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(12 Novembre 2012) Enzo Apicella

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Palestina: l'informazione manipolata e quella di cui abbiamo bisogno

Una conversazione con Wasim Dahmash

(25 Aprile 2018)

Il professor Wasim Dahmash è uno dei maggiori intellettuali palestinesi residenti in Italia. Vive e lavora in questo paese ormai da molti anni: ha insegnato Dialettologia araba presso l’Università degli studi La Sapienza di Roma dal 1985 al 2006, anno in cui iniziò la docenza di Lingua e letteratura araba presso l’Università di Cagliari.
In questa intervista, gli abbiamo chiesto di sviscerare un tema di notevole rilevanza: il modo in cui i media e la politica di casa nostra si rapportano alla questione palestinese, nel segno di una discontinuità con il passato recente su egli cui ci offre una precisa chiave di lettura.

Wasim Dahmash

Wahsim Damash (da nena-news.it)

Prof. Dahmash, a suo avviso cosa è cambiato, nel corso del tempo, nell’approccio dei media italiani alla questione palestinese?
Direi che ci sono state almeno tre fasi diverse, nel comportamento generale dei mass media e quindi anche della politica italiani nei confronti della questione palestinese e del cosiddetto Vicino o Medio Oriente.
La prima fase va, più o meno, dalla fine del secondo conflitto mondiale alla guerra del ’67: è un periodo in cui l’Italia si considerava ancora un paese mediterraneo, aveva buoni rapporti con il mondo arabo, e sosteneva – anche se non con molta energia – la causa delle lotte anticoloniali, ad esempio la lotta di liberazione in Algeria (e questo nonostante gli ottimi rapporti con la Francia). Ma nonostante questa politica mediterranea”, l'Italia tendeva allora ad ignorare la questione palestinese, per varie ragioni…La più importante delle quali era che questo paese cattolico, governato dalla Democrazia cristiana, nel vedere la culla cristianità presa in possesso da una società coloniale, ha cercato di rimuovere il problema, chiudendo un occhio sul fatto che veniva eliminata la popolazione della terra Santa, con l'annessa distruzione della società che, tra l’altro, aveva generato il Cristianesimo, di cui il Cattolicesimo è espressione
La seconda fase è invece segnata dalla guerra dei Sei giorni. Israele in quella occasione dimostrò di essere divenuto una società bellica, una potenza regionale. Gli Stati Uniti inizialmente non erano così convinti della opportunità del riarmo nucleare di Israele, mentre la Francia lo sosteneva, in funzione anti-araba perché anti-algerina: fu infatti la Francia a creare l’arsenale nucleare israeliano. A questi attori va aggiunto il mondo arabo, che le frattempo aveva acquistato visibilità, con la questione del petrolio e non solo. C’era quindi, da parte delle potenze occidentali, la necessità di trovare un equilibrio: in tale periodo, di conseguenza, la stampa italiana cominciò ad interessarsi della questione palestinese, mentre prima del ’67 faceva semplicemente finta di non vederla…
E qui bisogna distinguere tra vari atteggiamenti: la stampa di sinistra, segnatamente quella vicina al PCI, quindi l’Unità, Rinascita, successivamente il Paese Sera mostravano simpatia verso movimenti di guerriglia se non comunisti, comunque di sinistra, legati, cioè, a idee “socialisteggianti”. Dal canto suo, la stampa di destra, essendo sostanzialmente filo-americana, ha tenuto un atteggiamento opposto, ché in quel momento gli USA iniziarono ad assumere posizioni sempre più filo-israeliane. Questo atteggiamento fu comune anche a parte della stampa di centro, anche se occorre precisare che i giornali cattolici, in ultima analisi, cercarono sempre di mantenersi su una posizione di mediazione.
La terza fase potremmo definirla “post-Oslo”. Con gli accordi tra Fatah e il governo israeliano in pratica la questione palestinese è venuta meno, in seguito alla perdita di peso politico da parte dei palestinesi. La causa palestinese, dopo Oslo è stata praticamente liquidata sulla scena internazionale, ne è rimasto un simulacro. I palestinesi non contano più…E non contando più loro, inevitabilmente, conta sempre meno il modo arabo: quest'ultimo incide sempre meno sullo scenario internazionale perché non alza più la voce. Non può più alzare la voce perché ha perduto le sue capacità economiche, industriali, belliche…
E tutto ciò si riflette fortemente sull’atteggiamento dei media, anche perché nel contempo Israele ha acquistato maggiore influenza nel mondo, in particolare negli USA e in Europa. Attualmente Israele sta agendo nuove strategie politiche nell'America meridionale, incontrandovi, però, difficoltà assai maggiori di quelle che trova in Europa. Negli Stati uniti le lobbies pro-israeliane controllano la politica riguardante il Medio oriente. Lo abbiamo visto con le guerre contro la Siria, l’Iraq, lo Yemen, con lo smantellamento della Libia e così via… operazioni che sono state giustificate dai media nord americani ed anche europei attraverso la sistematica diffusione di menzogne.

Dunque, il nodo più propriamente politico è che i giornali italiani, come di quelli degli altri paesi “democratici”, per adeguarsi al mutato contesto internazionale, quando si occupano della questione palestinese e del Medio Oriente, smentiscono ogni retorica sulla “libertà di stampa”...
In termini generali è vero, però questo tema presenta anche delle sfumature che vanno prese in considerazione. Perché, ad esempio, se la stampa israeliana nella sua totalità è ovviamente pro-sionista, non mancano lodevoli eccezioni, con giornalisti che, nei confronti della questione palestinese, si rivelano molto più “liberal”, rispetto ai loro colleghi di altri paesi alleati di Israele, Italia compresa.. Questo cosa vuol dire? Che l’atteggiamento della stampa non dipende esclusivamente da quello della classe politica al potere nella società in cui opera, ma anche dal coraggio maggiore o minore dei giornalisti…Siccome siamo tutti padri di famiglia, abbiamo tutti un mutuo da pagare, tutti obbediamo a direttive “dall’alto”…Però un minimo di coraggio cambierebbe completamente la situazione. Vero è che dall’altra parte c’è un ricatto israeliano molto forte anche sul piano individuale, rispetto al posto di lavoro… Tuttavia, un minimo di dignità da parte dei professionisti dell’informazione non farebbe male a nessuno... parlo di un minimo di coraggio in più…

…O di onestà intellettuale…
Direi di coraggio e basta…Non esageriamo ...

Tornando alla politica italiana verso il mondo arabo, l'indubbio mutamento registrato negli ultimi tempi, certo legato alla radicale trasformazione dello scenario internazionale, non risponde pure a interessi propri?
Diciamo che l’Italia negli ultimi anni – dal governo Berlusconi in poi, ma soprattutto da Oslo, principio del declino del mondo arabo - ha iniziato a seguire più una linea “Europeo-centrica”, diciamo così, che una linea mediterranea, abbandonando l'opzione di politica estera che aveva perseguito nei decenni precedenti. La politica europea nei confronti del Medio oriente è assai più marcatamente filo-atlantista, è la politica della NATO. La classe politica italiana, negli ultimi 20-25 anni, ha ceduto parte della propria autonomia politica e decisionale nel rapportarsi alla regione: l'ha ceduta all’Europa, la quale in parte l'ha ceduta alla NATO. Quest'ultima, evidentemente , è diretta dagli USA.
Il caso della Libia mi sembra emblematico: l’Italia non aveva alcun interesse a smantellarne l'apparato statale e a creare le premesse per questo caos infinito. Ma per una complessa serie di ragioni, s'è adeguata. La Francia, invece, aveva molti motivi per auspicare lo scenario attuale, anche di carattere “interno”, stante la forza acquisita dalle lobbies sioniste all’epoca della Presidenza Sarkozy; una forza ch'era diminuita leggermente con Hollande, ma poi c’è stata tutta una serie di attentati terroristici “ad hoc” che hanno rinvigorito la spinta pro-Israele nella potenza d'oltralpe. La quale aveva tutta la convenienza a smantellare lo Stato libico, assieme alle cosiddette Petromonarchie arabe, ma questo passaggio non era affatto nell’interesse dell’Italia.

Dunque, le coordinate della politica estera italiana avrebbero comunque una matrice “esterna”?
Si può dire che sono determinate da una serie di elementi, tra cui il fatto che il mondo arabo ha perso prestigio e autonomia a livello internazionale, risultando quindi dotato di un “potere contrattuale” assai ridotto rispetto a un passato anche recente. Di conseguenza, l’Italia si è adeguata alla politica dell’Europa nei confronti del mondo arabo, che è una una politica da “superpotenza”. E' normale che i rapporti politici siano mutati. E di conseguenza anche la stampa si è adeguata; a ciò va aggiunto un altro fattore importante: il potere di Israele, che non è unicamente contrattuale, bensì un potere di ricatto che, col tempo, è diventato enorme. Israele non è più solo lo stato coloniale che si è insediato in Palestina: no, oramai è una potenza che potremmo definire “sub-imperiale”, è un sub-imperialismo che dipende dall’imperialismo degli Stati uniti, ma allo stesso tempo lo nutre; se ne nutre e lo nutre. La questione è quindi abbastanza articolata, perché rimanda non solo allo stato coloniale ma alle sue ramificazioni, come quell’organizzazione sionista mondiale che è diffusa in tutto il mondo e che, attraverso le lobbies filo-israeliane, si esprime in modo visibile negli USA e in termini meno espliciti nei paesi europei. Questo intervento nella politica dei singoli stati europei e dell’Europa nel suo complesso favorisce Israele in tutti i modi e penalizza il mondo arabo e il mondo islamico. Il punto è che il sionismo è convinto – forse non a torto - che l’unico modo per far sopravvivere uno stato coloniale in una realtà decolonizzata è distruggere o frammentare il mondo che lo circonda, avvertito come minaccia. Lo si è visto lo scorso 30 marzo, nel corso di una manifestazione (la Marcia del Ritorno nella Giornata della Terra), svoltasi nella striscia di Gaza, la quale è un lager, un carcere a cielo aperto…in questa circostanza, i soldati israeliani hanno sparato a distanza contro donne e bambini che manifestavano pacificamente, lontano, d’altra parte, dal reticolato, dal muro che hanno eretto intorno a questo lager, e ne hanno uccisi sedici subito, mentre uno è morto in seguito per le ferite riportate…diciassette morti più millecinquecento feriti…In una manifestazione , l’esercito che spara e uccide, su trentamila manifestanti, diciassette persone, ferendone millecinquecento…E’ un massacro. Ma la stampa italiana, come quella di altre parti del mondo, ha qualificato questa strage come “scontri”…Questo dà la misura del potere di Israele. Ma perché si comportano così? Perché sanno bene di essere fuori posto…Una colonia europea nel XXI secolo in Medio oriente, che ci sta a fare?...In Sudafrica la questione si è risolta, in parte, perché i coloni europei, sia pure tardivamente, si son resi conto della situazione e si son detti: “Va bene, viviamo qui ma senza la pretesa di cancellare gli indigeni”, gli israeliani invece continuano. ”Ma perché li volete cancellare?” “Perché forse, un giorno, potrebbero dirci ‘questa è la nostra terra’…”. Questa è la realtà… Il colonialismo d'insediamento non può ammettere la presenza di indigeni. In Nord America, ad esempio, i coloni europei, mentre massacravano la popolazione indigena importavano schiavi dall’Africa…Perché avevano bisogno di manodopera, certo, ma quella manodopera non poteva essere indigena, dal momento che gli indigeni andavano eliminati. Stessa cosa è avvenuta in Australia, stessa cosa è stata tentata in Sudafrica e oggi la si sta attuando in Palestina.

Ora, a parte l'atteggiamento della politica e dei media ufficiali, che lei ha così ben descritto, cosa possono fare gli operatori alternativi dell'informazione per narrare correttamente la questione palestinese?

Dal mio punto di vista, essi debbono anzitutto considerare che il problema palestinese ha una sua dimensione regionale, che si aggiunge a quella, chiamiamola così, mondiale o internazionale; la dimensione regionale è semplicemente questa: la Palestina degli ultimi quindici secoli è stata fortemente arabizzata, fa parte di un preciso mondo, il mondo arabo. Questo mondo è ricco di materie prime, tra cui il petrolio... ora, è evidente che chi controlla tali risorse, in questo momento anzitutto il petrolio, incide profondamente sull’economia mondiale. Gli USA, esercitando il controllo effettivo, militare sul territorio in cui si estrae il petrolio, sorvegliano l’economia europea, perché controllano il prezzo, la destinazione delle materie prime e così via. E tentano di condizionare anche la politica di paesi che non fanno parte della NATO, come la Russia: l’atto di abbassare il prezzo del petrolio, per dire, è stato pensato anche contro la Russia, per condizionare le scelte di questo paese. La Palestina fa parte di questo contesto, e questo è un aspetto della questione. L’altro aspetto è che la Palestina, almeno negli ultimi quindici secoli, a mano a mano si è islamizzata; la popolazione palestinese ha cominciato a far parte di un mondo ancor più vasto di quello arabo: il mondo islamico. In questo mondo sono successe diverse cose, nel corso del tempo, tra le quali l'emergere di un fenomeno come il terrorismo cosiddetto islamico, che bisognerebbe più semplicemente chiamare terrorismo internazionale telecomandato dagli Stati uniti, non dai governi USA, sia chiaro, bensì dai servizi di sicurezza e dall’esercito di quella grande potenza. Il fenomeno in questione, come si sa, è iniziato in Afghanistan in funzione anti-sovietica. Poi si è trasferito in Russia, nel Daghestan e in Cecenia, al fine di contribuire allo smantellamento della Federazione russa, quindi in Jugoslavia, per agevolare lo sgretolarsi di quel paese... Col tempo, dunque, questo terrorismo ha maturato una grande esperienza di guerra: che è proseguita in Iraq, per poi essere esportata in Siria. Anche la Palestina, in quanto parte di tale contesto regionale, è stata toccata dal fenomeno. Perché i paesi limitrofi alla Palestina sono sotto una fortissima pressione da parte di Israele e della NATO. La Siria, ad esempio, è sconvolta da una guerra che dura da sette anni, finanziata principalmente dalle Petromonarchie, con formazioni armate sostenute economicamente dai sauditi, certo, ma equipaggiate e addestrate da istruttori francesi, inglesi, americani e soprattutto israeliani, oltre che dalla Turchia. Ciò determina una condizione di guerra che perdura tutt’ora, in una situazione di caos, di “Caos creativo”, come lo definiva anni fa Condoleezza Rice. Questo caos creativo crea semplicemente altro caos: in tal senso l'esemplificazione è cospicua, andando dalla Libia, dove lo Stato non c’è più, allo Yemen dov'è quasi dissolto, per non dire dell'Iraq dove dello Stato è rimasto un simulacro…E’ chiaro che in questa situazione la questione palestinese, cioè la lotta del popolo palestinese contro la feroce colonizzazione israeliana, passa in secondo piano, viene del tutto oscurata. E l’oscuramento significa spesso isolamento. Questo isolamento risulta evidente nel caso di Gaza, esprimendosi su vari livelli, non solo collettivi ma anche individuali… Ad esempio, immaginiamo un ragazzo di Gaza che voglia andare da qualche parte a studiare: come fa? Chi gli dà un documento, e questo documento da chi è accettato? Per tacere degli impedimenti quotidiani alla mobilità vissuti dai palestinesi che magari debbono semplicemente andare al lavoro… Parliamo di una guerra contro l’individuo, non solo contro una collettività, nonché di un isolamento che acuisce la tensione, alimentando i fanatismi e quegli estremismi che già le potenze imperialiste hanno provveduto a creare. Del resto, la Striscia di Gaza, sotto assedio da undici anni, è un posto dove non c’è da mangiare, anche i pescatori sono impossibilitati ad esercitare la propria attività, in un luogo in cui il pesce ormai è l’unica risorsa. Senza dimenticare l'assenza di acqua potabile, perché questo dono della natura è ormai contaminato dalle guerre, dai bombardamenti israeliani. In questo piccolo territorio, c'è una condizione di invivibilità assoluta: non è esagerato dire che è stato trasformato in lager per due milioni di abitanti. Se, nei limiti delle proprie possibilità, si mantengono i riflettori accesi su questa situazione, già si contribuisce a far sentire meno sola una popolazione che vive quotidianamente un'indicibile sofferenza.

Concludiamo con un dato legato alla più stretta attualità: il prossimo “Giro d’Italia”, che comincerà in Israele il 4 maggio. Ad aggravare la situazione, in un'iniziativa già in sé sconsiderata, c'è il fatto che gli organizzatori, cedendo alla pressione del governo Netanyahu, hanno scelto di indicare genericamente la prima tappa come Gerusalemme, di fatto riconoscendola, in contraddizione con la linea dell'ONU, come città unica e indivisibile sotto il controllo israeliano...
Sì, trattasi di un altro evento sul quale è necessario fare chiarezza: si è annunciato il “Giro” in quanto “iniziativa di pace”, ma per ironia della storia non potrà che seguire la mappa dei massacri e delle espulsioni della popolazione palestinese, per giunta riconoscendo come legittima, come giustamente avete evidenziato, l'occupazione illegale di Gerusalemme Est. E’ evidente che il volume di affari che tale iniziativa richiamerà è un argomento più convincente di qualsiasi altro, per le federazioni sportive e le pubbliche istituzioni di questo paese, ma non è detto che l'opinione pubblica si allinei alle rappresentazioni ufficiali, soprattutto se viene sollecitata dalle realtà della comunicazione indipendente.

A cura de Il Pane e le rose - Collettivo redazionale di Roma

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