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Moody's vivendi

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(18 Maggio 2010) Enzo Apicella
Dopo la guerra finanziaria guidata dall'agenzia di rating Moody's, in Grecia ha inizio il massacro di salari e pensioni

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La Cgil verso il suo 18° congresso

Ipocrisie e menzogne di un sindacato di regime

(11 Giugno 2018)

Il Comitato Direttivo Nazionale della Cgil del 16 e 17 gennaio aveva approvato, come da statuto a maggioranza dei ¾, il Regolamento per il diciottesimo congresso dell’organizzazione. Il Comitato Direttivo del 9 e 10 marzo ha eletto una “commissione politica” di 52 membri che il 30 marzo ha licenziato una bozza di documento congressuale – “Traccia di discussione per Assemblee Generali” – intitolata “Il lavoro è”.

Nei mesi di aprile e maggio questa bozza è stata discussa nelle Assemblee Generali, ai vari livelli territoriali e di categoria, e ciascuna ha inviato una sintesi della discussione che dovrebbe servire alla definizione del documento definitivo. Al Comitato Direttivo Nazionale di fine maggio saranno presentati eventuali documenti alternativi e quello successivo di una settimana (6-7 giugno) licenzierà i documenti definitivi. Le assemblee congressuali di base inizieranno il 20 giugno e il congresso terminerà con la sua assise nazionale a Bari a fine gennaio 2019.

L’Assemblea Generale è un nuovo organismo istituito dalla V Conferenza d’Organizzazione della Cgil del settembre 2015 [“La V Conferenza di Organizzazione della Cgil”, presente a tutti i livelli territoriali e di categoria, composto a maggioranza di delegati ed attivisti per un numero complessivo non superiore al doppio di quello del Comitato Direttivo. Attualmente è composta da circa 330 elementi. Insieme al Comitato Direttivo Nazionale ed al Congresso, questo nuovo organismo è uno dei tre deliberativi del sindacato. Viene eletto dal Congresso garantendo alle diverse aree congressuali le stesse proporzioni presenti nei direttivi. L’unica funzione reale affidatagli è quella di eleggere segretari e segreterie nazionali di categoria e confederale. Nella opinione, che ci pare condivisibile, dell’area di opposizione di sinistra “Il sindacato è un’altra cosa” si tratta di un doppione dei Comitati Direttivi istituito per dare alla Cgil un lustro di democraticità interna.

Questo nuovo organismo si è riunito sino ad oggi tre volte. La prima nel settembre 2016 è stata segnata dalla riappacificazione fra la maggioranza e l’altra minoranza di sinistra denominata “Democrazia e Lavoro”.

Questa era nata dalla disgregazione dell’area congressuale “La Cgil che vogliamo” del XVI Congresso del 2010, in cui si trovava insieme alla corrente che poi ha formato “Il sindacato è un’altra cosa”.

“Democrazia e Lavoro”, più numerosa ed influente di “Il sindacato è un’altra cosa”, al XVII Congresso, nel 2014, inizialmente si limitò a emendare il documento maggioritario ma infine ruppe con la maggioranza e presentò un documento alternativo. Ancora un anno dopo uno dei suoi principali esponenti, Rinaldini (ex segretario Fiom), definì “inutile e dannosa” la V Conferenza d’Organizzazione sopra citata ed affermò che il futuro congresso – quello in essere – non avrebbe potuto che svolgersi su mozioni contrapposte e che quindi sarebbe stata «decisiva la definizione delle regole congressuali che dovranno voltare pagina rispetto alle modalità di svolgimento dei congressi passati (...) è finita la storia di Congressi dove dall’inizio si conoscono i risultati finali e dove la democrazia è un optional in mano ai gruppi dirigenti». E ammonì: «Non saprei dire se tale irresponsabilità abbia messo in conto la possibilità di avere norme congressuali votate a maggioranza, che determinerebbe il deflagrare della Cgil stessa».

Queste affermazioni, evidentemente molto gravi, solo un anno dopo, in occasione della prima Assemblea Generale, cadevano nel dimenticatoio e il Coordinatore Nazionale di “Democrazia e Lavoro”, Nicolosi, scriveva nel n. 15 di “Progetto e Lavoro”, il periodico della minoranza: «I giorni 7-8 settembre [2016] si è svolta la prima Assemblea Generale CGIL, nuovo organismo deciso dall’ultima Conferenza di Organizzazione (...) Non vorrei apparire retorico, ma i temi in questione hanno agitato gli animi e aperta una nuova fase di confronto dopo la frattura politica determinatasi con lo scorso congresso nazionale di Rimini [il XVII nel 2014]. Le scelte politiche dell’ultimo anno della CGIL [la raccolta delle firme per i referendum e per il nuovo Statuto dei lavoratori e l’indicazione di votare “no” al referendum sulle modifiche alla Costituzione; ndr] (...) hanno nei fatti archiviato il Congresso del 2014 compreso il suo corollario di polemiche! (...) Ancora, tra le decisioni dell’Assemblea Generale quella del superamento delle fratture del 2014 e l’avvio di una fase a più tappe per arrivare al governo unitario della CGIL dove rinnovamento si coniuga con pluralismo e esperienza (...) La CGIL recupera il suo ruolo di protagonista nella vita politica e sociale del Paese».

L’Assemblea Generale della Cgil è quindi stata convocata per la seconda volta soli due mesi dopo la prima, il 27 e 28 novembre 2016, per sancire il nuovo “governo unitario” del sindacato con l’elezione della nuova segreteria nazionale confederale, e la terza il 10 ed 11 luglio 2017 per includervi Landini, su proposta della Camusso, quale meritato compenso – diciamo noi – per la sua opera disfattista delle forze operaie svolta in qualità di segretario generale della Fiom dal giugno 2010, cioè dall’accordo di Pomigliano, fino al nuovo contratto nazionale – unitario – dei metalmeccanici del dicembre 2016 [Si legga “L’opposizione di facciata della Fiom spalleggia il corporativismo della Cgil”.

Si consideri che i capi di “Democrazia e Lavoro” a settembre 2016 salutavano entusiasticamente l’approdo al «governo unitario della Cgil dove rinnovamento si coniuga con pluralismo e esperienza» dopo che soli tre mesi prima, a giugno, si era conclusa la vicenda dei cosiddetti “incompatibili”, cioè di quel gruppo di delegati Fiom in FCA (FIAT) dichiarati tali dal Collegio Statutario della Cgil per aver costituito insieme a militanti dello Slai Cobas, dell’Usb e della Flmu Cub un “Coordinamento lavoratrici e lavoratori della Fca nel Centro-Sud” [vedi “Premesse alla trattativa per il contratto”]. L’epilogo di quella vicenda fu la fuoriuscita di una parte di questi militanti e delegati dalla Cgil e l’approdo della maggioranza di essi all’Usb, e con loro di quello che era stato fino ad allora il portavoce nazionale dell’area “Il sindacato è un’altra cosa” – Bellavita – che fino al 2012 era stato anche membro della segreteria nazionale Fiom.

Il prossimo congresso si svolgerà quindi grosso modo nei termini del precedente, vedendo al documento di maggioranza contrapposto solo un altro documento ad opera dell’area de “Il sindacato è un’altra cosa”, che ha potuto presentarlo in virtù della presenza di suoi 5 elementi nel Comitato Direttivo Nazionale, raggiungendo la soglia del 3%, stabilita dal regolamento congressuale.

Oltre a questa, il regolamento prevede altre 5 possibili vie per presentare documenti alternativi, di cui qui ci limitiamo a citare l’ultima (punto 1.7.2 lettera “e”), cioè che sia sottoscritto da almeno 75.000 iscritti. Se prendiamo per buona la cifra di 5 milioni e mezzo di iscritti (oltre la metà pensionati), dichiarati dalla Cgil nel 2017, si tratta del 4,1% degli aderenti al sindacato. Chiaramente una soglia difficile da superare. È interessante fare il confronto con il regolamento congressuale della Unione Sindacale di Base, sia dell’ultimo (2016) che del primo (2013), il quale ha escluso tout court ogni possibilità di presentazioni di documenti alternativi [“L’USB al suo secondo Congresso nazionale - Un nuovo congresso a mozione unica”].

Nel prendere in esame la bozza del documento congressuale di maggioranza per il venturo Congresso Cgil faremo ulteriori parallelismi con l’Unione Sindacale di Base perché questo ci offre la possibilità di meglio chiarire la nostra critica agli uni e agli altri e il nostro indirizzo sindacale generale che è in Italia quello di ricostruire il sindacato di classe “fuori e contro” la Cgil e gli altri sindacati di regime.

Il “Sindacato della contrattazione”

Il primo dato che emerge dalla lettura della bozza di mozione congressuale è quello che giustamente è stata evidenziato durante l’Assemblea Nazionale dei delegati Fiom a Roma il 5 e 6 aprile negli interventi di un delegato e di due dirigenti dell’area “Il sindacato è un’altra cosa”: nelle 14 pagine del documento non compare una sola volta la parola “sciopero”. Basti questo dato a qualificare la natura collaborazionista e “di regime” della Cgil.

D’altronde ciò è in perfetta coerenza con l’azione del più grande sindacato d’Italia: a fronte della peggiore controriforma del sistema previdenziale (la cosiddetta “legge Fornero” del dicembre 2012) nella storia dell’Italia borghese ha promosso 3 ore di sciopero; a fronte del cosiddetto Jobs Act ne ha promosse 8, ma a legge approvata da 9 giorni; a fronte di 6 anni di blocco contrattuale per i lavoratori del pubblico impiego ha chiuso i rinnovi contrattuali con due anni di ritardo rispetto la scadenza senza nemmeno un’ora di sciopero.

La sua maggioranza definisce la Cgil un “sindacato della contrattazione”, come che si legge nel documento del 28 febbraio scorso, intitolato “Per una Cgil unita e plurale - Contributo al dibattito congressuale”, redatto da “Lavoro Società”, l’area “di sinistra” più a destra nella Cgil, che si definisce “sinistra sindacale confederale” ed “aggregazione (...) nell’ambito della maggioranza congressuale”.

E se nella “Traccia di discussione per Assemblee Generali” non compare una sola volta la parola “sciopero”, quella “contrattazione” si conta invece ben 15 volte: «Negli anni che abbiamo alle spalle abbiamo praticato tanta contrattazione (...) La ragione d’essere fondamentale di un sindacato confederale è la contrattazione (...) La contrattazione per lo sviluppo sostenibile e il lavoro è il nostro obiettivo strategico», ecc. ecc.

L’idea di fondo è che lavoratori e capitalisti – Lavoro e Capitale – non siano, come sostiene il marxismo, contrapposti da interessi inconciliabili, che si possa difendere una parte o l’altra ma non entrambe, che ciò che conta sono quindi solo i rapporti di forza, ma, al contrario, che sia possibile una collaborazione a vantaggio di entrambe le parti, di entrambe le classi sociali, finalizzata allo “sviluppo”.

Questa è l’idea propria del riformismo, dominante nella Cgil fin dalla sua ricostruzione “dall’alto” sul finire della seconda guerra mondiale. Se nei primi decenni del dopoguerra vi era tutta una tradizione classista nel sindacato e nella classe che impediva l’enunciazione della sindacalismo collaborazionista in termini tanto espliciti – e che giustificava l’adesione dei compagni del nostro partito alla Cgil e la nostra battaglia interna – compiuta l’opera, da parte del riformismo, di sradicamento dei principi e dei metodi della lotta di classe, il linguaggio ha potuto farsi sempre più coerente con quella idea, al punto che oggi termini quali “sciopero” o “lotta” non vengono nemmeno più pronunciati, vuoi perché se ne ha paura, vuoi perché estranei alla reale pratica di quel sindacato e in fondo, quindi, per loro, inutili.

Non “sindacato di lotta”, quindi, ma “di contrattazione”. Non “di classe” ma “di regime”, diciamo noi.

A dir loro basterebbe sedersi al tavolo, ragionare, essere competenti per proporre soluzioni utili a entrambe le parti e così difendere anche i lavoratori. Non è così, e lo dimostrano i fatti. Tutti i rinnovi contrattuali da decenni sono a perdere e quelli dell’ultimo triennio, dal Jobs Act in avanti, in particolar modo [“I rinnovi contrattuali dopo il Jobs Act”], con aumenti salariali infimi, ben al di sotto il recupero del potere d’acquisto perso, con la possibile revoca della rata annuale dell’aumento nel caso si verifichi che l’indice inflattivo sia stato minore rispetto alle previsioni (come verificatosi nel commercio). Il rinnovo contrattuale per i lavoratori dei comparti della pubblica amministrazione è stato emblematico, con aumenti allo stesso misero livello delle categorie del privato ma giunti dopo 6 anni di blocco salariale.

Il coerente indirizzo pratico del “sindacato di contrattazione” è quello di scioperare il meno possibile, nella idea fondante la collaborazione fra capitale e lavoro che non basti “dire no” ai piani padronali che danneggiano i lavoratori, non sia sufficiente “attestarsi” sulla difesa del salario e delle altre condizioni d’impiego e di lavoro, ma occorra “avanzare proposte” che si vorrebbero a vantaggio di ambo le parti, secondo il motto “la protesta non basta, ci vuole la proposta”.

Ma i fatti hanno la testa dura e pongono la classe operaia di fronte all’ineluttabile problema che il Capitale richiede di aumentare sempre più lo sfruttamento dei lavoratori. Quindi il sindacalismo di regime deve ricorrere alla fantasia per escogitare proposte “innovative”. Sul piano della contrattazione aziendale e di categoria ne è un esempio quello dell’inserimento di quote del “welfare contrattuale”, aziendale e di categoria, nelle voci che compongono l’aumento salariale o, ancor peggio, della assegnazione di una parte degli aumenti contrattuali sotto forma di buoni acquisto, come avvenuto per il contratto integrativo aziendale in Fincantieri del luglio 2016 e per quello di categoria dei metalmeccanici del novembre successivo.

Sul piano confederale la proposta della Cgil è negli ultimi anni consistita in un piano per una “nuova politica industriale, sociale e ambientale, fondate su una nuova politica fiscale”, da proporre al parlamento e ai governi, denominato “Piano lavoro”, e in una proposta di legge di iniziativa popolare titolata “Carta dei Diritti Universali del Lavoro”. Si legge nella premessa della bozza di documento: «Non ci siamo limitati al conflitto e alla difesa, abbiamo scelto la strada della creazione di un’altra proposta di sistema come il Piano del Lavoro, elaborando la nostra proposta di legge di iniziativa popolare: la Carta dei Diritti Universali del Lavoro». Atti entrambi rimasti nulla più che sulla carta ma per i quali la Cgil ha organizzato raccolte di firme, votazioni interne e manifestazioni, pretendendo di dissimulare con questo attivismo artefatto il suo immobilismo sul piano degli scioperi.

Qui è opportuno un altro confronto con l’Usb, dato che anche questo sindacato di base si è impegnato in raccolte di firme volte a presentare leggi di iniziativa popolare sulle più disparate questioni, da quella della cosiddetta rappresentanza sindacale fino a, da ultimo, l’eliminazione dalla costituzione del pareggio di bilancio, obiettivo sostenuto anche dalla maggioranza Cgil.

Il fatto che tutte queste iniziative cadano nel vuoto, poi nel dimenticatoio è una palese dimostrazione di come gli obiettivi che interessano la classe lavoratrice possano essere conquistati solo con la forza della lotta, più precisamente dello sciopero. Questi metodi, che partono dalla raccolta di firme per affidarsi all’azione parlamentare o al voto referendario, cioè dei cittadini al di sopra delle divisioni di classe, disperdono le energie dei militanti e diseducano la classe lavoratrice allontanandola dai suoi veri metodi di lotta, sviata dalla necessaria sua organizzazione pratica e dalla crescente esperienza degli scontri passati.

Quando queste pratiche interclassiste non cadono nel vuoto si rivelano ancora più dannose offrendo al regime borghese l’opportunità per intervenire su quella data materia, riguardante la classe operaia e il movimento sindacale, nei termini ad esso vantaggiosi. Che che potrebbe verificarsi, ad esempio, per quanto riguarda la questione della rappresentanza sindacale.

Nenia socialdemocratica

Il documento stila quindi gli obiettivi che si propone di perseguire la Cgil. Emerge però subito il loro prevalente carattere interclassista, una lista di richieste da rivolgere ai futuri governi che invoca una “nuova” politica economica, più simile al programma di un qualunque partito borghese che a quello di un sindacato. Al fine della difesa della classe lavoratrice si chiede l’appoggio di partiti parlamentari, nella sfiducia della capacità del movimento operaio di sviluppare una forza tale da costringere parlamenti e governi a legiferare in senso favorevole ai lavoratori.

Anche qui merita fare una comparazione col documento – unico – del secondo congresso dell’Usb: negli obiettivi di politica economica non si ha una opposizione fra Cgil ed Usb, quanto una parziale differenziazione all’interno dello stesso solco ideologico. Banalmente, infatti, da entrambe le pari null’altro si tratta che di invocare il ritorno a politiche economiche – borghesi e capitaliste – keynesiane, ossia d’intervento statale in economia, in contrapposizione al cosiddetto neoliberismo – ugualmente borghese e capitalista – al fine di giungere ad un preteso diverso “modello di sviluppo”. Si dà ad intendere alla classe operaia che avrebbe sì da perdere col “liberalismo” ma da guadagnare solo accucciandosi ai piedi del borghese Stato “interventista”.

Leggiamo dalla bozza del documento Cgil: «L’Italia non deve essere condannata all’esercizio della sostenibilità finanziaria, riducendo il perimetro pubblico e adottando politiche di austerità – come il pareggio di bilancio che chiediamo di cancellare (...) Questo significa selezionare e governare le politiche economiche secondo un modello alternativo, sostenibile, di crescita, sviluppo e giustizia sociale (...) Occorre cambiare radicalmente il quadro delle politiche economiche e dotarsi di due strumenti: un piano di investimenti pubblici (...) e il governo e la selezione delle politiche, affermando il ruolo dello Stato protagonista e attore dei cambiamenti. Occorre creare un nuovo strumento pubblico di governo delle politiche di sviluppo industriale, una nuova IRI o Agenzia per lo Sviluppo Industriale”.

Si vorrebbe illudere che lo Stato del capitale sia immune, al di sopra, dalla crisi del capitale e lo possa, a sua “scelta”, salvare. Se c’è una generale e mondiale sovrapproduzione di merci, non sarà trasferire la proprietà di un’acciaieria da un privato allo Stato che la potrà risolvere. Il nostro problema non è far funzionare il capitalismo, il che è impossibile, ma strappare con la forza dell’organizzazione e della lotta una maggior quota di ricchezza sociale dalla classe dei borghesi a quella dei proletari.

La principale differenza fra le linee maggioritarie nei due sindacati non sta nelle misure di politica economica alle quali le dirigenze dei due sindacati pensano si debba affidare, più che all’azione di lotta, la tutela degli interessi economici dei lavoratori, ma nel percorso che costoro credono necessario per giungere a quel “quadro politico” che, a dir loro, consentirebbe l’applicazione di tali misure. E il problema della definizione di tale percorso ruota, secondo costoro, attorno a una delle principali, e sempre equivoche, alternative su cui si aggroviglia l’attuale politica della sempre spregevole borghesia italica: quella cioè della sua collocazione internazionale, qui in particolare nell’Unione Europea. Mentre per la maggioranza Cgil è necessario «riconciliare l’Europa economica e l’Europa sociale per un nuovo modello sostenibile e inclusivo, di integrazione, attraverso il rafforzamento della legittimità democratica delle istituzioni europee», cioè riformare l’Unione Europea, per i dirigenti dell’Usb bisognerebbe «spezzare la gabbia dell’Unione Europea», col che, senza tema del ridicolo, definiscono se stessi “rivoluzionari”.

A parte il fatto che ogni borghesia deciderà come saltare il fosso fra i campi mondiali quando riterrà utile ai suoi meschini e sporchi traffici, entrambe le “scelte” ai fini della difesa della classe lavoratrice sono destinate con sicurezza al fallimento [“Contro la parola d’ordine di uscita dall’Euro dall’Europa dalla Nato”]. In ciascun paese della Unione Europea la politica dei governi rimarrà antioperaia sia che esso ne resti membro sia che ne esca perché ad imporre lo sfruttamento e la miseria della classe lavoratrice non è la cosiddetta “Troika”, se non ad una lettura superficiale del problema, comoda all’opportunismo, ma sono le leggi economiche del capitalismo e il corso, catastrofico, della sua crisi.

Il ritorno a una condizione di maggior intervento statale in economica e nei servizi sociali sarà eventualmente intrapreso dai regimi politici capitalisti per gestire la drammatica miseria e povertà a cui il capitalismo condurrà la classe operaia di tutto il mondo, e ciò per cercare di ostacolare la lotta di classe e scongiurare la rivoluzione, non certo per compiere un passo dal capitalismo in direzione del socialismo. Se e nella misura in cui ciò si verificherà segnerà l’approssimarsi di un nuovo conflitto bellico mondiale fra massimi imperialismi e capitalismi, accompagnandosi a provvedimenti protezionistici e alla propaganda nazionalistica. Elementi che indubbiamente vediamo già in nuce [“Minacce di dazi commerciali già smentiscono le illusioni borghesi di un imperialismo senza guerre”.

Riguardo le differenze negli obiettivi di politica economica avanzate dalle due organizzazioni sindacali qui a confronto appare solo una maggiore “radicalità” nel linguaggio dell’Usb. L’esempio forse centrale è quello della nazionalizzazione delle imprese che entrambe le parti definiscono “strategiche per il paese” («un vero e proprio Programma Nazionale di Sviluppo per affermare filiere economiche strategiche per il Paese», invoca il documento Cgil). Rivendicazione in merito alla quale abbiamo recentemente scritto [“Le crisi aziendali e la richiesta delle nazionalizzazioni”], spiegandone la dannosità ai fini sia della lotta politica per il comunismo sia di quella sindacale. La Cgil non avanza questo obiettivo in generale, ad esempio non lo ha fatto per l’ILVA e l’Alitalia ma non è affatto da escludere che anche il maggior sindacato di regime d’Italia torni a sostenere questo equivoco obiettivo falsamente radicale quanto falsamente di carattere socialista; lo mostra la citazione riportata in cui si auspica una “nuova IRI”.

Equivoci obiettivi

Sul piano della politica economica quindi, ripetiamo, contigue sono le posizioni delle maggioranze delle due organizzazioni sindacali sfumando le une nelle altre, a seconda delle circostanze. Del resto entrambe derivano dallo stesso ceppo politico, quello del socialsciovinismo e dello stalinismo ed oggi sono ascrivibili appieno al campo borghese, organizzate in formazioni partitiche differenti ed avverse solo per la loro natura opportunista ma destinate a tornare a far fronte comune.

È quando dal cielo della politica economica si scende coi piedi sul terreno delle rivendicazioni sindacali che una qualche distanza fra i due sindacati si fa visibile ed affiora l’irrevocabile e smaccato collaborazionismo sindacale della Cgil. Su questo terreno la bozza di documento congressuale della maggioranza Cgil è più avara di argomenti ma quei pochi indicano chiaramente la direzione di marcia.

Intanto va detto come il documento della Cgil abbia la spudoratezza di “denunciare” la “gravità” dei provvedimenti quali la riforma delle pensioni Fornero ed il Jobs Act senza accennare alla nessunissima critica della Cgil al momento della loro approvazione, al contrario cantandone le lodi.

Sul piano degli indirizzi prettamente sindacali più importanti sono i seguenti.

a) Orario

La bozza di documento avanza la rivendicazione della riduzione dell’orario di lavoro in questi termini intricati: «La riduzione generalizzata degli orari e del tempo di lavoro, finalizzando la redistribuzione dell’orario a favore dell’occupazione e della qualità del lavoro, la conciliazione dei tempi di vita, devono =diventare assi strategici dell’azione rivendicativa della Cgil. Ciò significa – anche a fronte dei processi di innovazione tecnologica e organizzativa – perseguire una riduzione degli orari contrattuali e di fatto, regolamentare tempi di lavoro che assicurino da un lato maggiore flessibilità e dall’altro più ampi margini di autonomia nella gestione dell’attività lavorativa finalizzata al risultato, certezza dei tempi di connessione e di lavoro reale, oltre che il diritto alla disconnessione e al tempo libero e il diritto permanente e soggettivo alla formazione e all’aggiornamento professionale retribuito, la sperimentazione nei contratti nazionali di modalità innovative di riduzione o modifica dell’orario – anche temporanee – di lavoro individuale su base giornaliera e settimanale».

La chiave per capire dove si vuole andare a parare sta nelle ultime righe: «sperimentazione nei contratti nazionali di modalità innovative di riduzione o modifica dell’orario». E serve anche leggere quanto a proposito è scritto nel “Contributo al dibattito” congressuale del Coordinatore nazionale di “Democrazia e Lavoro”, Nicolosi, che indica la strada di «una forte riduzione dell’orario complessivo di vita, mantenendo la retribuzione, intervenendo non solo sull’orario giornaliero, settimanale e mensile, ma anche su quello annuale e quello complessivo di vita, abbassando l’età di pensionamento, prevedendo periodi di formazione permanente e periodi sabbatici per esigenze familiari, di istruzione e di vita».

Si tratterebbe cioè di una riduzione dell’orario per finta, secondo il modello offerto dall’accordo siglato il 5 febbraio scorso in Germania dal sindacato metalmeccanico IG Metal, che ha avuto ampio riscontro sulla stampa sia borghese sia sindacale in Italia e che abbiamo commentato sull’ultimo numero del nostro giornale [“Accordo IG-Metall. Operai flessibili per il padrone”].

Comunque sul tema della riduzione dell’orario la bozza di documento chiude mettendo le mani avanti: «Tutto questo necessita di un quadro legislativo e fiscale di sostegno». Cioè, al solito, si invoca il sostegno governativo (defiscalizzazione e decontribuzione, pagate dalla classe salariata nel suo complesso) – non certo la lotta operaia – per poter “fare contrattazione” con questo obiettivo. E se questo “sostegno” dovesse non giungere si potrà sempre dar la colpa alla “politica”.

b) Salario

Secondo argomento sindacale sollevato dal documento è quello salariale. Si indica la strada di “una nuova politica salariale” e si afferma che «l’incremento del valore reale dei salari deve essere conseguito sia attraverso la contrattazione collettiva che attraverso la leva fiscale e con politiche che non fondino i loro presupposti su bonus, elargizioni occasionali o la diffusione di forme private di welfare».

Da un lato quindi si invoca ancora l’intervento governativo, ed ancora attraverso riduzioni del carico fiscale che, ribadiamo, in assenza di una lotta generale per aumenti salariali, vanno a ricadere sulle spalle della classe salariata. Dall’altro si indica la via della contrattazione collettiva ma evitando accuratamente di far riferimento a quanto ottenuto nei rinnovi contrattuali degli ultimi tre anni, tutti con aumenti che non hanno recuperato il potere d’acquisto perduto, in particolar modo quelli del pubblico impiego. E ci si guarda bene dal far notare che proprio la contrattazione collettiva portata avanti dalla Cgil, insieme a Cisl e Uil, ha contribuito alla “diffusione di forme private di welfare” includendo parti crescenti relative al cosiddetto “welfare contrattuale” (aziendale e di categoria).

Nel documento in esame ripetutamente viene indicata l’importanza della “confederalità”. Ma questa non è certo intesa come unificazione delle lotte al di sopra delle divisioni aziendali e di categoria per obiettivi quali forti aumenti salariali, maggiori per i lavoratori peggio pagati, e la riduzione generalizzata dell’orario di lavoro a parità di salario.

Tutti i rinnovi contrattuali cui abbiamo qui fatto riferimento, quelli cioè successivi all’approvazione del Jobs Act, ma precedentemente non andava diversamente, sono stati portati avanti dalla Cgil con debolissime mobilitazioni condotte separatamente, isolate le une dalle altre. Nemmeno la Cgil ha voluto organizzare una azione di lotta comune dei lavoratori del pubblico impiego, per i quali non ha proclamato una sola ora di sciopero, dopo un blocco contrattuale di 8 anni, ed ottenendo la maggior perdita di potere di acquisto dei salari a confronto coi rinnovi delle altre categorie: «Dobbiamo ricordare che avevamo diritto a ben 12 percentuali di aumento e che concludiamo perdendone quasi otto» (“Progetto Lavoro” del 6 marzo 2018). Lo stesso vale per le migliaia di vertenze contro licenziamenti collettivi per ristrutturazioni o chiusure aziendali, provocate dal nuovo esplodere, nel 2008, della crisi di sovrapproduzione.

La “confederalità” è intesa dalla maggioranza Cgil limitatamente ad azioni a sostegno delle grandi velleità di “cambiamento” in senso socialdemocratico della politica economica, attraverso, naturalmente, non scioperi ma manifestazioni, raccolte di firme, voti referendari. Leggiamo dalla bozza: «Una nuova confederalità deve essere capace di avere un progetto generale di trasformazione della società e di restituire dignità e libertà al lavoro»; ed ancora: «La proposta di legge [la Carta dei Diritti Universali del Lavoro; ndr] (...) dovrà rappresentare (...) il centro della nostra iniziativa generale».

c) Contrattazione innovativa

L’ultimo punto rilevante nel documento è quello relativo all’accordo intersindacale fra Cgil, Cisl e Uil e Confindustria del 28 febbraio scorso (“Contenuti e indirizzi delle relazioni industriali e della contrattazione collettiva di Confindustria e Cgil, Cisl, Uil”). «Il recente accordo con Confindustria, va nella giusta direzione», afferma la bozza di documento congressuale. In questo accordo – a parte enunciazioni generali tutte di contenuto ideologico borghese – vengono ribaditi e puntellati tutti gli avanzamenti padronali ottenuti nei rinnovi contrattuali dell’ultimo triennio: derogabilità del contratto nazionale di categoria su tutte le materie tranne i minimi salariali; aumenti salariali nella contrattazione di secondo livello (aziendale) unicamente legati al raggiungimento di obiettivi di produttività; inserimento nel computo del costo del rinnovo contrattuale delle voci relative al “welfare contrattuale”.

Si invoca poi una completa applicazione del Testo Unico sulla Rappresentanza del 10 gennaio 2014, che sinora è stata tale solo per quanto attiene alla esclusione dalle elezioni RSU delle organizzazioni sindacali che non vi hanno aderito, mentre non ha avuto seguito per quanto riguarda la misurazione e certificazione della rappresentatività (media fra iscritti a ciascuna organizzazione sindacale firmataria e voti da questa conseguiti nelle elezioni RSU), né per l’applicazione delle sanzioni in termini economici e di agibilità sindacali verso eventuali minoranze RSU che agissero contro accordi votati dalla maggioranza.

Lacrime di un coccodrillo

In una trasmissione televisiva il segretario generale della Cgil Susanna Camusso così si espresse nel 2014 – all’epoca dell’approvazione del Jobs Act – riguardo al problema del lavoro precario: «La matrice unica del precariato l’ha costruita il Parlamento per ridurre i costi contrattuali. In questo noi Cgil abbiamo commesso un grave errore: abbiamo pensato che questa [del precariato; ndr] sarebbe rimasta un’area ridotta. Nel 2007 avevamo fatto un accordo con Prodi che non si è realizzato».

Ammesso il precedente errore, ciò che fece la Cgil di fronte a un nuovo provvedimento parlamentare per aumentare in modo ancora più grave la precarietà, il Jobs Act appunto, furono le 8 ore di sciopero a legge già approvata. Quindi, se è raro che la Cgil ammetta i propri errori – si veda la bozza di documento congressuale qui in esame – anche quando questo accade non serve affatto a farle cambiare strada, anzi, si tratta di lacrime di coccodrillo utili ad avanzare sulla rotta di sempre.

Il senso dell’atteggiamento della Cgil nei confronti dell’offensiva padronale sul fronte della precarietà è importante perché ha una valenza del tutto generale riguardo la sua condotta. Essa ha cioè cercato da un lato non di opporsi frontalmente ma di gestire il peggioramento, dall’altro di farlo attraverso un accordo con un governo “amico”. Questa è la linea tenuta da questo sindacato sui più svariati fronti della lotta sindacale e ciò in quanto non si tratta di una libera scelta fra diverse opzioni da parte della sua dirigenza ma è una linea conseguente al rigetto della lotta di classe.

Facciamo due esempi. È almeno dal 2009 che il padronato in Italia ha aperto la guerra contro il contratto nazionale di lavoro, con l’obiettivo di giungere solo a contratti aziendali o territoriali. La Cgil ha sempre dichiarato essere un suo obiettivo fondamentale la difesa del contratto nazionale, ma, dopo aver inizialmente rifiutato l’accordo del 2009 sulla contrattazione fra Cisl, Uil e Confindustria, ha poi accettato quelli successivi (giugno 2011, maggio 2013, gennaio 2014, febbraio 2018), accettando la derogabilità sempre più estesa dei contratti aziendali da quelli nazionali.

Nel 2009 l’allora segretario generale della Cgil Guglielmo Epifani così si espresse riguardo all’accordo fra Cisl, Uil e Confindustria: «Il livello nazionale [i minimi salariali esclusi dalle deroghe; ndr] non recupererà mai l’inflazione reale (...) e la derogabilità diventa un principio generale» (Repubblica del 22 gennaio 2009). Non che ci volesse tanto a prevederlo, e i recenti rinnovi contrattuali gli hanno dato pienamente ragione. Poi però, da parlamentare, nel 2014 votò a favore del Jobs Act che, rendendo i lavoratori ancora più ricattabili, con il “contratto a tutele crescenti”, offre al padronato un’arma in più per abbassare i salari. Evidentemente quelle di Epifani erano affermazioni dettate da circostanze estranee alla difesa dei lavoratori e soprattutto col solo metodo che possa permetterla, quello della lotta di classe.

Se la Camusso ha fatto ammenda riguardo alla condotta della Cgil riguardo all’offensiva padronale sul fronte del precariato, forse fra un po’ di tempo vedremo il suo successore alla carica di segretario generale fare lo stesso riguardo alla questione del contratto nazionale di categoria, seppellito da deroghe che danno un valore sempre più preponderante alla contrattazione di secondo livello.

Un secondo esempio di pretesa “gestione del peggioramento” è quello relativo al cosiddetto “welfare universale”. Anche in questo caso la Cgil afferma a piena voce di volerlo difendere. Per quanto riguarda la sanità pubblica ad esempio leggiamo nella bozza di documento: «Obiettivo prioritario è ripristinare la garanzia del diritto universale alla salute, incrementando il finanziamento al Fondo sanitario nazionale». Ma questa affermazione di principio si accompagna ad una pratica che, come abbiamo visto, consiste nel dare sempre più peso al “welfare contrattuale”, al punto da computarne il valore all’interno degli aumenti salariali. Lo stesso vale per ciò che riguarda le pensioni, con sempre maggior spazio dato a quelle cosiddette integrative, offerte dai fondi di categoria gestiti bilateralmente da sindacati confederali e padronato. Oltre al fatto che le defiscalizzazioni invocate a più riprese vanno naturalmente a danno dei finanziamenti per i servizi pubblici.


Il nostro indirizzo sindacale

Nel commentare la “Traccia di discussione per Assemblee Generali” per il XVIII congresso della Cgil abbiamo tirato alcuni confronti fra questo sindacato e l’Usb. Questa scelta è dovuta da un lato al fatto che l’Usb è il maggior sindacato di base, che poniamo così a paragone col maggior sindacato di regime, pur restando in termini quantitativi enormi le distanze (5 milioni e mezzo gli iscritti dichiarati dalla Cgil a fronte di circa 40 mila nell’Usb); dall’altro che forse in questo sindacato di base è più ampia la distanza fra le enunciazioni della necessità di costruire un sindacato di classe ed una pratica che spesso poco si differenzia da quella del sindacalismo concertativo.

Abbiamo visto come la base ideologica delle dirigenze dei due sindacati sia comune, quel riformismo rancido proprio del secondo dopoguerra che include tutto quel gran calderone che volgarmente viene chiamato “sinistra” e che noi marxisti rivoluzionari definiamo democrazia post-fascista, sia essa pure “radicale”. Le due dirigenze hanno una comune origine partitica, quella del Partito Comunista Italiano che, passato in mano alla corrente centrista di Togliatti nel 1926, in parallelo con la controrivoluzione nel partito e nello Stato comunisti in Russia, si spostò nel giro di pochi anni su posizioni analoghe, se non ancora più a destra, a quelle del PSI, da cui era nato nel 1921, col nome di Partito Comunista d’Italia, Sezione della III Internazionale, attraverso una scissione guidata dalla sua sinistra, che lo diresse fino al 1923 e fu maggioritaria al suo interno fino al 1926. Di quella componente, che assunse il nome di “sinistra comunista”, è oggi espressione il nostro piccolo partito.

Se, dunque, i compagni lavoratori del nostro partito in Italia militano nell’Usb, come negli altri sindacati di base, secondo la categoria di appartenenza, ed in ogni organismo di lotta dei lavoratori venga a formarsi fuori dal controllo dei sindacati di regime (Cgil, Cisl, Uil, Ugl), ciò non è in ragione delle qualità della corrente politica cui appartengano le loro dirigenze. Non è da questo elemento che muove il criterio in base al quale il partito indica ai lavoratori – e con univoca direttiva centrale ai propri iscritti – di aderire o meno ad una data organizzazione sindacale. Nemmeno il partito comunista, di fronte a una pluralità di organizzazioni sindacali per le quali non esclude la possibilità di affermare in esse il suo indirizzo di lotta, sceglie a quale aderire in base alla pretesa maggiore prossimità ideologica della dirigenza di ciascuna di esse, bensì si batte al loro interno per la loro unità d’azione, foriera dell’unione in un unico sindacato di classe.

Questo in quanto, per i marxisti codificato almeno dal 1871, un sindacato non è un partito, ma un organo di lotta immediata della classe operaia che recluta lavoratori alla sola condizione sociale di vivere di salario, non dall’abbracciare individualmente determinate ideologie e programmi politici. Quindi in essi possono e debbono trovare accoglienza e riflesso tutti gli indirizzi sindacali espressione delle svariate posizioni politiche che trovano seguito nella classe. Ed è questo che li fa conquistabili dall’indirizzo sindacale comunista.

Il problema dei sindacati nel capitalismo contemporaneo, nella sua fase ultima dell’imperialismo, è l’incessante opera del regime borghese tesa ad inquadrarli al suo servizio al fine di imbrigliare la lotta di classe. La questione prioritaria che si pone quindi ai comunisti nella valutazione di un qualche sindacato non è il programma politico e l’ideologia della sua dirigenza ma se è in atto e quanto è avanzato il processo del suo inquadramento nel regime ideale, politico e istituzionale del capitale.

Ad esempio il nostro partito ha definito la Cgil “sindacato di regime”, fin dalla sua ricostituzione “dall’alto” sul finire della seconda guerra mondiale. Ma considerò possibile – per ben individuate ragioni oggettive – una battaglia al suo interno per riportarla ad essere un sindacato di classe. Alla fine degli anni settanta – ugualmente sulla base di evidenti ragioni oggettive – ha ritenuto chiusa questa possibilità e storicamente irreversibile la natura “di regime” di questo sindacato.

Questa valutazione scaturì da una effettiva esperienza pratica di lotta interna alla Cgil della piccola ma battagliera frazione sindacale del partito e partecipe delle vicissitudini di importanti battaglie di lotta della classe di tutto il secondo dopoguerra.

I comunisti, in linea generale, non si fanno promotori di scissioni sindacali. Fin dal 1945 il nostro partito, affermata la necessità della presenza di forti sindacati di classe sia per la rivoluzione sia in quanto organi spontanei per la difesa immediata dei salariati, indicò due strade per la loro futura rinascita in Italia: o riconquistando la Cgil (si diceva “a legnate”, cioè sotto la spinta di potenti lotte operaie e con la energica sollevazione della base contro i dirigenti), o “fuori e contro” di essa. Il non eludibile indirizzo pratico immediato fu nell’immediato dopoguerra il primo. Si passò al secondo solo quando si manifestò l’evidenza di minoritari ma consistenti gruppi di lavoratori che, nella lotta, non solo si trovarono a dover affrontare ad un tempo sia il padrone sia la Cgil, ma tanto da doversi organizzarsi fuori e contro di essa per poter scioperare. La nascita negli anni successivi dei “sindacati di base” confermò questo processo che il partito seppe riconoscere, traendone il conseguente indirizzo pratico.

L’Unione Sindacale di Base, nata a cavallo fra anni ‘70 ed ‘80 nel pubblico impiego e che solo successivamente ha iniziato ad estendersi al settore privato, non è stata ancora messa alla prova di ondate di lotta di classe paragonabili a quelle del primo trentennio del dopoguerra, attraversando al contrario un arco storico caratterizzato da relativa pace sociale. Possiamo solo affermare che la battaglia condotta dai nostri compagni in questo sindacato di base, che ha fornito utili conferme della correttezza del nostro indirizzo sindacale e della nostra dottrina, non ci porta, finora, a considerare questo sindacato alla stessa stregua di quelli di regime.

PARTITO COMUNISTA INTERNAZIONALE

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