempre più blindata e di prevenire sul nascere ogni accenno di conflitto e di protagonismo di classe. In quest'ottica si inserisce l'attacco alla democrazia sui luoghi di lavoro, suggellata con la stipula del Testo Unico sulla rappresentanza del 10 gennaio 2014 che punta a marginalizzare ed espellere per decreto il sindacalismo di classe e combattivo dai luoghi di lavoro; e, soprattutto, l'attacco al diritto di sciopero, con l'inasprimento delle misure penali ed amministrative nei confronti di chi osa fermare la produzione. Non è un caso che l'ultima bozza di accordo del CCNL Trasporto merci e Logistica, che Cgil-Cisl-Uil firmeranno entro il 1° febbraio 2018, oltre a un forte aumento della flessibilità, della compressione salariale e di diritti per i nuovi assunti, prevede una sostanziale estensione della legge 146 alle merci alimentari, sul modello di quanto già attuato negli scorsi anni nel Pubblico Impiego, nel Trasporto pubblico e in numerose altre categorie. L'esperienza anche recente dimostra che è possibile fermare questa offensiva solo con l'unità e la determinazione dei lavoratori e di tutti i settori oppressi e umiliati da questo sistema fondato sullo sfruttamento.

Noi crediamo che tutte le esperienze che in questi anni hanno saputo resistere a una dura e incessante offensiva antiproletaria hanno il dovere di "dire la loro" anche nei prossimi mesi, riaffermando con chiarezza i propri obiettivi anche (e forse ancor più) nel corso della prossima campagna elettorale. Oggi più di ieri, la difesa dei nostri interessi, anche quelli più immediati, passa anzitutto per il rilancio del protagonismo e dell'autorganizzazione dei lavoratori: non esistono né sono mai esistite scorciatoie parlamentari che possano supplire alla lotta immediata e politica dei lavoratori quale “contropotere popolare” in opposizione alle politiche borghesi. Al contrario, coloro che indicano ai lavoratori, tanto più in questa fase, la strada elettoralistica parlamentare introiettano nella classe, già narcotizzata dalle sconfitte subite negli ultimi decenni, solo rassegnazione al dominio borghese, non una prospettiva per la quale lottare.

Una politica di classe si consolida e rafforza nelle lotte e nella nostra capacità di costruire e imporre rapporti di forza favorevoli, nei luoghi di lavoro così come nelle mille vertenze espressione dei territori, non certo nella riesumazione di cartelli, cartellini e cartelloni elettorali o, peggio ancora, nell'idea della "sponda istituzionale" ai movimenti, idea già rivelatasi (in un passato neanche troppo remoto) disastrosamente nefasta per i lavoratori e per gli stessi movimenti, poiché il fallimento cui sono oggettivamente condannati questi tentativi produce necessariamente confusione, opportunismo e scompaginamento nelle fila dei lavoratori.

All'organico disegno di attacco portato avanti da decenni dai governi capitalisti, alle prospettive xenofobe e razziste che alimentano la contrapposizione e lo scontro tra i lavoratori autoctoni e i lavoratori immigrati, è ora di contrapporre una prospettiva politica e di lotta altrettanto organica e rivolta a tutti gli sfruttati, lavoratori salariati e non, per costruire un fronte unico di classe anticapitalista che si colleghi strettamente ai conflitti sociali in corso su scala internazionale.

Per queste ragioni, dopo aver proposto a tutte le realtà di lotta e allo stesso sindacalismo di base la costruzione di un percorso, anche in continuità coi due scioperi nazionali precedenti, abbiamo deciso di indire una manifestazione per la giornata del 24 febbraio a Roma nei pressi dei palazzi del potere, dove portare la rabbia degli sfruttati e l'incompatibilità tra i loro interessi e il teatrino elettorale borghese, riaffermando con forza le nostre parole d'ordine e la nostra piattaforma di lotta:


- riduzione dell'orario di lavoro con forti aumenti salariali;
- per un salario medio garantito ai disoccupati (in subordine: abolizione dei limiti temporali per l’indennità di disoccupazione);
- abolizione del Jobs Act e di tutte le leggi precarizzanti;
- contro ogni accordo che limiti i diritti alla rappresentanza delle istanze dei lavoratori;
- la casa è un diritto inalienabile: contro affitti e mutui usurai, occupare è legittimo;
- diritto al soggiorno, all'asilo, alla cittadinanza e al lavoro a salario pieno per tutti gli immigrati che giungono sui nostri territori in fuga dalla miseria e dalle guerre prodotte in nome della democrazia per gli interessi imperialisti;
- no alla privatizzazione della sanità;
- no alla privatizzazione dell’istruzione, no all’università-azienda, no all’alternanza scuola-lavoro, no al lavoro gratis;
- contro ogni guerra e aggressione imperialista ad altri popoli: aboliamo le spese militari;
- contro i decreti Orlando-Minniti;
- per la difesa dei territori e dell'ambiente da speculazioni e devastazioni in nome del profitto;
- il debito pubblico lo paghino i padroni e i banchieri che l'hanno creato: no ai vincoli di stabilità europei e al pareggio di bilancio;
- ai rigurgiti nazionalisti e xenofobi rispondiamo con l'unità degli oppressi e rilanciamo l'internazionalismo proletario.

Le conquiste e i diritti si strappano con la lotta; in sua assenza il voto non può che portare illusioni e delusioni:

il 24 febbraio scendiamo in piazza a Roma!!!


SI Cobas Nazionale, 19/01/2018

Nucleo Comunista Internazionalista

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