">
il pane e le rose

Font:

Posizione: Home > Archivio notizie > Imperialismo e guerra    (Visualizza la Mappa del sito )

Roma. Il Parlamento

Roma. Il Parlamento

(22 Novembre 2010) Enzo Apicella
Il vertice Nato di Lisbona decide di trasferire in Italia le atomiche americane che gli altri paesi europei non vogliono più

Tutte le vignette di Enzo Apicella

costruiamo un arete redazionale per il pane e le rose Libera TV

SITI WEB
(Il nuovo ordine mondiale è guerra)

Gli Stati imperialisti - grandi e piccoli - si preparano a sbranarsi

(28 Maggio 2018)

Nel mese di luglio del 2015 i membri permanenti delle Nazioni Unite, USA, Regno Unito, Francia Cina e Russia, insieme a Germania e Unione Europea firmarono un accordo con l’Iran, nella sigla in inglese Jcpoa, per la sospensione delle sanzioni economiche, che erano state imposte all’allora “Stato canaglia”, in contropartita all’abbandono del suo programma nucleare. Sospensione, non annullamento, un distinguo su cui giocheranno gli Usa anni dopo.

In quella fase la crisi economica internazionale particolarmente acuta premeva per allargare mercati e scambi, e necessità strategiche globali rendevano opportuna nell’area se non una pacificazione, almeno una tregua.

Nemmeno tre anni dopo il governo degli Stati Uniti d’America ha ritenuto opportuno, cambiato il figurante sul proscenio, denunciare quegli accordi fino a renderli carta straccia; senza che, per altro, ci fossero delle evidenti documentate violazioni ai termini di quell’accordo da parte dell’Iran. Ma questo è sembrato un insignificante dettaglio, e di fatto lo è: fra gli Stati è la forza che decide cosa è vero e cosa è falso.

L’accordo, solennemente sancito a livello ONU, è diventato un’arma in mano agli Usa: le imprese non americane che intrattengono rapporti commerciali o finanziari con l’Iran, saranno sottoposte ad un regime di sanzioni – dette “secondarie” – a totale arbitrio Usa. È evidente che non siamo in presenza di controversie legali mediabili dal “diritto internazionale”, che è e resta uno strumento e una finzione per nascondere lo strapotere dei massimi Stati imperialistici.

Questi i nudi fatti, che non sono certo “un’alzata di capo” di un incompetente capo politico estremista e guerrafondaio, come tanti babbei democratici definiscono l’attuale presidente americano. La brutale posizione americana ha in realtà le sue radici nella dinamica dello sviluppo della crisi mondiale del capitale, economica, finanziaria e politica.

Ciò che tre anni fa era una situazione ancora fluida, tra scelte su interventi militari o politici nell’area calda mediorientale, dopo le avventure belliche in Iraq e le loro conseguenze, mentre a livello economico ancora si dovevano ben definire i rapporti commerciali tra USA, Unione Europea, Russia e Cina, in questo tempo presente il procedere degli eventi spinge il più forte imperialismo a rompere il “patto”, perché, nella sostanza, contrario ai suoi interessi.

Due quindi sono i piani su cui si è determinata la decisione di uscirne.

Uno, strettamente geopolitico ha sicuramente l’obiettivo di rassicurare i principali alleati degli Usa nell’area, Israele e Arabia Saudita, i quali, al di là delle tradizionali e immutate contrapposizioni religiose, in virtù dell’oggettiva convergenza sulla Siria e della comune ostilità all’Iran, vedono i loro rapporti avviati sulla traiettoria di una progressiva normalizzazione. È il contenimento politico dell’Iran che si lega a quello anche militare della Russia, con la Cina convitato di pietra.

L’altro è lo scontro commerciale che inizia ad opporre gli Usa al resto delle economie mondiali; e questo anche nei confronti di alleati militari, economici e finanziari sicuri fino all’altro ieri

Nel valutare le conseguenze economiche del ripristino delle sanzioni contro Teheran in vigore prima dell’accordo raggiunto nel 2015, occorre infatti tenere presente le conseguenze per i paesi dell’Unione Europea, i quali dopo il 2015 avevano dato enorme impulso ai rapporti economici con l’Iran, del resto mai venuti meno del tutto neanche ai tempi delle sanzioni. Si tratta proprio di quegli stessi paesi europei che sono stati bersaglio della svolta protezionista imposta di recente dal governo statunitense. Attraverso la paventata introduzione di dazi, che impongono trattative commerciali separate di volta in volta con i singoli Stati, mira a sconquassare quanto resta della malferma e fragile coesione europea, messa già a dura prova dalla crisi iniziata nel 2008.

Ora, secondo i dettami della Casa Bianca, le imprese europee avranno un breve periodo, 90 o 180 giorni, per allinearsi alle sanzioni contro l’Iran se non vogliono incorrere nelle pesanti penalizzazioni nel commercio con gli Stati Uniti. Vengono rimessi così in discussione contratti per molti miliardi di dollari, e questo mette in urto diversi governi europei con il governo degli Stati Uniti, mentre questi resterebbero al riparo dalle conseguenze delle sanzioni dato che non importano idrocarburi dall’Iran, non hanno effettuato investimenti diretti di rilievo nel paese e l’interscambio commerciale resta a un livello molto basso.

Il presidente francese Macron ha tentato inutilmente nel suo viaggio in USA di “convincere” il presidente Trump a revocare, o almeno allentare i vincoli delle sanzioni; in seguito anche i leader di Germania ed Inghilterra hanno cercato, con nessun effetto sostanziale, di opporsi al diktat americano. Più una protesta di facciata, che una concreta iniziativa.

In termini commerciali la decisione americana avrebbe effetti gravissimi sulle principali economie mondiali. La Francia potrebbe vedere sfumare alcuni accordi di dimensioni gigantesche come quello da un miliardo di dollari sottoscritto dalla Total per lo sfruttamento di un giacimento offshore di gas naturale, o la joint venture nata dalla collaborazione fra la Renault e l’iraniana Idro per la produzione di 150.000 veicoli l’anno i quali si aggiungono ai 200.000 veicoli prodotti dalla stessa casa automobilistica francese in Iran. Anche altri paesi europei dovranno fare i conti col ripristino delle sanzioni. La Germania aveva riavviato le esportazioni di macchine utensili, auto Volkswagen, camion Mercedes, mentre la Siemens aveva raggiunto un accordo per ammodernare la rete ferroviaria iraniana. L’Italia vedrebbe minacciato l’interscambio per un valore di 5 miliardi di dollari con 2 miliardi di saldo attivo. Inoltre potrebbe sfumare un piano per il rifinanziamento delle banche iraniane di 5 miliardi di euro. Secondo quanto titolava “il Sole 24 Ore” il 10 maggio scorso l’Italia potrebbe perdere 30 miliardi fra accordi commerciali e interscambio con l’Iran.

È in pericolo anche la supercommessa riguardante l’Airbus (consorzio che vede presenti Regno Unito, Francia, Germania e Spagna) per 110 aerei di cui finora sono stati consegnati soltanto 3 e della franco-italiana Atr che dovrebbe consegnare altri 12 aerei entro la fine di quest’anno.

Intanto sulla scena economica iraniana si profila la presenza sempre più ingombrante della Cina, pronta a occupare lo spazio che libererebbero le potenze occidentali. La Cina vanta già strettissimi rapporti economici con l’Iran: ne è il principale acquirente di petrolio con una media di 900.000 barili al giorno nel 2016, mentre sta realizzando un progetto da 2,5 miliardi di dollari per il rifacimento della linea ferroviaria fra Teheran e Mashhad.

Inutile starsi a domandare cosa ne sarebbe di questi contratti e di queste promettenti prospettive commerciali per i paesi europei se essi si mostrassero disposti a subire le imposizioni di Washington. Conta il peso politico ed economico, la capacità di condurre un negoziato, seppur difficile, invece di uno scontro aperto tra ex alleati, dalle prospettive terribili.

Insomma siamo di fronte ad un aperto atto di guerra, per adesso commerciale, fra i massimi briganti imperiali. Che si stia cercando lo sconto fra le grandi concentrazioni del capitale lo conferma la provocatoria apertura della sede diplomatica americana a Gerusalemme. Tutto atteso, tutto come non poteva non essere. Già all’inizio del ciclo, in tempo di “coesistenza pacifica”, affermammo: è scritto che le nazioni si sbranino.

Ancora una volta ciò che comanda nelle dinamiche tra Stati ed economie nazionali è lo sviluppo della crisi capitalistica mondiale. È quindi presto per dire se i principali paesi europei, e in primo luogo Francia e Germania, riusciranno a trovare un minimo comune denominatore per fare fronte alle pretese statunitensi, ma è significativa la dichiarazione del cancelliere tedesco Angela Merkel del 10 maggio, secondo la quale l’Europa “non può pensare che gli Usa la difenderanno” – e qui di nuovo odore di guerra imperiale – e che l’UE “deve prendere il proprio destino nelle sue mani”.

Questo è “bello e solenne”. Se non fosse che l’UE è un coacervo politico e finanziario dilaniato da spinte nazionalistiche e fondato su un “equivoco di base”, la pretesa di una unione economica e finanziaria stretta senza unità politica.

Ma di “sovranazionale”, anzi, alla base del superamento del ciclo storico delle nazioni, c’è soltanto, al termine di un non breve trapasso rivoluzionario, l’internazionalismo proletario.

Per ora lo scontro che sta iniziando è tra le gigantesche belve statali, che si preparano ad azzannarsi alla gola per sopravvivere alla crisi mortale del modo di produzione capitalistico.

PARTITO COMUNISTA INTERNAZIONALE

6411