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Le crisi aziendali e la richiesta delle nazionalizzazioni

(16 Marzo 2018)

cassa depositi e prestiti

La nazionalizzazione delle grandi aziende è uno dei cavalli di battaglia dell’opportunismo politico e sindacale, una sua parola d’ordine agitata in mezzo ai lavoratori costantemente, e in modo crescente con l’avanzare della crisi economica mondiale del capitalismo. Negli ultimi mesi è tornata ad essere invocata da alcuni sindacati di base, dall’Usb e dalla Cub, con riguardo all’Ilva e all’Alitalia, ma è certamente condivisa dalla maggioranza del sindacalismo di base nel suo insieme, ed anche dalle correnti di opposizione di sinistra nella Cgil.

Invece, avanzare la rivendicazione della nazionalizzazione reca un danno alla classe proletaria sia sul piano politico, puntellando il riformismo e mistificando il comunismo, sia su quello sindacale, ostacolando lo sviluppo dell’unità d’azione dei lavoratori – sul piano nazionale e su quello internazionale – e rallentando l’abbandono da parte del movimento operaio dei metodi d’azione estranei e dannosi alla lotta di classe, riducibili al credere di poter avere alleati all’interno dell’assetto istituzionale capitalista, che chiamano democratico.

Da riformismo a tradimento

Quando è agitata in campo sindacale, la nazionalizzazione rimanda immediatamente al campo politico, come di fatto è per ogni rivendicazione, ma in questo caso, per i suoi caratteri, in modo diretto ed esplicito.

Nella visione tipica del riformismo socialdemocratico – che secondo Lenin e il marxismo rivoluzionario è passato irreversibilmente nel campo borghese dall’agosto 1914 – un capitalismo opportunamente regolato da un intervento dello Stato, potrebbe funzionare senza lo sfruttamento della classe operaia, o quanto meno limitandolo.

I modelli storici a sostegno di questa tesi, a cui si rifanno i vari partiti della cosiddetta “sinistra” – tutti parte della sinistra borghese – variano, a seconda delle sfumature ideologiche, dai regimi socialdemocratici delle democrazie del centro e nord Europa, a quelli del falso socialismo della Russia e dei paesi suoi satelliti, passando per il sistema italico delle aziende statali e a partecipazione statale, che ha avuto il suo apogeo nel secondo dopoguerra e di cui oggi costoro hanno persino nostalgia.

Il capo della questione dal punto di vista teorico – da tenere stretto in mano per non perdere il filo della matassa da dipanare – è nel fatto che l’opportunismo, come tutta l’ideologia borghese e preborghese, pone a perno della spiegazione dei fenomeni storici, politici e sociali, la sfera ideologica, in modo opposto al marxismo, che vi pone la struttura economica.

Secondo l’ideologia del riformismo socialdemocratico, che in Italia ebbe nel secondo dopoguerra quale maggiore esponente il falso partito comunista, da Togliatti in poi, una certa “politica” sarebbe in grado di usare la macchina dello Stato per “regolare” il capitalismo, attraverso la proprietà di importanti industrie ed infrastrutture, finanziando un esteso ed articolato sistema di assistenze statali, infine garantendo così benessere e progresso per la classe lavoratrice.

Solo successivamente, in Italia e nel Mondo – sempre secondo questa stessa lettura antimarxista della storia – avrebbe preso il sopravvento una ideologia presunta opposta, quella del cosiddetto neoliberismo che, fedele ai suoi precetti, ha operato privatizzazioni, smantellato lo Stato assistenziale, non ha impedito o persino provocato la crisi economica, ed ha riportato nella povertà i lavoratori. Il riformismo socialdemocratico avrebbe avviato un processo di emancipazione della società dagli eccessi barbari del capitalismo originario, mentre il neoliberismo starebbe oggi riportando indietro la ruota della storia.

Il marxismo autentico mette in evidenza la falsità di questa interpretazione.

Innanzitutto va notato come l’acquisizione da parte dello Stato della proprietà di industrie ed infrastrutture, solo riferendoci al Novecento, non sia stata affatto una prerogativa di governi a guida socialdemocratica o che si pretendevano socialisti bensì di tutti i regimi borghesi, vuoi a governo apertamente totalitario, quali quello dell’Italia fascista e della Germania nazista, vuoi democratico. La politica di intervento dello Stato nell’economia e nella società è andata ovunque crescendo con l’approdare il capitalismo alla sua fase ultima dell’imperialismo, ed è un fattore di maggior oppressione sulla classe operaia, e non sul capitale, tanto meno di emancipazione di quella da questo.

L’interventismo statale nella prima metà del secolo scorso trovò progressivo impulso con l’avanzare della crisi economica mondiale del 1929, e con quello i vari capitalismi nazionali cercarono di reagire, usando mezzi che – lungi dall’essere una soluzione, che allora come oggi non esiste, sul piano della politica economica – consentirono di continuare per alcuni anni a contenere la ribellione della classe operaia, a disciplinare e raccogliere le cosiddette “forze produttive nazionali” per rilanciare e puntare tutto, come in una sorta di gioco di azzardo, nella partita decisiva che tutti i regimi borghesi sapevano approssimarsi, cioè il secondo conflitto mondiale.

Fu quella guerra, la più disastrosa nella storia umana, e non le politiche d’intervento pubblico nel campo economico, a sanare la crisi di sovrapproduzione, come da tempo ammettono candidamente gli stessi economisti borghesi, e fingono di ignorare gli opportunisti d’ogni risma.

Si pensi, in Italia, all’Istituto per la Ricostruzione Industriale, fondato nel 1933, ma che aveva avuto origine nel Consorzio Sovvenzioni istituito nel 1913, divenuto Istituto Liquidazioni nel 1926, che giunse ad aver oltre 200 mila dipendenti nel 1938 ed oltre 550 mila nel 1980! Una continuità che non trova spiegazione nello schema ideologico socialdemocratico.

Del resto, forma nazionalizzata o forma privata della proprietà dei mezzi di produzione e della terra sono entrambe pienamente compatibili con il capitalismo. Il capitale è sempre una pubblica e anonima forza sociale; è dato in proprietà collettiva privata alla classe borghese nel suo insieme, la quale si presenta come una grande società per azioni, sia esso intestato allo Stato, ad una Società Anonima, ad una banca, ad un Donald qualsiasi. È il capitale che sempre più si emancipa dai borghesi e nelle sue colossali incontrollabili dimensioni diventa “proprietario” ed arbitro assoluto dei capitalisti e dei loro Stati.

Ne consegue che né l’una né l’altra forma di proprietà del capitale possa dirsi più vicina all’economia socialista, essendo questa maturità legata ai parametri oggettivi dello sviluppo tecnico e sociale, e non giuridici formali.

La favola del neo-liberismo

Per quanto riguarda invece l’atteggiamento da tenersi nelle lotte immediate dei lavoratori è da sfatare il mito di una preferenza da concedere ad una delle due forme di proprietà per poter ottenere migliori condizioni di vita per la classe operaia.

I partiti opportunisti, ignorate le nazionalizzazioni compiute da regimi corporativi dell’interguerra, vantano i pretesi effetti di quelle successive a quell’immane macello di proletari e contadini: invece fu la guerra a ridare temporanea giovinezza all’economia capitalistica e a permettere i successivi decenni di forte crescita dell’accumulazione. Fu questa condizione economica di crescita, oltre a favorire le nazionalizzazioni delle imprese meno redditizie, a consentire l’estensione del cosiddetto Stato sociale, in Italia e in altri paesi, e poco migliori condizioni di vita alla classe operaia, conquistate comunque a prezzo di dure lotte, costate anche la vita a decine di lavoratori uccisi dalla forza pubblica della repubblica democratica, antifascista e dotata della “più bella Costituzione del mondo”.

Terminato a metà degli anni Settanta il ciclo postbellico di crescita ed apertosi quello attuale di lunga crisi, la politica borghese ha mostrato di cambiare registro e linguaggio, senza nulla aver voluto né inventato, naturalmente, ma solo adattandosi al corso delle cose, trascinata, per miseria, ad abbracciare l’ideologia “neoliberista”. “La festa [per i borghesi diciamo noi] è finita!», ammetteva la Thatcher. Non c’erano più soldi per finanziare le ferrovie, benché fosse stato ben utile per il capitale nazionale far viaggiare merci e salariati a basso prezzo. Non se lo potevano più permettere, la morsa della crisi del capitalismo sgretola tutti i loro piani e velleità mentre conferma le rigorose diagnosi del marxismo.

Ma questo clamore non ha significato nella realtà alcun ritorno alla società liberale e alla non intralciata competizione mercantile. Si sono sì sostituite regole a regole, ma le nuove ancor più adatte delle antiche ad esprimere l’oppressione dei capitali giganti sui piccoli e, principalmente, del capitale grande e piccolo sulla classe operaia.

In Italia i due grandi partiti che avevano cogestito il cosiddetto sistema delle “partecipazioni statali”, la DC e il PCI – in modo azzeccato si parlò di “repubblica cattocomunista” – in un trapasso in cui hanno giocato un ruolo anche fattori internazionali della crisi, si sono dissolti e la maggior parte del loro personale politico, ricollocatosi nelle nuove organizzazioni partitiche, è presto passato ad abbracciare il nuovo credo ideologico. Solo una minoranza del vecchio PCI ha continuato a vestire il logoro abito riformistico tentando ad ogni tornata elettorale di rappezzarlo, in una serie di insuccessi crescenti. Dopo aver illuso per decenni la classe operaia che in Russia, in Cina, a Cuba ecc. vi fosse il socialismo e che in Occidente il capitalismo sarebbe progressivamente e stabilmente migliorato grazie alla democrazia ed alla loro politica socialdemocratica, nella attuale condizione di crisi economica mondiale va raccontando che quella stessa politica economica sarebbe oggi in grado di invertire il ciclo economico del capitalismo! Alle menzogne neoliberali l’opportunismo replica con le ancor più crasse menzogne socialdemocratiche, cui i lavoratori – inevitabilmente e per fortuna – credono sempre meno, provocando comportamenti fino all’isteria nello sconsolato “popolo della sinistra”.

I regimi borghesi, a livello internazionale, nascondono oggi l’incagliarsi e l’infrangersi dei loro rapporti ed accordi dietro la maschera delle politiche neoliberiste, costrettivi dall’avvitarsi della crisi, che non spinge verso la “libertà”, seppure borghese, ma verso la disgregazione e il caos. Diciamo che oggi parlare apertamente di interventismo, visti i suoi pessimi risultati, è “inopportuno” ed è il caso di mantenere in ombra la reale dittatura del capitale sullo Stato. Dittatura che i traditori socialdemocratici si facevano vanto di aver rovesciato con la forza e l’azione della classe operaia.

Non sarà dunque l’inevitabile ridimensionamento dei precedenti “carrozzoni” statali, para-statali o quasi-statali, vedi Fiat, a consentire alla classe dominante di evitare la crisi economica del capitalismo, che si confermerà anche irrisolvibile e che continuerà ad avanzare attraverso periodici balzi in avanti che condurranno al bivio storico “o guerra o rivoluzione”.

Non è affatto da escludere, infine, che con il precipitare della crisi i regimi borghesi possano ritenere utile tornare apertamente alle politiche di intervento statale in economia, a restaurare lo Stato sociale per gestire la povertà in cui progressivamente sarà ricacciata la classe lavoratrice, il tutto accompagnato da politiche protezionistiche in campo economico e dalla propaganda sciovinista. Questo scenario, analogo a quello degli anni Trenta del secolo passato, è ben probabile, anche se non obbligato, e rivendicare la nazionalizzazione delle industrie cosiddette “strategiche” sul piano politico serve solo a preparare il terreno all’azione della classe dominante volta a tradurre la classe salariata sul treno che la condurrà al fronte di guerra. Per chi sono strategiche queste industrie se non per la borghesia nazionale?

Nazionalizzazioni e condizione operaia

È falso che una presenza maggiore dello Stato nella proprietà della fabbrica andrebbe a tutela delle condizioni di vita dei suoi lavoratori. Lo dimostrano i casi in cui lo Stato è ancora proprietario. Un esempio è quello di Fincantieri, di proprietà della Cassa Depositi e Prestiti, cioè del Ministero dell’Economia e delle Finanze. Riesce ad essere prima azienda mondiale nel settore della costruzione delle enormi navi da crociera perché sottopone gli operai ad uno sfruttamento infame, usando ampiamente il sistema degli appalti e dei subappalti, la cui forza lavoro, nei periodi di picco produttivo, arriva ad essere l’80% di quella presente in cantiere. Un altro esempio è quello del corriere espresso SDA, indirettamente di proprietà statale in quanto appartenente al gruppo Poste Italiane, controllato per circa il 60% dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. In questa azienda si è sottoposti all’altissimo grado di sfruttamento del settore della logistica e contro cui in questi anni si sono battuti i lavoratori organizzati nel SI Cobas. L’azienda ha risposto all’ultimo sciopero del settembre scorso con la serrata e assecondando i vari capetti e padroncini nel sistema di cooperative da essa utilizzato che hanno organizzato una spedizione di un centinaio di crumiri per attaccare all’arma bianca il picchetto di Milano.

Ma è negli stessi volantini in cui i sindacati di base invocano la nazionalizzazione che si riscontra il contrasto di questo indirizzo con il reale stato delle cose. Leggiamo dal comunicato del 3 dicembre scorso della Cub Trasporti e di Air Crew Commitee (un comitato del personale viaggiante federatosi alla Cub): «Con 900 mln versati, il Governo ha nazionalizzato Alitalia con un investimento superiore a quello che hanno versato i capitani coraggiosi ed Etihad insieme». Si spiega cioè come l’amministrazione straordinaria in atto da maggio 2017 ed il cosiddetto “prestito ponte” siano una nazionalizzazione di fatto, anche se, nelle intenzioni del governo, temporanea. E come opera il padrone statale nei confronti dei lavoratori? Lo spiegano i comunicati precedenti e successivi della stessa Cub in cui, correttamente, si denuncia come l’amministrazione commissariale non stia facendo altro che proseguire il lavoro del precedente padrone privato (Ethiad). Curiosamente la Cub Trasporti ha tenuto a rimarcare in modo particolare questo aspetto, volendo distinguersi in ciò dall’Usb che invece ha teso a riporre fiducia nell’opera dei tre commissari governativi.

Come si risolverebbe quindi il problema di rivendicare la nazionalizzazione mentre si constata che quando essa è applicata opera contro i lavoratori? Basta affermare che ci vorrebbe un padrone pubblico che “faccia il suo dovere!” Quindi il problema non sarebbe solo la nazionalizzazione bensì anche quello di imporre alla macchina statale di far funzionare l’azienda bene e senza sfruttare troppo i lavoratori. Giocoforza questa illusione non può che essere alimentata prospettando l’esistenza di possibili alleati politici nel campo istituzionale.

Si cade così in una serie di equivoci ed illusioni. Innanzitutto nella superstizione borghese dello “Stato al servizio dei cittadini”: mentre si constata come esso opera a sostegno degli interessi del Capitale, ci si ostina a credere e ad illudere i lavoratori che ciò potrebbe non avvenire. Lo Stato o è della borghesia o della classe lavoratrice, e il secondo può nascere solo sulle macerie del primo, per opera di una rivoluzione.

In secondo luogo si cade nell’aziendalismo, cioè nel credere ed affermare che lo sfruttamento dei lavoratori non sia insito al capitalismo ed alle sue leggi di funzionamento ma conseguenza di una cattiva gestione dell’azienda. Il problema sarebbe il Calenda, il Riva o il Marchionne di turno. La difesa dei lavoratori passerebbe di conseguenza attraverso la lotta per ottenere un “buon padrone”, in questo caso statale, in grado di portare all’affermazione dell’azienda nel mercato, e non per l’unità dei lavoratori al fine di contrastare la concorrenza al ribasso dei salari e delle altre condizioni d’impiego imposte dal capitalismo.

Il trasporto aereo è un settore per sua natura internazionale, in cui ancor più di altri vi è la necessità di un’adeguata organizzazione internazionale dei lavoratori per riuscire ad imporre un contratto collettivo di lavoro, diciamo europeo, in grado di contrastare la spinta al ribasso nelle condizioni salariali e normative. Per far ciò occorre rompere le divisioni fra compagnie e Stati nazionali.

Il 31 luglio scorso Cub Trasporti, Air Crew Committee e Sud Aérien si incontrarono a Roma per confrontarsi sullo sviluppo delle vertenze in Air France ed Alitalia. Ma l’indirizzo della nazionalizzazione, per tornare ad avere una “compagnia aerea di bandiera”, non è un modo per avvicinarsi all’unità internazionale dei lavoratori. Questa potrà essere ottenuta solo con la forza di scioperi internazionali per obiettivi comuni. Le compagnie, nazionali o private, operano nella direzione opposta, lottando le une contro le altre nella concorrenza capitalistica. Bisognerebbe innanzitutto cominciare ad organizzare scioperi di solidarietà quando a scendere in lotta sono lavoratori di singole compagnie, in particolare di quelle in cui più alto è il grado di sfruttamento, come ad es. è successo per la Ryanair.

I lavoratori di Alitalia da soli, nella dura vertenza che stanno affrontando, non possono compiere questo percorso, questo è certo. Ma indicare loro l’obiettivo della nazionalizzazione non fa fare un passo in avanti in questa direzione ma indietro, puntella la chiusura della loro visione dei problemi nell’orizzonte aziendale.

D’altronde, che sia nazionalizzazione o privatizzazione, il contenuto di questa o di quella, in termini di condizioni d’impiego, sarà determinato solo dal grado di forza che i lavoratori saranno in grado di dispiegare, non da altro.

Il sindacato, il sindacalismo di classe, si deve attestare sulla difesa dei bisogni dei lavoratori – salario, orario, ritmi e carichi di lavoro, numero di addetti, sicurezza e salute – non aver voce nel campo gestionale dell’azienda, illudendosi di poter difendere i lavoratori consigliando il padrone. Questo è il tipico approccio del sindacalismo di regime che imposta la sua azione secondo il motto per cui “la protesta non basta, ci vuole la proposta” e richiedendo “piani industriali”, come se questi di per sé implicassero la tutela dei lavoratori.

Oltre a dividere la classe lavoratrice sul piano internazionale e a non garantire la tutela delle condizioni di vita dei salariati delle aziende interessate, la rivendicazione della nazionalizzazione danneggia l’unificazione del movimento operaio nazionale. Essa infatti va a riguardare solo i lavoratori di alcune grandi imprese, separandoli negli obiettivi dal resto della classe. I lavoratori delle grandi aziende per il fatto d’essere in maggior numero e concentrati in grandi stabilimenti, già godono di rapporti di forza relativamente più favorevoli rispetto a quelli delle aziende medie o piccole. Lo sforzo che deve operare un autentico sindacato di classe è quello di volgere questa maggior forza a giovamento di tutta la classe coinvolgendola in rivendicazioni e in un movimento di lotta comune.

Per altro è ampiamente dimostrato come tali rapporti di forza relativamente più favorevoli ai lavoratori delle grandi aziende, non siano per nulla sufficienti a garantirli da attacchi alle loro condizioni di lavoro o dal licenziamento e come l’apporto del resto della classe lavoratrice sarebbe necessario anche per loro. Questo reciproco sostegno, che altro non è che il rafforzamento dell’unità di classe, può avvenire solo sulla base di una lotta per i bisogni reali e comuni dei lavoratori, quali la difesa del salario, la riduzione dell’orario di lavoro, la riduzione dell’età pensionabile, servizi sociali gratuiti per la classe lavoratrice.

Al contrario una lotta dei lavoratori delle aziende che l’opportunismo definisce “strategiche”, al fine di ottenerne la nazionalizzazione, non può che rafforzare l’indifferenza del resto della classe alle loro sorti, anche prestando il fianco alla propaganda padronale che li descrive come “privilegiati”.

Le lotte dei lavoratori dell’Alitalia, dell’Ilva, delle acciaierie di Piombino, ecc. devono essere condotte col fine dei loro obiettivi reali e sostanziali: contro i licenziamenti e i peggioramenti delle condizioni di lavoro. A questo scopo va ricercata e costruita l’unità innanzitutto coi lavoratori dell’indotto e poi più in generale del territorio interessato e della categoria a livello nazionale (nei casi in questione degli aeroportuali e dei siderurgici). Una strada difficile, come lo è sempre la lotta di classe.

Ma l’illusione di poterla sostituire percorrendo presunte scorciatoie, appoggiandosi non al resto della classe lavoratrice ma a soggetti istituzionali, anche nell’ipotesi, comunque niente affatto garantita, che porti risultati temporanei e parziali a quel determinato gruppo di lavoratori, non fa avanzare di un passo il lavoro di costruzione dell’unità di classe, e quindi non crea i presupposti necessari per affrontare da posizioni di maggior forza le battaglie future.

PARTITO COMUNISTA INTERNAZIONALE

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