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(17 Aprile 2018)
Il Tribunale Penale Internazionale, su cui l’associazione afghana Saajs (Social Association of Afghan Justice Seekers) confida per condurre alla sbarra i responsabili di omicidi, rapimenti, torture, stupri, vessazioni che continuano a rappresentare la triste quotidianità in Afghanistan, ha deciso di rinviare la decisione se investigare o meno attorno ai reati compiuti da truppe d’occupazione Nato, governative e milizie talebane. Si dovrà decidere se esaminare il materiale raccolto e ascoltare i testimoni per procedere penalmente, si badi bene, contro individui, non contro governi o gruppi armati. Cosicché già viene meno uno dei cardini per ottenere giustizia su tante nefandezze che hanno presupposti collettivi e rispondono a strategie geopolitiche. In tal senso testimoni e familiari di vittime, come quelli incontrati in un recente viaggio a Kabul (cfr. http://enricocampofreda.blogspot.it/2018/03/afghanistan-saajs-la-giustizia-contro.html), difficilmente potranno vedere una ricaduta sociale e politica d’una simile procedura. Essa eleva una barriera fra le responsabilità soggettive di chi materialmente ha compiuto gli atti criminali e quelle dei mandanti, svincolando i delitti dai progetti dei vari attori che si muovono nel Paese. Il rinvio assume i contorni della brutta diplomazia, quella compiacente coi poteri forti, quasi non si volesse disturbare il doppio programma in atto: i sempre aperti (sebbene improduttivi) colloqui coi talebani della Shura di Quetta e la preparazione della scadenza elettorale del 2019.
E già gli Stati Uniti hanno annunciato che il Tribunale non ha giurisdizione sui propri cittadini. Mentre la presidenza Ghani, pur affermando una volontà di collaborazione, ha richiamato presunte opportunità del momento, sostenendo che le investigazioni minerebbero la stabilità (sic) del Paese. Forse potrebbe servire più la creazione d’un Tribunale Internazionale rivolto esclusivamente all’Afghanistan, come accadde a metà anni Novanta per le vicende del Ruanda, ma per gli appetiti geostrategici, e ora anche geoeconomici, che la nazione asiatica suscita tutto ciò appare un’utopia. Perlomeno si potrebbe giungere all’avvìo, e si auspicherebbe a conclusione, dei processi contro i crimini di guerra. Ma come esposto sopra, militari e ufficiali Nato risultano intoccabili, del resto giustificano anche le stragi di civili con la ‘lotta al terrorismo’, come pure difficile sembra un’autocondanna per i politici afghani, molti dei quali sono signori della guerra (Abdullah, Dostum) in carica governativa. Potrebbero restare i talebani “cattivi”, visto che con quelli “buoni” e coi loro mentori (Hekmatyar), Ghani è impegnato in trattative. Ma il trio dei giudici neo incaricati (il congolese democratico Mbe Mindua, il giapponese Akane, e l’italiano Aitala) se entro il 20 luglio prossimo non prenderà la decisione di avviare la procedura penale, questa slitterà ulteriormente. Potrà ripetersi quanto già accaduto: il gruppo dei magistrati decade e verrà sostituito da altri colleghi che dovranno riesaminate la documentazione per proporre un processo. Così di rinvio in rinvio il tempo scorre, l’impunità dilaga, i civili muoiono. Ad libitum…
17 aprile 2018
articolo pubblicato su enricocampofreda.blogspot.it
Enrico Campofreda
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