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ANCORA SU MARXISMO E COMUNISMO ITALIANO

(13 Maggio 2018)

Eugenio Garin

Eugenio Garin

Gli intellettuali di maggior spicco, ormai liberati dall’impegno che proponeva la “Tesi 11”, si stanno sbizzarrendo attorno alle celebrazioni del bicentenario marxiano.
Questa ri- attualizzazione, con tratti di spettacolarizzazione addirittura cinematografica, del filosofo di Treviri ha ottenuto uno spazio davvero inusitato nell’insieme della diffusione mediatica e delle proposte editoriali.
La ragione di questo fatto risiede probabilmente proprio perché il tutto appare slegato da qualsiasi ipotesi di presenza politica immediata dopo la chiusura delle realtà statuali del ‘900, la pratica sparizione dei partiti comunisti, l’evidente crisi di quelli socialdemocratici.
Insomma rimane il Marx dell’“interpretazione del mondo”, e lo stesso “Capitale del XXI secolo”, nell’ipotesi di Piketty non propone nessun sbocco politico delle analisi che contiene: letta la mostruosità delle diseguaglianze non si legge nessun appello a “rompere le proprie catene”.
Nessuno, insomma, pensa più che ci sia “uno spettro che si aggira per l’Europa” e allora, appunto, si è data via libera a interpretazioni, esegesi, ricostruzioni.
Nel florilegio in corso di questi tempi, almeno per quel che riguarda il piccolo della situazione italiana, spicca così la ripubblicazione del “Manifesto”, in questo caso titolato il “Manifesto Comunista” come nell’edizione del 1872, per l’editrice fiorentina “Ponte alle Grazie”.
L’edizione è accompagnata da saggi e contributi di notevole livello destinati a definire il livello d’attualità di quel testo che, come si accennava all’inizio, falliti i tentativi d’inveramento statuale realizzati – attraverso diversi fraintendimenti – nel’900, appare oggi in una forte ripresa di considerazione dal punto di vista dell’opportunità che continua a offrire circa la lettura delle “contraddizioni operanti nella società moderna”.
Quegli inveramenti statuali, infatti, non sono analizzati nei vari saggi che accompagnano il testo del 1848 e neppure vi è affrontata un’analisi riguardanti la realtà dei partiti comunisti, socialisti, socialdemocratici operanti nell’Europa Occidentale e in altre parti del mondo, sia dal punto di vista storico, sia da quello dell’attualità.
Obiettivo, almeno nell’intervento di Toni Negri come sempre quello politicamente più impegnativo, è “decostruire / ricostruire “Il Manifesto”, mentre nell’intervento di Slavoj Zizek se ne valuta la “tardiva attualità”.
Negri invoca una modificazione sostanziale rispetto alla possibilità di redigere un nuovo “Manifesto dei Comunisti” e scrive: “Se la lotta di classe mantiene la sua centralità dentro le radicali modificazioni del processo storico, essa può farlo perché appunto si distende e attraverso ogni aspetto della vita e in ognuno di essi sperimenta la realtà dello sfruttamento”.
Ciò acclarato continua a mancare una visione di confronto con quella che è stata l’elaborazione del comunismo occidentale nell’epoca delle grandi formazioni di massa e in particolare del Partito Comunista Italiano, laddove – come si vedrà meglio in seguito – determinati temi furono affrontati pur in tempi di grande rigidità ideologica e di assoluta prevalenza dell’autonomia del politico e di confronto “dialetticamente separato” con i movimenti sociali.
Un’assenza considerata almeno come un punto che sta a cuore di chi ha redatto questo intervento, con l’augurio che possa interessare anche ad altri.
Il confronto con l’elaborazione del Partito Comunista Italiano viene invece tentato nel testo collettaneo: “Karl Marx morto o vivo” edito dal Corriere della Sera a cura di Antonio Carioti.
Un testo che merita un ulteriore punto di riflessione, proprio per la specificità di ragionamento che mette in campo.
Il punto specifico di attenzione deve essere riservato, a mio giudizio, allo spazio d’interpretazione che vi riserva Galli della Loggia nell’introduzione ai vari saggi che compongono il testo.
Uno spazio dedicato propri al rapporto tra la dottrina marxista e linea adottata dal Partito Comunista Italiano, all’epoca della segreteria Togliatti.
Si tratta di un tema di grande importanza non soltanto dal punto di vista storiografico o della teoria politica che nel testo in questione è affrontato da Galli della Loggia in questo modo:
“ In modo particolare l’Italia perché qui, tra l’altro, l’abile guida di un leader politico, di eccezionali capacità, Palmiro Togliatti, procurò di presentare il Partito Comunista, di cui era segretario, nella luce più accattivante e rassicurante, portandolo in breve a divenire un’organizzazione poderosa e saldissima, capace di un’attenzione specialissima per le cose e gli esponenti della cultura.
Ma il successo del PCI equivalse solo in parte alle fortune del marxismo.
Togliatti, infatti, decise di presentare il partito, piuttosto che come un seguace del filosofo tedesco, come l’erede della tradizione culturale italiana secondo l’interpretazione che ne aveva dato nella sua “Storia della letteratura” Francesco De Sanctis, limitandosi ad aggiungere Antonio Labriola, l’unico marxista della penisola degno di questo nome.
L’intera operazione poggiò, come si sa, sulla pubblicazione e l’amplissima diffusione dei Quaderni del Carcere di Antonio Gramsci.
L’opera di Gramsci – prosegue Galli della Loggia (n.d.r) – era una vasta, anche non sistematica, ricognizione dell’intera vicenda storica e culturale della nazione italiana. Compiuta da parte di chi, come Gramsci, per la sua formazione in quella vicenda era totalmente immerso: ricchissima di squarci analitici audaci, di suggestioni nuove, di preziose indicazioni di ricerca nei più vari campi.
Togliatti cercò di servirsene per scalzare la vecchia egemonia idealistica crociana – genti liana e assegnare un ruolo direttivo al Partito Comunista in campo culturale: per creare una nuova egemonia.
E, infatti, grazie a questa strategia il PCI riuscì a stabilire un’influenza forte e vasta ben oltre i confini dei suoi aderenti, badando, quando si muoveva oltre questi confini a presentarsi come una generica forza di progresso sociale, aliena di qualunque radicalismo (questa si può interpretare, da parte di Galli della Loggia come una lettura della “doppiezza” n.d.r).
Più avanti Della Loggia scrive:
“Per parecchio tempo, dunque, il marxismo come tale non ebbe particolare diffusione e seguito in Italia. Ci furono studi significativi in campo filosofico (Antonio Banfi, Galvano Della Volpe, Lucio Colletti: su questo punto da confrontare il fondamentale: Cristina Corradi “Storia dei marxismi in Italia” manifesto libri 2005-n.d.r) , meno direi nell’economia teorica, salvo il libro di Piero Sraffa “Produzione di Merci a mezzo di merce (1960), nella storiografia, infine, tranne la prosecuzione di alcuni antichi filoni di storia economica.
Ancora Della Loggia prosegue:
“ Le cose presero a cambiare tra la fine degli anni’50 e l’inizio dei ’60 con l’emersione di nuclei intellettuali (riuniti attorno a qualche rivista “Quaderni Rossi”, “Rivista storica del socialismo”) i quali contestando la linea politica da essi giudicata di “destra” e “riformista” del comunismo ufficiale, s’impegnarono per una riattualizzazione teorica della lotta di classe come chiave interpretativa del mondo e quindi in una riscoperta del marxismo.
Riscoperta che, incontrandosi dapprima con il grande risveglio del conflitto sindacale e operaio successivo al boom, e poi con il movimento studentesco del ’68, condusse questa volta sì, per almeno una quindicina d’anni, a quella che può dirsi un’egemonia del marxismo. Non solo e non tanto, forse, nel campo dell’alta cultura e degli studi quanto soprattutto nel senso comune.”
Fin qui Galli della Loggia sul rapporto tra marxismo e comunismo italiano. Uno sviluppo di ragionamento, quello contenuto nel suo testo, che deve essere analizzato attraverso un necessario approfondimento circa la storia del comunismo italiano .
Storia ricostruendo la quale, sia pure sommariamente, rileviamo quello che ci permettiamo di definire come “lascito inevaso”.
Emerge un vuoto non solo storiografico ma politico derivante dallo scioglimento del Partito Comunista che sicuramente ha rappresentato la forma politica assunta proprio dal comunismo italiano (compresa la già ricordata “doppiezza”).
La ragione per la quale si può considerare il PCI quale forma politica egemone compiuta del comunismo italiano, assunto sulla base del quale mi permetto di fondare questo intervento, risiede in una ragione teorica, tutta interna al pensiero gramsciano.
E’ necessario, allora, andare oltre a quanto sostenuto nel suo testo da Galli della Loggia e analizzare il “lascito inevaso” derivante dalla svolta della Bolognina e non affrontato neppure da Rifondazione Comunista, partendo da Gramsci.
Gramsci,infatti, rifonda l’autonomia del marxismo basandone le coordinate di fondo su di una “filosofia della prassi” divenuta sinonimo di produzione di soggettività politica, di critica della concezione del mondo della classe dominante ed elaborazione di un’ideologia congrua alle condizioni di vita dei gruppi sociali subalterni.
Con il recupero del motivo labriolano dell’autosufficienza teorica del marxismo, attraverso un’originale lettura delle tesi su Feuerbach Gramsci, infatti, aveva posto il tema della rifondazione dell’autonomia del marxismo basandola su di una “filosofia della prassi” diventata sinonimo di produzione di soggettività politica, di critica della concezione del mondo della classe dominante ed elaborazione di un’ideologia congrua alle condizioni di vita dei gruppi sociali subalterni.
Questo tipo di elaborazione consentì l’operazione portata avanti dal gruppo dirigente del Partito Comunista nell’immediato dopoguerra, per specifico impulso soprattutto di Palmiro Togliatti.
Perché Togliatti assunse, curandone la pubblicazione “in parte”, la linea compresa nei “Quaderni”?
Il prestigio acquisito dal PCI nell’organizzazione dell’antifascismo militante e nella guerra di Liberazione, nonché l’essenziale contributo dell’Unione Sovietica alla sconfitta del nazismo, furono all’origine, in quel periodo, di un rinnovato interesse per il marxismo.
La ripresa del marxismo, pur traendo alimento da forti referenti storico – sociali, fu processo non facile sul piano teorico.
Nell’URSS di Stalin, durante gli anni ’30 – ’40 la sintesi engelsiana del marxismo era stata trasformata in dottrina dello Stato fondata sull’opposizione tra teoria materialistica e teoria idealistica della conoscenza.
Le leggi scientifiche del materialismo storico furono considerate un’applicazione particolare del materialismo dialettico, in quanto filosofia che compendiava le leggi di movimento della realtà naturale e sociale.
La marxiana critica dell’economia politica fu sostituita da una scienza economica socialista capace di calcolare i prezzi e di allocare razionalmente le risorse nell’ambito di un sistema pianificato.
Le sorti del socialismo furono, così, identificate con i sostenuti ritmi di sviluppo delle forze produttive e i successi politici ed economici della “patria del socialismo” furono chiamati a verificare la validità della teoria marxista-leninista.
L’autonomia teorica del marxismo italiano, e di conseguenza della sua forma-partito, rispetto al quadro fin qui disegnato fu dunque avviata da Togliatti con la pubblicazione dei “Quaderni del Carcere” avvenuta tra il 1948 e il 1951: principiò, in allora, la costruzione di una genealogia del marxismo italiano (come ricordava parzialmente Galli della Loggia) partendo addirittura da Vico, passando da De Sanctis, Bertrando Spaventa, Labriola, Croce fino a pervenire a Gramsci.
Un partito come espressione di un “blocco storico” inteso come costruzione di una volontà collettiva egemonica, capace di esprimere l’unità di un processo reale.
Questa operazione culturale conseguì almeno tre risultati: mise in ombra il materialismo dialettico sovietico, fornì la piattaforma per l’elaborazione strategica del “partito nuovo” aprendo il solco teorico su cui basare la “via italiana al socialismo” tesa alla costruzione della “democrazia progressiva” e difendeva, infine, nel clima ideologico della guerra fredda, la continuità della cultura democratica progressista italiana, conquistando una generazione di intellettuali di cultura laica, storicista e umanistica a posizioni genericamente marxiste, senza provocare “lacerazioni troppo nette”.
Da questi punti di riferimento derivò anche la linea di comportamento del PCI all’interno della Costituente, la possibilità di varare la Costituzione anche quando comunisti e socialisti furono esclusi dal Governo, la scelta della centralità di un Parlamento che Togliatti intendeva come “specchio del Paese”.
Al primo convegno di studi gramsciani Eugenio Garin, Palmiro Togliatti e Cesare Luporini sottolinearono che Gramsci aveva tradotto in italiano l’eredità valida di Marx e che il suo pensiero era profondamente radicato nella cultura e nella realtà nazionale.
In quella sede fu fortemente criticato l’economicismo, attribuendo importanza alle ideologie e alla funzione degli intellettuali.
Gramsci collocava, infatti (almeno nella stesura togliattiana dei “Quaderni” antecedente all’edizione integrale curata da Gerratana nel 1977) la politica al vertice delle attività umane, sviluppando la dottrina leninista del partito estendendo lo storicismo integrale in direzione di un’originale teoria delle sovrastrutture e respingendo la teoria della conoscenza come riflesso.
La concezione del marxismo in Gramsci è quella di considerarlo non un metodo, ma una concezione del mondo rivolta a cogliere le possibilità storicamente date nella prassi sociale.
Il più valido spunto critico a questo tipo di impostazione venne, dopo il ’56 ,da Raniero Panzieri e dal gruppo dei “Quaderni Rossi”: Panzieri fu promotore di una riscoperta della democrazia consiliare e del primato del “soggetto classe” sul predicato partito, critico tanto dell’ideologia della stagnazione quanto dell’ideologia tecnocratica della programmazione, che riduceva la questione sociale a un problema tecnico e identificava il capitalismo con la società industriale e l’illimitato sviluppo della produttività.
Panzieri era fortemente critico con l’impostazione togliattiana della celebrazione del nazional-popolare, del recupero storico-culturale della tradizione democratica e soprattutto dello “scarto evidente, nei partiti storici della sinistra, fra il primato esteriore dell’ideologia e la pratica quotidiana di pura amministrazione”.
La scomparsa prematura di Panzieri, il disinteresse del PSI ormai impegnato nell’operazione centrosinistra (la “politique d’abord di Nenni) la debolezza teorica e politica dello PSIUP non consentirono a questi importanti spunti di analisi di rappresentare la base per una soggettività politica rappresentativa di un vero e proprio contraltare teorico allo storicismo togliattiano.
Spenti i fuochi dell’XI congresso e radiato il gruppo del “manifesto”non risultò in grado di aprire un confronto di fondo il punto di dibattito aperto ad iniziativa di quella che poi sarebbe stata definita “sinistra comunista”: iniziativa avviata essenzialmente grazie ad una riflessione di Rossana Rossanda e Lucio Magri .
I due fondatori del “Manifesto”rimproveravano, sostanzialmente, allo storicismo di aver oscurato il nocciolo teorico di Labriola e Gramsci (Magri riprende il tema nel “Sarto di Ulm”, altro testo fondamentale da confrontare soprattutto nella definizione del “genoma” Gramsci e per affrontare seriamente quello che appunto abbiamo definito come “lascito inevaso”) .
Secondo Magri e Rossanda nel post – togliattismo il marxismo era stato annacquato nel quadro di una tradizione dai contorni imprecisi . Il PCI nella fase turbinosa degli anni’60 aveva così stabilito un primato del politico sull’economico smarrendo il nesso tra teoria e prassi, tra scienza e storia, oscillando così tra il riferimento di una realtà di pura empiria (attribuita all’ala amendoliana del partito) e di un semplice finalismo volontaristico e non riuscendo ad individuare così lo svilupparsi di nuovi livelli di espressione della contraddizione di classe e di profonda modificazione nel rapporto tra struttura e sovrastruttura.
Entrambi i due punti di osservazione critica fin qui citati , quello dei “Quaderni Rossi” e quello del “Manifesto” affrontarono anche il nodo di fondo del rapporto tra il partito e la classe, mettendo in discussione la forma sostanziale del “centralismo democratico” e inerpicandosi per diversi sentieri nella ricerca della “via consiliare”. Non si riuscì però a realizzare un sufficientemente incisivo dato di contrasto e, alla fine, si scoprì che all’interno del PCI proprio il modello del “centralismo democratico” aveva scavato un vuoto di dibattito che risultò esiziale, nella contrapposizione delle mozioni, al momento di affrontare le proposta di scioglimento.
Dai “Quaderni Rossi”al “Manifesto” restarono così punti irrisolti di dibattito che forse avrebbero dovuto essere sviluppati con una capacità critica portata molto più a fondo di quanto non fu possibile concretamente realizzare in quel tempo.
Quegli spunti di dibattito appena citati incontrarono, del resto, limiti forti di vero e proprio politicismo che diede come frutto la linea del “compromesso storico”.
Politicismo esercitato al punto che, con gli anni’70, si sviluppò una sorta di “primato della politica” che portò, sulla base del prevalere del concetto di governabilità (prima di tutto applicato alle Regioni e agli Enti Locali, ignorando anche i segnali che da lì si erano levati nell’anticipazione della “questione morale”) al collasso della teoria: ben in precedenza alla stagione degli anni’80 che portò infine alla liquidazione del partito.
Torniamo però al rapporto tra marxismo e comunismo italiano.
Per questi motivi di fondo: autonomia teorica dal modello sovietico, primato della politica sull’economia senza alcuna visione meccanicistica in questo senso, assunzione della concezione gramsciana del rapporto tra struttura e sovrastruttura, sovrapposizione del partito alla classe (nella versione togliattiana del partito nuovo) il PCI è stato il soggetto politico egemone nella rappresentanza del comunismo italiano. Il resto (anche nella critica di Panzieri) ha ruotato attorno.
Vale allora la pena di capire meglio perchè, a distanza di tanti anni, sia ancora il caso di ragionare sul declino e l’accantonamento di quella forma politica.
Intendendo quest’analisi come paradigmatica di un declino complessivo di sistema, al punto che nel momento in cui scriviamo queste note (Maggio 2018) si evidenziano, nella situazione italiana, precisi segnali d’insorgenza fascista.
Dall'inizio degli anni'80 l'emergere di questioni e problemi sui quali sarebbe stato giusto sollecitare un più audace e coraggioso rinnovamento, furono, invece, assunti come fattori da interpretare in senso di una maggiore omologazione, sia nei comportamenti politici, sia negli orientamenti culturali e ideali che, in quel momento raccoglievano i più facili consensi finendo così con l’esaltare micidiali meccanismi d’individualismo “competitivo” e “consumistico”.
Cominciava, in sostanza, a far breccia, anche nel PCI o almeno in settori rilevanti del Partito, la grande offensiva ideale e politica neoconservatrice che, proprio in quegli anni'80, favorita del precipitare della crisi del sistema comunista in tutto l'Est europeo, sia dal logoramento e dall'esaurimento anche delle migliori esperienze socialdemocratiche dell'Europa Occidentale, si sviluppò con impeto in Europa come in America (sotto l'insegna del reaganian – tachterismo), e i paesi dell'Est come in quelli dell'Ovest.
Andò così maturando, anche nella realtà italiana, una sconfitta che, prima ancora che politica, risultò essere culturale e ideale.
IL PCI fu così liquidato in fretta, senza offrire ad alcuno la possibilità di riflettere su di un lascito teorico e politico che, a quel punto, si consentiva andasse completamente perduto mentre esistevano condizioni più che sufficienti per contrastare la deriva che si stava strumentalmente imponendo dopo la caduta del muro di Berlino.
In quel frangente rimase soprattutto soffocata l’idea della necessità di un partito capace insieme di sviluppare pedagogia, radicamento sociale, rappresentatività politica della classe, tutti gli elementi nella sua originalità di essere partito di massa il PCI aveva, certo con grande fatica e contraddizioni, comunque rappresentato.
Al compito di scavare davvero nel”lascito inevaso” del PCI si sottrasse presto “Rifondazione Comunista” il cui gruppo dirigente è stato impegnato fin da subito quasi esclusivamente sul terreno dell’autonomia del politico, con l’accettazione della personalizzazione e lo strano intreccio tra movimentismo e governo, il cui esito è stato la pratica cancellazione della presenza politica della sinistra d’alternativa in Italia, attraverso processi di successive scissioni (anche di tipo meramente e sterilmente ideologico, oppure di accentuazione nella logica d’esercizio dell’autonomia del politico).
La conseguenza non è stata soltanto quella della sparizione della sinistra d’alternativa a livello di rappresentanza istituzionale ma quella di un vero e proprio allontanamento dalla pratica politica di massa.
In sostanza all’interno di Rifondazione Comunista è stata accettata la tematica delle “moltitudini” (esemplare la scelta al riguardo del movimento “no global”) in luogo della ridefinizione di una visione delle fratture sociali viste in relazione al mutamento/allargamento della contraddizione di classe nel suo peso complessivo sulla società.
Del resto, da altri punti di vista, la ricerca si è sviluppata – esclusivamente, come nel caso del ” Gramsci “ – a giustificare semplicisticamente a posteriori l’operazione di liquidazione del PCI avvenuta esclusivamente nel segno dello “sblocco del sistema politico” e sotto l’incalzare dell’apparenza vincente del motto della “fine della storia”.
Il vuoto di analisi su ciò che stava accadendo attorno a noi e sull’esito delle scelte superficialmente compiute in quel frangente a cavallo tra gli anni’80 e ’90, hanno così costituito quel vuoto che, pur nella consapevolezza di un declino forse irreversibile già avviato nell’ultima fase della sua esistenza, il PCI ha lasciato.
Oggi, nella temperie inedita che stiamo attraversando può essere accettato il titolo dell’analisi di Negri di decostruzione e ricostruzione.
La condizione per realizzare quest’operazione rimane però quella di risolvere un interrogativo riguardante la possibilità di riattualizzazione di un confronto su quel lascito teorico e politico rappresentato da quella che è stata la forma politica egemone del comunismo italiano.
Rimane, infatti, da affrontare il vuoto storico e politico lasciato dallo scioglimento del PCI, non affrontato in seguito da un’adeguata e concreta rilettura critica posta sul terreno di affrontare il tema nel suo insieme.
Nell’idea del tornare a Marx, comunque, i due punti di partenza possibili per una rielaborazione teorica stanno dentro a due celebri frasi scritte dal filosofo di Treviri: “ i filosofi finora hanno descritto il mondo, adesso si tratta di cambiarlo” (proprio quella tesi 11 già richiamata all’inizio) e “il comunismo è il movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti”.
Oppure la ripresa di un vecchio motto. “Per il comunismo o non per meno”.

Franco Astengo

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